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2021-01-11
Tra stretta sul «rosso» e costi extra i depositi diventano campi minati
I correntisti italiani nel 2021 faranno bene a tenere le antenne alzate. La pandemia e il costo del denaro da tempo con il segno meno hanno spinto le banche a rimescolare le carte del settore. Innanzitutto, dal primo gennaio è entrato in vigore il regolamento Eba (autorità bancaria europea) relativo alle regole sui requisiti di capitale. Servirà più attenzione, dunque. Con l'inizio di quest'anno, gli intermediari dovranno classificare la solvibilità dei correntisti. Secondo le nuove regole, il cliente privato che per tre mesi andrà in rosso per almeno 100 euro (500 per le imprese) e che, allo stesso tempo, avrà pagamenti arretrati - sempre per più di 90 giorni - in misura pari all'1% del suo debito, sarà considerato cattivo pagatore e gli verrà di fatto congelato il conto, bloccando automaticamente tutti gli addebiti diretti come bollette, rate del mutuo o di finanziamenti.
Come ha precisato Bankitalia, però, il fatto che un debitore sia classificato in default secondo la nuova definizione, non significa che verrà automaticamente ritenuto «in sofferenza» e quindi segnalato alla Centrale rischi: la segnalazione in questi casi avviene solo quando si ritiene che il correntista abbia gravi difficoltà, non di certo solo temporanee ma di lunga durata. Sebbene, dunque, le nuove norme non dovrebbero rappresentare un vero problema per la maggior parte dei risparmiatori, è pur sempre vero che si tratta di una stretta grazie a cui ora i correntisti possono «sgarrare» molto meno di prima.
Con il costo del denaro caratterizzato da tempo dal segno meno, poi, i depositi sono diventati sempre meno redditizi per gli istituti bancari. Così molti correntisti si sono visti, più o meno consapevolmente, aumentare i costi del servizio. Così, negli ultimi anni, le spese fisse per i conti sono aumentate senza sosta. Secondo uno studio di Truenumbers.it partito da una indagine condotta dalla Banca d'Italia su 12.705 conti e 900 conti postali, non ci sono dubbi: i costi del conto corrente bancario sono in crescita senza sosta dal 2017. In particolare, sono aumentate le spese fisse, che nel caso dei conti correnti bancari erano in media di 52,3 euro nel 2017, per poi salire a quota 55 nel 2018 e 57 nel 2019. Lo stesso è avvenuto con i conti correnti postali, anche se qui gli incrementi sono stati meno netti: si è passati da un costo fisso medio di 36,4 euro nel 2017 a uno di 38,1 nel 2018 fino ai 38,6 euro del 2019. Il conto a zero spese, insomma, è solo uno specchietto per le allodole. Le banche, per fare ricavi, si affidano sempre di più al canone annuo da far pagare ai correntisti. Nel 2018 il suo costo medio era di 47,8 euro, valore aumentato l'anno successivo a 48,9 euro. Nel 2017 il valore medio era di 42,7 euro, il che significa che il balzo in avanti dei costi quell'anno è stato particolarmente sostanzioso. Che la tendenza sia quella di far pagare i correntisti lo si intuisce dalla percentuale di persone obbligate a sobbarcarsi un canone base per avere un conto: dal 2017 la quota è salita dal 66 al 69%.
Non va poi dimenticato il problema delle commissioni interbancarie. Se oggi sono le banche presso cui abbiamo il conto a far pagare le spese a chi preleva contanti da un bancomat fuori circuito, in futuro potrebbero essere gli istituti terzi a decidere le commissioni da addebitare. Gli istituti bancari stanno infatti pensando di applicare un costo diretto sul conto al momento del prelievo, dando vita a un vero e proprio mercato delle commissioni. Oggi, invece, in molti casi il prelievo da un istituto diverso da quello su cui abbiamo il conto è gratuito per il risparmiatore o, per lo meno, è previsto un numero limitato di operazioni a costo zero. Nel nuovo scenario, prima di effettuare il prelievo il correntista riceverebbe un avviso con i costi totali da sostenere, e solo dopo aver confermato potrebbe procedere all'operazione. Lo scopo sarebbe invogliare le persone a utilizzare metodi di pagamento elettronico, disincentivando l'uso del contante.
