
L'istituto ha perso il competente dem, ma non il vizio: detta la linea all'esecutivo e si sente la Caritas. Pensi alle pensioni.Sbagliare è umano, perseverare è Inps. L'Istituto nazionale di previdenza sociale era stato pesantemente - e giustamente - criticato sotto la gestione di Tito Boeri proprio per l'indebita carica di politicità delle esternazioni del suo presidente: dalle polemiche pressoché quotidiane verso Matteo Salvini e Luigi Di Maio alle sfuriate contro quota 100, passando per le indimenticabili sortite sugli immigrati che (spiegava) pagavano le pensioni agli italiani. Per anni, Boeri ha mediaticamente usato la presidenza dell'istituto anche come uno sgabello per rampogne, appelli politici, bacchettate al governo, comizi e moniti.Il guaio è che, con il cambio di presidenza e l'arrivo - al posto di Boeri - di Pasquale Tridico, la musica non è cambiata. O meglio: è cambiato in parte il contenuto degli interventi (oggi di stretta osservanza filogrillina), ma la logica del comizio politico è rimasta. Giova dunque ricompitare le prime regole della grammatica istituzionale: all'Inps non tocca dettare la linea politica a governo e Parlamento, ma solo (e non è poca cosa) dare attuazione alle norme previdenziali esistenti. Di più: l'Inps non è una specie di ministero economico ombra, o un ufficio studi, o un think tank chiamato a introdurre temi nella discussione pubblica, a sostenere alcune tesi, a confutarne altre. Si dice che tre indizi facciano una prova. Il primo indizio risale alla prima metà di maggio (si era in piena campagna per le europee), con i grillini in grande affanno e in cerca di un jolly, di un golden gol da campagna elettorale, che Di Maio aveva identificato in un decreto famiglia da varare al più presto. Il 13 maggio, fu proprio Pasquale Tridico a veicolare in un'intervista alla Stampa una tesi abbastanza scombiccherata. Riassunto: usare la minor spesa di circa 1 miliardo dovuta alle domande di reddito di cittadinanza inferiori al previsto come una sorta di tesoretto, come una posta di bilancio spostabile altrove (nell'ipotesi Di Maio-Tridico, per quel decreto, e quindi per famiglie e occupazione femminile). Invano La Verità provò a spiegare lo svarione tecnico in cui il presidente Inps e il leader grillino erano caduti: quando si verifica una minore spesa (nel quadro di una spesa più ampia già prevista in deficit), non vuol dire che il governo abbia un assegno circolare in tasca da spendere in altro modo. Morale: non c'era nessun tesoretto, ma solo un buco meno profondo, altro che quattrini da sventolare per l'ultimo sprint della campagna elettorale europea. Così, toccò a Giovanni Tria alzare la paletta e fermare l'operazione. Secondo indizio, poche settimane fa: mega evento all'Inps per l'assunzione di nuovi dipendenti, concluso dal tandem Di Maio-Tridico, in un tripudio di «caro Pasquale» e «caro Luigi». Una notizia di per sé buona, cioè un concorso che aveva prodotto assunzioni (in misura rilevante - ulteriore elemento positivo - per coprire spazi lasciati liberi dal turnover creato da quota 100), fu trasformata in un evento a forti tinte politiche (monocolore grillino, peraltro). «Vi affido i cittadini italiani che accederanno al reddito di cittadinanza», gridò Di Maio. «Una grande operazione di assunzione, probabilmente la più grande nel pubblico impiego degli ultimi 30 anni», rilanciò Tridico. Per non farsi mancare nulla, Di Maio rincarò ancora: «La più grande assunzione dai tempi della prima Repubblica».Il terzo indizio riguarda un recentissimo intervento di Tridico al Cnel sul salario minimo. Più che un intervento: un comizio fiammeggiante, con tanto di slide sul potere contrattuale delle imprese superiore a quello dei lavoratori, sul mancato decollo del secondo livello di contrattazione (aziendale o territoriale), sul (testuale) «tentativo da parte del sistema di aggirare i vincoli di rigidità», con passaggi contro i sindacati minori e le associazioni datoriali più piccole, e quindi - in ultima analisi - con un appello pressante a introdurre il salario minimo, attuale totem dei 5 stelle. Ora, al di là del merito, giova tornare al punto di partenza: l'Inps deve occuparsi di attuare le norme esistenti in materia di pensioni, non di salario minimo. Di salario minimo si occupino semmai il ministero del Lavoro e il Parlamento, posto che esista una maggioranza parlamentare a favore di questa misura, non priva di criticità significative (a partire dai gravami sulle imprese e sul resto dei contribuenti). Inutile girarci intorno. L'Inps è oggi l'ultima trincea dei grillini in crisi. Vogliono farne un soggetto che si dedichi alla lotta alla povertà (come se fosse una specie di Caritas), più il centro motore di una visione ideologica alla venezuelana, con uno Stato onnipresente, una maggiore rigidità e centralizzazione del mercato del lavoro, un allargamento della sfera della decisione e dell'intervento pubblico, peraltro in settori estranei alla materia previdenziale. Fino alla prossima battaglia già pronta (si sussurra), un cavallo di battaglia quasi bertinottiano: la riduzione dell'orario di lavoro. È l'ora che qualcuno ricordi - a tutti - compiti e confini. All'Inps tocca occuparsi di previdenza. Inclusi i servizi ai cittadini, gli uffici che (a volte) non funzionano, i dipendenti che (talora) non rispondono. Non siamo in presenza di un'authority indipendente o di una repubblica autonoma.
