Lo Zimbabwe, protetto da Pechino, blocca l’export di litio. Mentre la Cina ha fatto scorta di metalli strategici, l’Ue rischia di restare a secco. Scoperto un maxi giacimento in Svezia, ma per le estrazioni serviranno 15 anni.
Lo Zimbabwe, protetto da Pechino, blocca l’export di litio. Mentre la Cina ha fatto scorta di metalli strategici, l’Ue rischia di restare a secco. Scoperto un maxi giacimento in Svezia, ma per le estrazioni serviranno 15 anni.Lo Zimbabwe da solo è in grado di soddisfare un quinto della richiesta globale di litio, una delle terre rare più ricercate perché elemento base per le batterie elettriche. Da ieri lo Stato africano ha bloccato l’export della materia grezza. Ufficialmente Harare ha dichiarato l’obiettivo di volere attrarre investimenti industriali e avere in loco fabbriche per la produzione di batterie. Molto più probabilmente lo stop rientra in una più ampia strategia cinese (Pechino è da anni padrino e protettore dello Zimbabwe) per trasformare le materie prime in arma economica e geopolitica. Il Dragone ha fatto ampia scorta di metalli industriali e pure di terre rare, tanto che può permettersi di fronteggiare sia un’ondata di scarsità sia un trend di rialzi di prezzo. Ma il problema del 2023 sarà la mancanza di materie prime, così come quello del 2022 è stato l’energia. «C’è un serio tema legato alla difficoltà di fare approvvigionamenti», ha dichiarato ieri Jeremy Weir, l’ad di Trafigura, player della logistica delle materie prime. «Ma ad aggravare la scarsità di materie prime», ha aggiunto, «c’è il fatto che la soluzione non c’è in questo momento. Servono investimenti a lungo termine e un piano strategico di anni». L’allarme non può lasciarci insensibili. Né lasciare insensibile la nostra politica. Almeno metà del Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza, rischia di risentirne. L’intero modello di digitalizzazione dell’Europa è strettamente correlato alla capacità di reperire terre rare e metalli evoluti. Ne segue però che in un contesto di deglobalizzazione le materie prime vengono usate sempre più come strumento politico. Dobbiamo quindi da un lato accogliere con un certo sollievo la notizia proveniente dal Nord Europa della scoperta di un maxi giacimento di terre rare, ma dall’altro interrogarci sul perché la classe politica ci abbia portato fino all’orlo del baratro. Sul primo versante, quello delle buone notizie, l’annuncio da parte del gruppo minerario svedese Lkab di aver individuato nella regione di Kiruna, nell’estremo Nord del Paese, «il più grande deposito conosciuto di terre rare in Europa (che conterrebbe più di un milione di tonnellate di metalli), rischia di essere un game changer. Finalmente una prima possibilità di renderci autonomi. Attualmente l’Europa dipende in larga misura da Russia e soprattutto Cina per l’importazione delle terre rare che sono necessarie e dunque individuare un giacimento di queste dimensioni all’interno dell’Unione può rappresentare una svolta nelle dinamiche geopolitiche anche se occorreranno dai 10 ai 15 anni prima di poter effettivamente avviare le operazioni di estrazione. La Svezia, che a gennaio ha assunto le redini della presidenza di turno dell’Unione europea, riveste già ora un ruolo chiave nelle ambizioni di energia rinnovabile del blocco. Il Paese fornisce infatti circa il 90% del minerale di ferro del continente, la maggior parte proveniente dalle miniere di Lkab nel Nord. La Commissione europea considera le terre rare tra le risorse più critiche per la regione considerato che la domanda dovrebbe aumentare nei prossimi anni a causa di un aumento dei veicoli elettrici e delle energie rinnovabili. Un punto sottolineato dal ministro dell’energia della Svezia Ebba Busch: «L’elettrificazione, l’autosufficienza e l’indipendenza delle Ue dalla Russia e dalla Cina inizieranno in questa miniera», ha detto, un fatto di estrema importanza in un contesto geopolitico difficile a cause dell’invasione russa dell’Ucraina. Nel discorso sullo stato dell’Unione dello scorso settembre, il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva sottolineato come il fabbisogno di terre rare dell’Europa secondo le previsioni aumenterà di cinque volte entro il 2030 e in quest’ottica bisognerebbe «evitare di ritrovarci di nuovo in una situazione di dipendenza, come per petrolio e gas». Uno scenario che secondo l’amministratore delegato di Lkab, Jan Mostrom, dovrebbe essere evitato proprio grazie alla scoperta del giacimento. «Sono fiducioso che avrà questo un impatto considerevole per ridurre la dipendenza dalla Cina», ha dichiarato ieri Mostrom all’Afp spiegando che il giacimento di Kiruna consentirà di fabbricare «una parte significativa» dei magneti utilizzati nei motori delle auto elettriche prodotte in Europa entro il 2035. Purtroppo le dichiarazioni sono eccessivamente ottimistiche. Proprio per il fatto che per mettere a regime il giacimento ci vogliono tanti fondi e molti anni. Nel frattempo, la situazione si farà critica e la Cina saprà come gestire a suo favore la penuria di materie prime. Le frasi del manager svedese e dei politici Ue ci portano anche alla seconda considerazione. Se si abbandona la mania dell’ecologismo spinto, si scava e si trovano metalli e materie prime. L’Italia ha la possibilità di entrare nel business e soprattutto di partecipare a una quota di autonomia e di sovranità. Tutto ciò andava fatto prima. Anni fa, quando l’economia andava bene e i prezzi non erano alle stelle.
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