Altra questione cruciale è la trasparenza nelle comunicazioni. Secondo la legge, le variazioni contrattuali (come, ad esempio, l'aumento delle commissioni o anche nuovi costi) devono essere solo comunicate al cliente e non firmate da quest'ultimo. Diversamente, il risparmiatore ha facoltà di cambiare conto e abbandonare l'istituto bancario. Per evitare che ciò accada, le comunicazioni di questo genere possono avvenire anche in modi poco trasparenti, come la spedizione delle comunicazioni per posta ordinaria, l'invio di notifiche tramite app o di messaggini sul telefono. Le banche meno trasparenti sperano così di far passare sottotraccia alcune notizie spiacevoli per i clienti, nella speranza che questi non se ne accorgano. Il consiglio in questo caso è prestare la massima attenzione alle comunicazioni, spesso compilate in un complicato e incomprensibile «banchese», chiedendo sin da subito dove queste vengano inviate.
Da ultimo, è bene controllare sempre l'estratto conto minuziosamente: i costi nascosti, purtroppo, sono sempre dietro l'angolo.
Sbancati. I nostri soldi sotto assedio
Un elefante dentro una cristalleria farebbe minori danni di quelli che l'Unione europea fa ogniqualvolta si occupa di banche. La galleria degli orrori è inesauribile. L'idea - anzi il peccato - originale è sempre la stessa. Nel 2016, prima del referendum sulla Brexit, al parlamento inglese giacevano in attesa di approvazione 1.016 atti da ratificare contenenti direttive europee fra cui la direttiva «Flushing toilet» ovvero centoventi pagine con annessi disegni di impianti igienici da mettere a norma nelle nostre case per avere il cesso unico europeo. Riporta
Giulio Tremonti. Se questo è lo scenario volete forse immaginare che a Bruxelles non si partorisse l'idea dell'Unione bancaria?
Il sistema si basa su tre pilastri: 1) un'unica autorità di vigilanza, 2) un sistema di risoluzione delle crisi, 3) una garanzia europea sui depositi. Ma mentre in Germania, secondo
Vladimiro Giacché, delle 417 Sparkasse che erogano oltre il 20% degli impieghi per un totale di oltre 1.000 miliardi di euro soltanto una è stata assoggettata alla vigilanza della Bce, in Italia nel 2016 Matteo Renzi ha ben pensato di rendere obbligatoria l'adesione delle quasi 250 banche di credito cooperativo in uno o più gruppi. Risultato: tutte le uova in due soli panieri e la vigilanza passa a Francoforte. Di quelle che una volta erano le banche locali per eccellenza non rimane che l'insegna. Forse.
Ma è sul secondo pilastro - la risoluzione delle crisi di una banca pagata da chi ha depositato i soldi nella stessa qualora il patrimonio non fosse sufficiente - che l'Ue ha dato il meglio, anzi il peggio, di sé. In inglese «bail in», che in italiano suona beilin. Molto simile al genovese belin. Del cui significato penso siate tutti edotti. «La mera possibilità del “bail in" renderà più onerosa la raccolta bancaria, rischiando di essere, se non ben gestito, controproducente. Se un supermercato fallisce, magari se ne apre uno vicino in grado di vendere al pubblico le stesse merci di quello fallito. Se fallisce una banca, non ne riapre un'altra uguale vicina. Il rischio è che ne fallisca un'altra. Lentamente l'Europa sta cominciando a capire quali possono essere le reali conseguenze delle nuove norme», diceva in una intervista a
Repubblica del 20 dicembre 2015 il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco. Parole sante. Anzi sacrosante. Un mese prima le banche italiane quotate a piazza Affari valevano nel complesso 130 miliardi. Di lì a giugno 2016 avrebbero perso il 55% del loro valore arrivando a meno di 60 miliardi. Trascinando al ribasso il nostro mercato azionario del 17%. Quindi una crisi tutta bancaria innescata dall'anticipato dall'azzeramento delle obbligazioni subordinate in Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara.