John Grisham (Ansa)
John Grisham, come sempre, tiene incollati alle pagine. Il protagonista del suo nuovo romanzo, un avvocato di provincia, ha tra le mani il caso più grosso della sua vita. Che, però, lo trascinerà sul banco degli imputati.
Fernando Napolitano, amministratore delegato di Irg
Alla conferenza internazionale, economisti e manager da tutto il mondo hanno discusso gli equilibri tra Europa e Stati Uniti. Lo studio rivela un deficit globale di forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero, elementi chiave che costituiscono il dialogo tra imprese e decisori pubblici.
Stamani, presso l’università Bocconi di Milano, si è svolta la conferenza internazionale Influence, Relevance & Growth 2025, che ha riunito economisti, manager, analisti e rappresentanti istituzionali da tutto il mondo per discutere i nuovi equilibri tra Europa e Stati Uniti. Geopolitica, energia, mercati finanziari e sicurezza sono stati i temi al centro di un dibattito che riflette la crescente complessità degli scenari globali e la difficoltà delle imprese nel far sentire la propria voce nei processi decisionali pubblici.
Particolarmente attesa la presentazione del Global 200 Irg, la prima ricerca che misura in modo sistematico la capacità delle imprese di trasferire conoscenza tecnica e industriale ai legislatori e agli stakeholder, contribuendo così a politiche più efficaci e fondate su dati concreti. Lo studio, basato sull’analisi di oltre due milioni di documenti pubblici elaborati con algoritmi di Intelligenza artificiale tra gennaio e settembre 2025, ha restituito un quadro rilevante: solo il 2% delle aziende globali supera la soglia minima di «fitness di influenza», fissata a 20 punti su una scala da 0 a 30. La media mondiale si ferma a 13,6, segno di un deficit strutturale soprattutto in tre dimensioni chiave (forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero) che determinano la capacità reale di incidere sul contesto regolatorio e anticipare i rischi geopolitici.
Dai lavori è emerso come la crisi di influenza non riguardi soltanto le singole imprese, ma l’intero ecosistema economico e politico. Un tema tanto più urgente in una fase segnata da tensioni commerciali, transizioni energetiche accelerate e carenze di competenze nel policy making.
Tra gli interventi più significativi, quello di Ken Hersh, presidente del George W. Bush Presidential Center, che ha analizzato i limiti strutturali delle energie rinnovabili e le prospettive della transizione energetica. Sir William Browder, fondatore di Hermitage Capital, ha messo in guardia sui nuovi rischi della guerra economica tra Occidente e Russia, mentre William E. Mayer, chairman emerito dell’Aspen Institute, ha illustrato le ricadute della geopolitica sui mercati finanziari. Dal fronte italiano, Alessandro Varaldo ha sottolineato che, dati alla mano, non ci sono bolle all’orizzonte e l’Europa ha tutti gli ingredienti a patto che si cominci un processo per convincere i risparmiatori a investire nelle economia reale. Davide Serra ha analizzato la realtà Usa e come Donald Trump abbia contribuito a risvegliarla dal suo torpore. Il dollaro è molto probabilmente ancora sopravvalutato. Thomas G.J. Tugendhat, già ministro britannico per la Sicurezza, ha offerto infine una prospettiva preziosa sul futuro della cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea.
Un messaggio trasversale ha attraversato tutti gli interventi: l’influenza non si costruisce in un solo ambito, ma nasce dall’integrazione tra governance, innovazione, responsabilità sociale e capacità di comunicazione. Migliorare un singolo aspetto non basta. La ricerca mostra una correlazione forte tra innovazione e leadership di pensiero, così come tra responsabilità sociale e cittadinanza globale: competenze che, insieme, definiscono la solidità e la credibilità di un’impresa nel lungo periodo.
Per Stefano Caselli, rettore della Bocconi, la sfida formativa è proprio questa: «Creare leader capaci di tradurre la competenza tecnica in strumenti utili per chi governa».
«L’Irg non è un nuovo indice di reputazione, ma un sistema operativo che consente alle imprese di aumentare la protezione del valore dell’azionista e degli stakeholder», afferma Fernando Napolitano, ad di Irg. «Oggi le imprese operano in contesti dove i legislatori non hanno più la competenza tecnica necessaria a comprendere la complessità delle industrie e dei mercati. Serve un trasferimento strutturato di conoscenza per evitare policy inefficaci che distruggono valore».
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