2025-10-06
Ti bollano come islamofobo e finisci in galera
Dire le cose come stanno costa caro: Charlie Kirk è stato ucciso, la Rowling viene insultata sui social perché afferma che un uomo non è una donna e in Uk parlare di sottomissione può portare all’arresto. Oggi viene beatificato unicamente chi racconta frottole.La verità può fare male, molto male. Può fare molto male a chi non vuole ascoltarla e il tizio che non vuole ascoltarla, di conseguenza, farà molto male a chi si è azzardato a dirla. Pungere è un verbo lieve, quasi canzonatorio, ma contiene il concetto del sangue che sarà versato, il fiume di sangue che Charlie Kirk ha perso dalla carotide lesionata, per esempio.La menzogna spesso paga, paga con denaro, il fiume di denaro con cui il Qatar e Hamas sostengono la loro propaganda, sostituendo quello che per decenni arrivava dall’Unione sovietica; paga con il potere; paga semplicemente con la quiete di evitare una persecuzione. L’olio unge: si ungono le rotelle perché scorrano meglio, la metafora dell’olio e dell’unto si usa sempre per indicare la corruzione. L’unto macchia. Come dicono molti: meglio una macchia di unto che di sangue. L’islamofobia è un marchio senza possibilità di perdono. Un’accusa di islamofobia nel Regno Unito, fino al precedente governo, distruggeva la carriera, oggi porta anche dritto in galera. Affermate la verità, ovvero che c’è in corso un processo di islamizzazione né pacifico né indolore, e vi arrestano. Sventolare la bandiera inglese è considerato un gesto di odio da punire. Dato quanto sopra, un sorprendente numero di poliziotti, magistrati, assistenti sociali, insegnanti, impiegati di patronati, addetti alle mense e alle palestre, è riuscito a non accorgersi di un numero di violenze e stupri che non riusciremo mai a calcolare da parte di gang di pachistani islamici a carico di ragazzine bianche e cristiane o comunque non islamiche.Qualche genitore che si è reso conto ed è intervenuto, si è «accidentalmente» ritrovato defunto e, sempre, la sua morte è stata considerata l’effetto di una qualche misteriosa serie di sfortunati eventi. L’accusa di islamofobia punge. Meglio l’unto della vigliaccheria. Anche dire la verità sul movimento Lgbt è una scorciatoia per l’inferno. Disoccupazione, minacce, odio. La «T» di Lgbt sta per trans, un nonsenso biologico. Come giustamente sosteneva Kirk, la regola di una società dovrebbe essere «vivi e lascia vivere», se qualcuno crede essere del sesso opposto dovrebbe avere la libertà di vestirsi come meglio crede. La follia è che tragici interventi di castrazione che creano malattia e dolore cronici e non risolvibili sono finanziati dal servizio nazionale, anche se è dimostrato che questi interventi moltiplicano il rischio di suicidio. La tragedia è che qualsiasi maschio si dichiari fanciulla può penetrare nei bagni delle donne, nei loro spogliatoi, nelle celle dove avvengono stupri, possono rubare alle donne le vittorie sportive, possono rubare le parole sacre donna, e madre.Una oscena dittatura impone parole e pronomi, fino alla prigione come succede nel Regno Unito dove, se qualcuno osa dire la verità ovvero si rivolge correttamente a un maschio come ci si deve rivolgere ai maschi, si finisce in cella. La signora J.K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter, ha osato dire la verità: una donna è una donna, i maschi che si dichiarano donne sono un danno per le donne. Due verità inoppugnabili ma è ricoperta sui social da insulti di una sconvolgente violenza sessista. Questa presa di posizione della signora Rowling a favore della verità, costi quel che costi, dimostra ulteriormente che fa parte della squadra buona. Vale la pena di leggere la storia della sua vita. La racconta Marina Lenti (J.K. Rowling. Nel suo mondo di parole, Ares edizioni). Vale la pena di leggere la sua vita, perché è una persona che ha venduto milioni di copie, ha cambiato l’immaginario collettivo e ora sta infrangendo un tabù orrendo che porta ragazzini confusi alla mutilazione e al suicidio.E poi c’è la beatificazione del terrorismo comunista. Le Brigate rosse vogliono