Lo stesso
Visco che a maggio del 2015 nelle sue considerazioni finali diceva che «il termine per il recepimento della direttiva sul risanamento e sulla risoluzione delle banche è scaduto alla fine dell'anno scorso; dal 1° gennaio del 2016 dovranno essere introdotte nel nostro ordinamento anche le previsioni sul bail in. È urgente provvedere: non solo per evitare di essere messi in mora dalle istituzioni europee, ma anche perché il recepimento è necessario per garantire la certezza del diritto e consentire alle autorità di esercitare i nuovi compiti con gli strumenti che il legislatore europeo ha loro attribuito».
Non da meno l'Associazione bancaria italiana al momento della consultazione pubblica sull'adozione della nuova normativa nel 2012. Tutto riportato in un
position paper. Alla domanda «ritenete necessario escludere dal bail in certi tipi di passività (depositi obbligazioni etc) emesse prima di una certa data?», la risposta fu: «No, dovrebbe essere applicato a tutte le passività esistenti, senza distinzioni». La risposta perentoria non è affatto male interpretata, dal momento che subito dopo viene posto il quesito: «Ritenete opportuno un periodo transitorio prima di applicare la normativa?», e l'associazione risponde quasi scocciata: «L'Abi ritiene che non ce ne sia bisogno…». Ora il livello di consapevolezza sulla nocività delle normative europee in materia bancaria è enormemente cambiato anche ai vertici delle più importanti banche.
Un altro frutto avvelenato di questo diluvio normativo è il cosiddetto
calendar provisioning. In altre parole, la valutazione delle prospettive di recupero del credito deteriorato in una banca potrebbe farlo pure una scimmia. Entro quattro anni il credito non assistito da garanzie deve essere azzerato. In caso di ipoteca si va da sette a nove anni. E nel frattempo i bilanci delle banche sono falcidiati da insostenibili accantonamenti. È «una norma sbagliata» e andrebbe rivista: «Applicata nel post Covid è come una bomba atomica» e determinerebbe «un disastro nel bilancio delle banche, non solo nostre», affermava l'amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, lo scorso 9 settembre.
Ma se pensate che il peggio sia passato, beh, vi sbagliate di grosso. Mentre il piddino in servizio effettivo e permanente agogna il terzo pilastro dell'Unione bancaria (la garanzia comune sui depositi) per lenire il dolore di queste ferite, ci pensa l'Eurogruppo a portare tutti sul pianeta terra. Nelle sue conclusioni il presidente irlandese
Paschal Donohoe invoca che si adottino di comune accordo misure atte a recidere il legame fra rischio sovrano e rischio bancario. Che vuol dire? Che se oggi le banche possono acquistare titoli di Stato senza limiti (rischio a «ponderazione zero», si dice in gergo), da domani non sarà più così. Altrimenti nessuna garanzia comune. Quindi per le banche acquistare Btp sarà molto più complicato. Quegli stessi Btp più facilmente ristrutturabili grazie alla riforma del Mes appena approvata. Cosa potrebbe andare peggio?
«Diffidate delle promesse smodate»
Il conto corrente può essere un vero e proprio ginepraio per il risparmiatore meno esperto. Il costo del denaro in picchiata ha reso infatti i depositi sempre meno redditizi per gli istituti, così le banche, tra scarsa trasparenza e inconsapevolezza dei clienti, le provano tutte per raccogliere qualche euro in più. Per capire come scovare le trappole più comuni, La Verità ne ha parlato con l'avvocato Antonella Nanna, responsabile della Consulta giuridica nazionale di Federconsumatori.
Il mercato dei conti correnti sta diventando sempre più una giungla che presenta diverse difficoltà. A cosa bisogna prestare attenzione?
«Intanto bisognerebbe leggere tutti i documenti che le banche ci sottopongono. Chiunque di noi abbia aperto una posizione presso un istituto può essere testimone della quantità di moduli da firmare. Indipendentemente dal livello di scolarizzazione, si tratta di documenti spesso poco comprensibili. Di solito il cliente si fida del bancario, legge le carte in maniera sommaria, e poi sottoscrive tutto su indicazione dell'impiegato che gli indica dove firmare. Questo è un grande errore. Spesso non ci si rende conto, ma poi le banche fanno leva su quanto firmato quando ci sono problemi. Per questo è sempre bene leggere tutte le condizioni e tenersi a mente i costi del canone, dei plafond e delle commissioni sui vari tipi di operazione. Le banche più attente alla trasparenza spesso forniscono schemi riassuntivi del contratto che possono rappresentare un grande aiuto per il consumatore inesperto».
