2024-07-18
Dazi, trivelle e freno all’inflazione: la Trumponomics parte dal Texas
Donald Trump e William McKinley in foto piccola (Getty Images)
Il tycoon vuole barriere doganali (anche contro l’Ue), addio al green, ritorno della produzione in patria e tagli alle tasse. Lo Stato del Sud sarà sempre più centrale. La ricetta convince pure ispanici e afroamericani.«The tariff king» è il soprannome con cui Donald Trump ricorda il venticinquesimo presidente degli Stati Uniti, William McKinley. Colui che prima di essere assassinato nel 1901 inaugura la strategia dei dazi. «McKinley ha reso gli Usa ricchi», spiega Trump senza mezzi termini ai giornalisti di Bloomberg cui concede una lunga intervista da una delle terrazze di Mar-a-Lago. Questo per mettere in chiaro che se si insedierà di nuovo alla Casa Bianca tirerà dritto sulla strada delle barriera sia nei confronti della Cina sia dell’Europa. Nulla di nuovo in fondo, ma nell’intervista c’è molto di più. Idee e spunti su tasse, tassi, energia e, sebbene non sempre in modo lineare, le linee guida di quella che può essere definita la Trumponomics: la strategia economica del tycoon e dei suoi possibili collaboratori in caso di vittoria a novembre. L’obiettivo - ripete Trump -è riportare a casa il business e non solo quello manifatturiero. Ma per arrivare al nuovo sostegno della classe operaia, Trump dovrà - cosa non facile se si parte con le barriere doganali - tenere sotto controllo l’inflazione e avere un buon rapporto dinamico con il prossimo governatore della Federal reserve in modo che la gestione dei tassi sia allineata con le idee della Casa Bianca. Tema complesso visto che là dove le Banche centrali si muovono su ordine dei presidenti (pensiamo alla Turchia) l’effetto inflattivo è garantito. D’altra parte Trump ignora l’ipocrisia. Quel concetto secondo cui la Fed (ma vale anche per la Bce) è tenuta alla totale indipendenza. Sappiamo che le cose vanno di solito diversamente e il pregio di Trump è non avere filtri. Una grande trasparenza che però non è sufficiente se si punta al successo. E qui entreranno in ballo i consiglieri. Ad esempio, con la trasformazione del partito e l’ingresso del vice J.D. Vance vediamo che sempre meno idee arrivano dal gruppo dei fratelli Koch (coloro che hanno riportato in vita il Tea Party) e in compenso alza il tiro la Heritage foundation. Come svalutare il dollaro e creare un flat tax. D’altronde lo stesso tycoon ha detto più volte di voler abbassare l’aliquota massima al 15%. Ottimo per le aziende, poco rilevante per le due categorie che nelle ultime settimane si sono avvicinate al Gop: ispanici e neri. Per evitare loro i salassi imposti dalle politiche di Joe Biden, l’idea del candidato Maga è molto semplice. Rivedere l’intero modello di transizione green e dire di nuovo sì e in modo pesante alle licenze di trivellazione. «We have more liquid gold than anybody», spiega Trump riferendosi all’oro nero. Quindi via a nuove trivellazioni. E al tempo stesso revisione delle politiche migratorie e alle regolarizzazioni dei lavoratori che provengono da Sud. Due pilastri che andranno a dare nuova spinta a un trend già in atto: il rafforzamento del Texas e del suo peso politico dentro l’Unione. Da ormai due anni assistiamo a grandi multinazionali che lasciano la California o la costa Est per aprire sedi in Texas. Meno burocrazia, meno tasse, niente follie woke ed energia a costo più basso. Harold Hamm, presidente esecutivo della Continental resources, esperto di gas e petrolio e grande supporter del Gop dopo aver criticato le politiche restrittive di Biden, ha detto nero su bianco: «Le limitazioni e la grande confusione strategica imposta fino a oggi ha spinto le aziende a fermare gli investimenti e accantonare grandi somme liquide». Ma, ha aggiunto: «Quando Trump sarà rieletto quei capitali torneranno a fiorire». E a quel punto il Texas, meta da ieri anche di Elon Musk e unico Stato negli Usa ad avere un centro produttivo della Apple, si candiderà a divenire la locomotiva della Trumponomics. Non è un caso che il grande fondo Blackrock lavora all’ipotesi di aprire una Borsa a Dallas entro due anni. Così come non è complicato capire il grande riposizionamento in atto. Non tanto della Silicon Valley, ma soprattutto dei grandi fondi finanziari. Va detto riposizionamento da ambo i lati. Pensiamo al nome di Jamie Dimon. Il capo supremo di J.P Morgan, stando a indiscrezioni non smentite dall’entourage di Trump, potrebbe diventare il prossimo segretario di Stato al Tesoro. Un uomo non forte, ma fortissimo che se al fianco di Trump influenzerebbe sicuramente anche le decisioni della Fed. L’interessato non smentisce. Per forza, solo pochi mesi fa si era ampiamente ricreduto spiegando che l’ex presidente su Cina, Nato, dazi e molti altri aspetti dell’economia ci aveva preso. Interessante. Ma di più è il cambio di paradigma dell’uomo di Mar-a-Lago. Il quale aveva definito Dimon «il capo dei globalisti». La finanza servirà molto ai Repubblicani visto che Trump vorrebbe rimettere in piedi lo schema pro lavoro e taglia tasse, ma in cambio dovrà gestire un deficit da 4.600 miliardi. Mica poco. Anche qui tornerà utile il Texas. Non a caso gli altri candidati a diventare segretario al Tesoro si chiamano Brooke Rollins e Scott Bessent. Il primo è il capo dell’Afpi, America first policy institute, guarda caso basato a Dallas. Il secondo un pezzo grossissimo degli hedge fund, ostile a Janet Yellen e fautore dell’energia tradizionale. Insomma, un mondo che nulla ha che spartire con quello dei democratici. Se poi, pronti e via, Trump riallaccerà i rapporti con Bin Salman e l’Arabia e porterà investimenti in Israele, si capisce come sterzerà l’economia.