dire morti e feriti. L’apogeo delle Brigate rosse è stato il rapimento di Aldo Moro, che non erano in grado di fare da sole. Il generale Piero Laporta (Raffiche di bugie a via Fani) propone una ricostruzione che smonta la narrativa ufficiale, evidenziando le incongruenze di ciò che accadde in via Fani il 16 marzo 1978. Aldo Moro non è stato rapito in via Fani. In via Fani furono rinvenuti 91 bossoli, 49 dei quali sparati da un tiratore mai identificato dotato di un’abilità propria delle forze speciali, 42 sparati dai sei brigatisti con una perizia da tiratori scelti. I brigatisti non avevano capacità militari e l’azione non è credibile. Nessuno è in grado di sparare 91 colpi con la certezza di non colpire il futuro ostaggio. L’unica possibile spiegazione è che Aldo Moro non fosse in via Fani. Nelle lettere fatte ritrovare, Moro non fa cenno alla morte dei cinque uomini della scorta. Scrive solo che la sua scorta era stata inadeguata. Questa assenza d’interesse dimostra che era ignaro della loro sorte, sapeva solo che si erano lasciati ingannare da chi lo aveva «prelevato».In una lettera a Francesco Cossiga usa il termine «prelevamento», non rapimento. Perché gli assassini hanno usato secondi preziosi per finire uno per uno gli uomini della scorta? E, soprattutto, perché questi uomini non hanno risposto al fuoco? Perché avevano le mitragliette nel bagagliaio, dato che Moro non era con loro. Tutta la storia può stare in piedi solo se si introduce un elemento nuovo: mister X. Supponiamo un l’antefatto: nella chiesa di Santa Chiara, dove Moro si recava a pregare tutte le mattine prima di andare al lavoro, arriva mister X, un generale di qualche cosa oppure un uomo politico molto importante, accompagnato da uomini in divisa. Mister X spiega che aspettano Moro in un agguato. Lui e i suoi uomini prelevano, quindi, il politico per portarlo in Senato. Mister X doveva essere noto a Oreste Leonardi, capo scorta, che mai avrebbe affidato il suo presidente a sconosciuti. Ora in un secondo libro, imperdibile, Omertà e bugie su Aldo Moro: magistrati sotto accusa. Il Togalitarismo, Laporta aggiunge nuovi, sconvolgenti elementi: Moro aveva quattro costole rotte.Non lo abbiamo mai saputo. Come medico testimonio che l’autopsia ha avuto un incomprensibile livello di sciatteria. Non sono stati fatti prelievi bioptici per stabilire quando le costole siano state rotte, se sia stato un trauma unico o ripetuto. Il brigatista Mario Moretti racconta che, dopo il sequestro, Moro era «indenne» (costole a posto, dunque). Anna Laura Braghetti, la presunta carceriera padrona di casa, ricorda che l’ostaggio «dormì profondamente» (costole a posto, sicuro). Ancora Moretti garantisce che Moro rimase con loro tutti i 55 giorni, dal rapimento all’uccisione. Bene: come, dove e quando si fratturò le quattro costole? Nessuno in 47 anni si è mai azzardato a chiederlo agli assassini. Forze dell’ordine, magistratura inquirente e giudicante, commissioni parlamentari, Vaticano, servizi segreti, diplomazia, moglie, figlio, parenti e amici, avvocati di parte civile, giornali, inchieste, libri e biografie: l’ordine è non chiederglielo.A quel punto, è evidente che «accadde altrove». E allora andrebbe riscritta la storia d’Italia dell’ultimo mezzo secolo. Roberto Chiodi scoprì le costole rotte, una notizia enorme, travolgente perché quel tipo di frattura, composta, è una precisa tattica di tortura. Da 47 anni salmodiano in coro il «caso Moro»: «Le Br rapirono Aldo Moro a via Mario Fani, massacrarono la scorta; trattarono umanamente il rapito». Il rapito è stato torturato, il rapito aveva quattro costole rotte, ogni suo respiro era tortura. Perché? Per farsi rivelare cosa? Moro conosceva tutti i piano della Nato e non è certo la Cia che poteva essere interessata. La verità può fare molto male, certo, può portare alla morte, ma è molto più divertente morire per qualche cosa che vivere per nulla e morire per aver detto la verità è un esempio di bella morte. Lo specifica anche la Bibbia, nel libro del Siracide: «Combatti fino alla morte per la verità e Dio combatterà con te».