Perché le banche possono cambiare le condizioni di un conto senza il consenso del cliente?
«Gli istituti hanno l'obbligo di mandare una comunicazione con le modifiche al cliente, purtroppo spesso anche solo per posta ordinaria e non tracciata, senza dover firmare un nuovo contratto. La legge prevede che, in caso le modifiche delle condizioni non vengano accettate, il cliente possa recedere dall'accordo e cambiare banca. Il fatto che i metodi di comunicazione possano essere non tracciati o di non immediata reperibilità potrebbe fare pensare che alcune banche giochino sull'inconsapevolezza delle persone per mandare comunicazioni che spesso non vengono aperte. Con la digitalizzazione dei servizi, poi, spesso le comunicazioni vengono mandate attraverso le app e in molti casi questo può rappresentare un limite per i clienti meno avvezzi con le tecnologie. Comunque, la verità è che, nella maggior parte dei casi, il cliente non recede e non cambia conto».
Dal primo gennaio di quest'anno, inoltre, sono cambiate le soglie per chi va in rosso con il conto. A cosa bisogna stare attenti con la nuova norma?
«Si tratta di una regola che di certo non arriva in un momento felice per le famiglie italiane. L'obiettivo è quello di non agevolare le crisi bancarie e di invitare sempre più le banche a non premettere operazioni rischiose prestando soldi che non rivedranno mai. L'idea alla base è dunque corretta. Il problema sono i limiti molto bassi imposti dalla legge. Sarà difficile che un consumatore, oggi, con questa pandemia, non vada in rosso per più di 100 euro, o che le imprese non vadano in negativo per più di 500. Insieme a questa condizione, il correntista non deve andare in rosso per una cifra superiore superiore all'1% della sua posizione debitoria. Ciò significa che, per fare un esempio, se io ho 100.000 euro di debito suddiviso in 80.000 di mutuo, 10.000 di spese con le carte di credito e 10.000 di finanziamento, io non possa far registrare ritardi sulle varie rate per più di mille euro. Questa condizione deve protrarsi per oltre tre mesi. Ricordiamo, però, che, anche nel caso in cui l'istituto ritenga il cliente “in default", questo non per forza è un motivo sufficiente per iscriverlo nel registro dei cattivi pagatori».
C'è poi da controllare bene la Civ, la commissione di istruttoria veloce. Di che si tratta in dettaglio?
«Si tratta della commissione che le banche chiedono quando il conto va in rosso. È il pegno che i consumatori pagano per avere la possibilità di andare in negativo. Noi crediamo che si tratti di una vera e propria penale per i correntisti. Vorrei sottolineare che, con i tempi che corrono, per una famiglia con un solo stipendio andare in rosso è purtroppo piuttosto frequente».
I conti correnti a zero spese sono quindi solo una chimera?
«Bisogna sempre diffidare dalle pubblicità che promettono troppo. Questo vale per i conti correnti così come per i finanziamenti. Molte volte le banche annunciano che il loro tasso di interesse è pari a zero, ma poi si scopre che il Taeg, il tasso annuo effettivo globale, è ben più elevato. Nel caso dei conti correnti, i prodotti a zero spese non esistono. C'è sempre qualche voce che determina dei costi. Basti pensare anche solo al bollo sul conto, tasse che vanno versate allo Stato».
