2022-10-27
Sulle desinenze al femminile la Boldrini la pensa (senza saperlo) come Evola
Laura Boldrini (Imagoeconomica)
Contraddizioni ideologiche: negli anni Sessanta, il femminismo chiedeva nomi maschili per i lavori delle donne e il filosofo protestava, per ragioni ben diverse dalla deputata pd.Timoniere della «nave Italia da portare in porto», sì. Capatrena, invece, proprio no. Giorgia Meloni continua a giocare con le ossessioni linguistiche e ideologiche della sinistra come un adulto che faccia finta di rubare il naso a un bimbo. Prove politiche ben più dure stanno per arrivare, ma per ora la leader di Fdi sembra soprattutto divertirsi a irridere degli avversari emuli di Comunardo Niccolai, l’arcigno difensore del Cagliari famoso per i suoi autogol. È stato quindi sin troppo facile, per la Meloni, strappare alla Camera una risata liberatoria quando ha ironizzato: «Si è fatta polemica su “il presidente”, “la presidente”, non ho mai considerato che la grandezza della libertà delle donne fosse potersi far chiamare “capatrena”. Sono punti di vista, priorità diverse». Andrea Scanzi, a Otto e mezzo, ha pensato bene di insistere: «Semmai si dice capatreno». Alessandro Giuli, compassionevole, è dovuto intervenire: «Guarda che era una battuta». Ma il senso dell’ironia, nel campo progressista, è da tempo uccel di bosco, insieme al suo compagno di latitanza, il senso del ridicolo. La riscrittura del vocabolario a beneficio dell’intersezionalismo militante pare del resto destinata a naufragare sugli scogli di infinite contraddizioni. Pensiamo solo all’idea di declinare ogni professione sulla base del genere, quando al contempo si sostiene che quest’ultimo sia fluido, non incasellabile, sempre cangiante. Ma se non esistono più uomini e donne, perché dobbiamo avere avvocati e avvocate? Uno degli esiti paradossali di questa campagna è che, in fatto di nomenclatura sessuata, può anche succedere che Laura Boldrini si trovi a sostenere suo malgrado le posizioni di un pensatore come Julius Evola. Sulle qualifiche professionali declinate al femminile, infatti, l’ex presidente della Camera e l’autore di Rivolta contro il mondo moderno la pensavano nello stesso modo, sia pur per ragioni opposte. In un articolo intitolato «Servilismi linguistici», e uscito sul Secolo d’Italia del 28 luglio 1964 - ripescato in queste ore dallo studioso Sandro Consolato - Evola si lamenta: «Si è arrivati a tal punto che le donne che esercitano la professione legale si offendono se vengono chiamate “avvocatesse” anziché “avvocati” al maschile: per cui è ormai uso che così vengono appellate nelle aule. La cosa sembra estendersi nel senso che anche a “dottoressa” si vuol dare l’ostracismo, per sostituirvi “dottore” al maschile - in effetti, così ci è capitato di udire nella versione italiana di film americani e inglesi e talvolta nella Radio-Tv». Per Evola si tratta di un cattivo calco dell’inglese. In italiano, però, le cose stanno in maniera diversa, perché qui «si può parlare senz’altro di avvocatessa, di dottoressa, di ambasciatrice [...], di maestra o professoressa. Staremo a vedere se anche nelle scuole si arriverà ad esigere dai bambini di chiamare “maestro” la maestra, rinunciando naturalmente ad un appellativo rispettoso, perché se no si dovrebbe dire “signor maestro” alla maestra». Ora, questioni linguistiche a parte, perché, secondo Evola, si è affermata questa moda? Ecco la spiegazione del pensatore: «Naturalmente, quando una donna si offende se la chiamano “avvocatessa”, entra in questione, anche e soprattutto, una fatua “rivendicazione” femminista la quale non parla troppo in favore della logica femminile». Ebbene sì, c’è stato un tempo in cui il femminismo chiedeva l’omologazione di uomini e donne, anche nei nomi, non l’esaltazione artificiosa dell’alterità. La critica di Evola è però sferzante: «A noi sembrerebbe che l’ambizione dovrebbe essere, se mai, quella di parificarsi, non di assimilarsi. Tenere al titolo di “avvocato” (e simili) al maschile significa, in fondo riconoscere l’avvocatura come una prerogativa maschile. [...] Così in questo, come in altri casi, le presunte rivendicazioni della donna nascondono una abdicazione: il contrario dell’affermare e diffondere la propria natura; per valorizzarsi si prende in prestito ciò che anche esteriormente, nelle denominazioni, ha segno maschile. L’opposto, dunque, di ciò a cui certamente si mirava». Insomma, non uguaglianza né conflitto tra i sessi, ma rispettosa differenza. Da affermare con parole già fornite dal vocabolario. Incredibilmente, Evola sembra deplorare persino l’assenza di un linguaggio neutro, anche se non avrebbe certo accettato soluzioni grottesche e studiate a tavolino, come lo schwa o la desinenza in u: «Diverso sarebbe il caso se esistesse una designazione neutra, ossia né maschile né femminile, per la professione in sé, da applicare legittimamente anche alla donna. Ma in italiano di simili locuzioni neutre non ne esistono». E certo Evola non auspica che le si inventino in laboratorio (qui sta la differenza, e non è certo la sola, con Boldrini e compagne). Ma quindi chi ha ragione, chi dice «avvocata», «avvocatessa» o chi usa «avvocato» a prescindere dal sesso? Probabilmente quelli che seguono la lingua nella sua evoluzione lenta e stratificata, senza interventi di ingegneria linguistica a fini ideologici. E soprattutto quelli che, come dice la Meloni, hanno «priorità diverse».