Xi Jinping (Getty Images)
(Guardia di Finanza)
Coordinati dall'EPPO (Procura europea) di Bologna, i militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Prato hanno dato esecuzione a provvedimenti emessi dai Tribunali di Ferrara e Trani, indirizzati a colpire un’associazione criminale dedicata alla vendita di auto di lusso di origine tedesca. Il profitto del reato ricostruito dalle Fiamme Gialle pratesi ammonta complessivamente a circa 43 milioni di euro, cifra confermata dagli organi giudicanti nell’ambito delle ordinanze che hanno disposto l’applicazione di misure cautelari reali sui capitali sociali di 8 società, 7 appezzamenti di terreno, 3 immobili residenziali, un concessionario auto, 41 automobili (tra le quali spiccano Ferrari, Lamborghini e Porsche) per un valore di mercato complessivo di circa 3,5 milioni di euro ed oltre 50 conti bancari con disponibilità liquide complessive, al momento, di oltre € 1,2 milioni di euro. Contestualmente alla notifica dei provvedimenti sono state eseguite perquisizioni locali di oltre 15 siti tra residenze, sedi di imprese attive ed altre unità locali nella disponibilità degli indagati.
Le attività investigative condotte dai Finanzieri del Gruppo di Prato sono partite da un esposto presentato da un cliente che lamentava difficoltà nelle pratiche dell’immatricolazione di un'auto usata acquistata tramite un concessionario multimarca da un venditore tedesco. Le preliminari prove raccolte hanno permesso di individuare l’esistenza di un contesto criminale di proporzioni ben più ampie, tali da interessare l’area di competenza della Procura Europea. Sotto la direzione della citata autorità sono stati svolti accertamenti di polizia giudiziaria, con esecuzione di intercettazioni telefoniche, indagini bancarie, perquisizioni presso agenzie di pratiche auto, ricostruzione dei flussi di vendita di oltre 1.700 automobili, oltre ad iniziative di cooperazione internazionale con le autorità tedesche e lo sviluppo di indagini transfrontaliere. Il quadro probatorio ha evidenziato l’esistenza di un sistema profondamente organizzato di raccolta degli ordini di acquisto tramite concessionarie multimarca compiacenti, l’individuazione dei veicoli «target» presso grandi rivenditori di usato tedeschi e la definizione di pratiche di importazione tali da permettere l’immatricolazione in Italia dei veicoli senza il pagamento dell’IVA, ricorrendo a società di comodo estere, intestate a prestanome e flussi di falsa fatturazione.
Inoltre, per rendere ulteriormente difficoltosa la riconducibilità dello schema evasivo alle concessionarie coinvolte, gli indagati hanno escogitato schemi di periodica cessazione e riapertura delle partite IVA usate per l’acquisto delle auto, senza tuttavia variare l’ubicazione degli showroom e l’insegna commerciale utilizzata, così da continuare a beneficiare della visibilità commerciale acquisita nel tempo.
Il risparmio fiscale indebitamente realizzato costituiva la base per l’attuazione di strategie di pricing aggressivo, immettendo nel mercato vetture di fascia alta e medio-alta a prezzi molto concorrenziali.
Il castello accusatorio composto dai Finanzieri di Prato, sotto il coordinamento della Procura Europea di Bologna si è tradotto in due richieste di adozione di misure cautelari reali trasmesse ai competenti tribunali di Ferrara e Trani. Le autorità interessate hanno condiviso totalmente le tesi accusatorie formulate restituendo due provvedimenti di sequestro finalizzati alla confisca per un importo complessivo di circa 43 milioni di euro, la cui esecuzione è stata accompagnata da mirate attività di perquisizione domiciliare a carico degli indagati e delle sedi delle imprese coinvolte.
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Ll’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti (Ansa)