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Riduci
Dal 1° gennaio è diventato più rischioso sgarrare su debiti e saldi negativi. Mentre i tassi sottozero spingono le banche a giocare (a volte con furbizia) con canoni e spese. Sono allo studio nuove commissioni sui prelievi.La vigilanza unica, i salvataggi a spese dei clienti, ora pure la tagliola per i crediti non garantiti: dall'Ue una raffica di «bombe atomiche» sugli istituti italiani.L'avvocato di Federconsumatori, Antonella Nanna: «Occhio, i prodotti gratis non esistono. Mai firmare moduli senza leggerli tutti. E pretendere comunque trasparenza nelle informazioni».Lo speciale contiene tre articoli.I correntisti italiani nel 2021 faranno bene a tenere le antenne alzate. La pandemia e il costo del denaro da tempo con il segno meno hanno spinto le banche a rimescolare le carte del settore. Innanzitutto, dal primo gennaio è entrato in vigore il regolamento Eba (autorità bancaria europea) relativo alle regole sui requisiti di capitale. Servirà più attenzione, dunque. Con l'inizio di quest'anno, gli intermediari dovranno classificare la solvibilità dei correntisti. Secondo le nuove regole, il cliente privato che per tre mesi andrà in rosso per almeno 100 euro (500 per le imprese) e che, allo stesso tempo, avrà pagamenti arretrati - sempre per più di 90 giorni - in misura pari all'1% del suo debito, sarà considerato cattivo pagatore e gli verrà di fatto congelato il conto, bloccando automaticamente tutti gli addebiti diretti come bollette, rate del mutuo o di finanziamenti. Come ha precisato Bankitalia, però, il fatto che un debitore sia classificato in default secondo la nuova definizione, non significa che verrà automaticamente ritenuto «in sofferenza» e quindi segnalato alla Centrale rischi: la segnalazione in questi casi avviene solo quando si ritiene che il correntista abbia gravi difficoltà, non di certo solo temporanee ma di lunga durata. Sebbene, dunque, le nuove norme non dovrebbero rappresentare un vero problema per la maggior parte dei risparmiatori, è pur sempre vero che si tratta di una stretta grazie a cui ora i correntisti possono «sgarrare» molto meno di prima.Con il costo del denaro caratterizzato da tempo dal segno meno, poi, i depositi sono diventati sempre meno redditizi per gli istituti bancari. Così molti correntisti si sono visti, più o meno consapevolmente, aumentare i costi del servizio. Così, negli ultimi anni, le spese fisse per i conti sono aumentate senza sosta. Secondo uno studio di Truenumbers.it partito da una indagine condotta dalla Banca d'Italia su 12.705 conti e 900 conti postali, non ci sono dubbi: i costi del conto corrente bancario sono in crescita senza sosta dal 2017. In particolare, sono aumentate le spese fisse, che nel caso dei conti correnti bancari erano in media di 52,3 euro nel 2017, per poi salire a quota 55 nel 2018 e 57 nel 2019. Lo stesso è avvenuto con i conti correnti postali, anche se qui gli incrementi sono stati meno netti: si è passati da un costo fisso medio di 36,4 euro nel 2017 a uno di 38,1 nel 2018 fino ai 38,6 euro del 2019. Il conto a zero spese, insomma, è solo uno specchietto per le allodole. Le banche, per fare ricavi, si affidano sempre di più al canone annuo da far pagare ai correntisti. Nel 2018 il suo costo medio era di 47,8 euro, valore aumentato l'anno successivo a 48,9 euro. Nel 2017 il valore medio era di 42,7 euro, il che significa che il balzo in avanti dei costi quell'anno è stato particolarmente sostanzioso. Che la tendenza sia quella di far pagare i correntisti lo si intuisce dalla percentuale di persone obbligate a sobbarcarsi un canone base per avere un conto: dal 2017 la quota è salita dal 66 al 69%.Non va poi dimenticato il problema delle commissioni interbancarie. Se oggi sono le banche presso cui abbiamo il conto a far pagare le spese a chi preleva contanti da un bancomat fuori circuito, in futuro potrebbero essere gli istituti terzi a decidere le commissioni da addebitare. Gli istituti bancari stanno infatti pensando di applicare un costo diretto sul conto al momento del prelievo, dando vita a un vero e proprio mercato delle commissioni. Oggi, invece, in molti casi il prelievo da un istituto diverso da quello su cui abbiamo il conto è gratuito per il risparmiatore o, per lo meno, è previsto un numero limitato di operazioni a costo zero. Nel nuovo scenario, prima di effettuare il prelievo il correntista riceverebbe un avviso con i costi totali da sostenere, e solo dopo aver confermato potrebbe procedere all'operazione. Lo scopo sarebbe invogliare le persone a utilizzare metodi di pagamento elettronico, disincentivando l'uso del contante.Altra questione cruciale è la trasparenza nelle comunicazioni. Secondo la legge, le variazioni contrattuali (come, ad esempio, l'aumento delle commissioni o anche nuovi costi) devono essere solo comunicate al cliente e non firmate da quest'ultimo. Diversamente, il risparmiatore ha facoltà di cambiare conto e abbandonare l'istituto bancario. Per evitare che ciò accada, le comunicazioni di questo genere possono avvenire anche in modi poco trasparenti, come la spedizione delle comunicazioni per posta ordinaria, l'invio di notifiche tramite app o di messaggini sul telefono. Le banche meno trasparenti sperano così di far passare sottotraccia alcune notizie spiacevoli per i clienti, nella speranza che questi non se ne accorgano. Il consiglio in questo caso è prestare la massima attenzione alle comunicazioni, spesso compilate in un complicato e incomprensibile «banchese», chiedendo sin da subito dove queste vengano inviate.Da ultimo, è bene controllare sempre l'estratto conto minuziosamente: i costi nascosti, purtroppo, sono sempre dietro l'angolo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/stretta-rosso-costi-extra-depositi-2649859084.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sbancati-i-nostri-soldi-sotto-assedio" data-post-id="2649859084" data-published-at="1610302662" data-use-pagination="False"> Sbancati. I nostri soldi sotto assedio Un elefante dentro una cristalleria farebbe minori danni di quelli che l'Unione europea fa ogniqualvolta si occupa di banche. La galleria degli orrori è inesauribile. L'idea - anzi il peccato - originale è sempre la stessa. Nel 2016, prima del referendum sulla Brexit, al parlamento inglese giacevano in attesa di approvazione 1.016 atti da ratificare contenenti direttive europee fra cui la direttiva «Flushing toilet» ovvero centoventi pagine con annessi disegni di impianti igienici da mettere a norma nelle nostre case per avere il cesso unico europeo. Riporta Giulio Tremonti. Se questo è lo scenario volete forse immaginare che a Bruxelles non si partorisse l'idea dell'Unione bancaria? Il sistema si basa su tre pilastri: 1) un'unica autorità di vigilanza, 2) un sistema di risoluzione delle crisi, 3) una garanzia europea sui depositi. Ma mentre in Germania, secondo Vladimiro Giacché, delle 417 Sparkasse che erogano oltre il 20% degli impieghi per un totale di oltre 1.000 miliardi di euro soltanto una è stata assoggettata alla vigilanza della Bce, in Italia nel 2016 Matteo Renzi ha ben pensato di rendere obbligatoria l'adesione delle quasi 250 banche di credito cooperativo in uno o più gruppi. Risultato: tutte le uova in due soli panieri e la vigilanza passa a Francoforte. Di quelle che una volta erano le banche locali per eccellenza non rimane che l'insegna. Forse. Ma è sul secondo pilastro - la risoluzione delle crisi di una banca pagata da chi ha depositato i soldi nella stessa qualora il patrimonio non fosse sufficiente - che l'Ue ha dato il meglio, anzi il peggio, di sé. In inglese «bail in», che in italiano suona beilin. Molto simile al genovese belin. Del cui significato penso siate tutti edotti. «La mera possibilità del “bail in" renderà più onerosa la raccolta bancaria, rischiando di essere, se non ben gestito, controproducente. Se un supermercato fallisce, magari se ne apre uno vicino in grado di vendere al pubblico le stesse merci di quello fallito. Se fallisce una banca, non ne riapre un'altra uguale vicina. Il rischio è che ne fallisca un'altra. Lentamente l'Europa sta cominciando a capire quali possono essere le reali conseguenze delle nuove norme», diceva in una intervista a Repubblica del 20 dicembre 2015 il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco. Parole sante. Anzi sacrosante. Un mese prima le banche italiane quotate a piazza Affari valevano nel complesso 130 miliardi. Di lì a giugno 2016 avrebbero perso il 55% del loro valore arrivando a meno di 60 miliardi. Trascinando al ribasso il nostro mercato azionario del 17%. Quindi una crisi tutta bancaria innescata dall'anticipato dall'azzeramento delle obbligazioni subordinate in Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara. Lo stesso Visco che a maggio del 2015 nelle sue considerazioni finali diceva che «il termine per il recepimento della direttiva sul risanamento e sulla risoluzione delle banche è scaduto alla fine dell'anno scorso; dal 1° gennaio del 2016 dovranno essere introdotte nel nostro ordinamento anche le previsioni sul bail in. È urgente provvedere: non solo per evitare di essere messi in mora dalle istituzioni europee, ma anche perché il recepimento è necessario per garantire la certezza del diritto e consentire alle autorità di esercitare i nuovi compiti con gli strumenti che il legislatore europeo ha loro attribuito». Non da meno l'Associazione bancaria italiana al momento della consultazione pubblica sull'adozione della nuova normativa nel 2012. Tutto riportato in un position paper. Alla domanda «ritenete necessario escludere dal bail in certi tipi di passività (depositi obbligazioni etc) emesse prima di una certa data?», la risposta fu: «No, dovrebbe essere applicato a tutte le passività esistenti, senza distinzioni». La risposta perentoria non è affatto male interpretata, dal momento che subito dopo viene posto il quesito: «Ritenete opportuno un periodo transitorio prima di applicare la normativa?», e l'associazione risponde quasi scocciata: «L'Abi ritiene che non ce ne sia bisogno…». Ora il livello di consapevolezza sulla nocività delle normative europee in materia bancaria è enormemente cambiato anche ai vertici delle più importanti banche. Un altro frutto avvelenato di questo diluvio normativo è il cosiddetto calendar provisioning. In altre parole, la valutazione delle prospettive di recupero del credito deteriorato in una banca potrebbe farlo pure una scimmia. Entro quattro anni il credito non assistito da garanzie deve essere azzerato. In caso di ipoteca si va da sette a nove anni. E nel frattempo i bilanci delle banche sono falcidiati da insostenibili accantonamenti. È «una norma sbagliata» e andrebbe rivista: «Applicata nel post Covid è come una bomba atomica» e determinerebbe «un disastro nel bilancio delle banche, non solo nostre», affermava l'amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, lo scorso 9 settembre. Ma se pensate che il peggio sia passato, beh, vi sbagliate di grosso. Mentre il piddino in servizio effettivo e permanente agogna il terzo pilastro dell'Unione bancaria (la garanzia comune sui depositi) per lenire il dolore di queste ferite, ci pensa l'Eurogruppo a portare tutti sul pianeta terra. Nelle sue conclusioni il presidente irlandese Paschal Donohoe invoca che si adottino di comune accordo misure atte a recidere il legame fra rischio sovrano e rischio bancario. Che vuol dire? Che se oggi le banche possono acquistare titoli di Stato senza limiti (rischio a «ponderazione zero», si dice in gergo), da domani non sarà più così. Altrimenti nessuna garanzia comune. Quindi per le banche acquistare Btp sarà molto più complicato. Quegli stessi Btp più facilmente ristrutturabili grazie alla riforma del Mes appena approvata. Cosa potrebbe andare peggio? <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/stretta-rosso-costi-extra-depositi-2649859084.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="diffidate-delle-promesse-smodate" data-post-id="2649859084" data-published-at="1610302662" data-use-pagination="False"> «Diffidate delle promesse smodate» Il conto corrente può essere un vero e proprio ginepraio per il risparmiatore meno esperto. Il costo del denaro in picchiata ha reso infatti i depositi sempre meno redditizi per gli istituti, così le banche, tra scarsa trasparenza e inconsapevolezza dei clienti, le provano tutte per raccogliere qualche euro in più. Per capire come scovare le trappole più comuni, La Verità ne ha parlato con l'avvocato Antonella Nanna, responsabile della Consulta giuridica nazionale di Federconsumatori. Il mercato dei conti correnti sta diventando sempre più una giungla che presenta diverse difficoltà. A cosa bisogna prestare attenzione? «Intanto bisognerebbe leggere tutti i documenti che le banche ci sottopongono. Chiunque di noi abbia aperto una posizione presso un istituto può essere testimone della quantità di moduli da firmare. Indipendentemente dal livello di scolarizzazione, si tratta di documenti spesso poco comprensibili. Di solito il cliente si fida del bancario, legge le carte in maniera sommaria, e poi sottoscrive tutto su indicazione dell'impiegato che gli indica dove firmare. Questo è un grande errore. Spesso non ci si rende conto, ma poi le banche fanno leva su quanto firmato quando ci sono problemi. Per questo è sempre bene leggere tutte le condizioni e tenersi a mente i costi del canone, dei plafond e delle commissioni sui vari tipi di operazione. Le banche più attente alla trasparenza spesso forniscono schemi riassuntivi del contratto che possono rappresentare un grande aiuto per il consumatore inesperto». Perché le banche possono cambiare le condizioni di un conto senza il consenso del cliente? «Gli istituti hanno l'obbligo di mandare una comunicazione con le modifiche al cliente, purtroppo spesso anche solo per posta ordinaria e non tracciata, senza dover firmare un nuovo contratto. La legge prevede che, in caso le modifiche delle condizioni non vengano accettate, il cliente possa recedere dall'accordo e cambiare banca. Il fatto che i metodi di comunicazione possano essere non tracciati o di non immediata reperibilità potrebbe fare pensare che alcune banche giochino sull'inconsapevolezza delle persone per mandare comunicazioni che spesso non vengono aperte. Con la digitalizzazione dei servizi, poi, spesso le comunicazioni vengono mandate attraverso le app e in molti casi questo può rappresentare un limite per i clienti meno avvezzi con le tecnologie. Comunque, la verità è che, nella maggior parte dei casi, il cliente non recede e non cambia conto». Dal primo gennaio di quest'anno, inoltre, sono cambiate le soglie per chi va in rosso con il conto. A cosa bisogna stare attenti con la nuova norma? «Si tratta di una regola che di certo non arriva in un momento felice per le famiglie italiane. L'obiettivo è quello di non agevolare le crisi bancarie e di invitare sempre più le banche a non premettere operazioni rischiose prestando soldi che non rivedranno mai. L'idea alla base è dunque corretta. Il problema sono i limiti molto bassi imposti dalla legge. Sarà difficile che un consumatore, oggi, con questa pandemia, non vada in rosso per più di 100 euro, o che le imprese non vadano in negativo per più di 500. Insieme a questa condizione, il correntista non deve andare in rosso per una cifra superiore superiore all'1% della sua posizione debitoria. Ciò significa che, per fare un esempio, se io ho 100.000 euro di debito suddiviso in 80.000 di mutuo, 10.000 di spese con le carte di credito e 10.000 di finanziamento, io non possa far registrare ritardi sulle varie rate per più di mille euro. Questa condizione deve protrarsi per oltre tre mesi. Ricordiamo, però, che, anche nel caso in cui l'istituto ritenga il cliente “in default", questo non per forza è un motivo sufficiente per iscriverlo nel registro dei cattivi pagatori». C'è poi da controllare bene la Civ, la commissione di istruttoria veloce. Di che si tratta in dettaglio? «Si tratta della commissione che le banche chiedono quando il conto va in rosso. È il pegno che i consumatori pagano per avere la possibilità di andare in negativo. Noi crediamo che si tratti di una vera e propria penale per i correntisti. Vorrei sottolineare che, con i tempi che corrono, per una famiglia con un solo stipendio andare in rosso è purtroppo piuttosto frequente». I conti correnti a zero spese sono quindi solo una chimera? «Bisogna sempre diffidare dalle pubblicità che promettono troppo. Questo vale per i conti correnti così come per i finanziamenti. Molte volte le banche annunciano che il loro tasso di interesse è pari a zero, ma poi si scopre che il Taeg, il tasso annuo effettivo globale, è ben più elevato. Nel caso dei conti correnti, i prodotti a zero spese non esistono. C'è sempre qualche voce che determina dei costi. Basti pensare anche solo al bollo sul conto, tasse che vanno versate allo Stato».
Maurizio Landini (Ansa)
Nessun sindacalista lo ammetterà mai, ma c’è un dato che più di ogni altro fa da spartiacque tra uno sciopero riuscito e un flop. Una percentuale minima al di sotto della quale è davvero difficile cantare vittoria: l’adesione almeno degli iscritti. Insomma, se sostieni, come fa ripetutamente Maurizio Landini di essere il portavoce di un sedicente malcontento montante che sarebbe addirittura maggioranza nel Paese e ti intesti una battaglia in solitaria lasciando alle spalle Cisl e Uil e poi non ti seguono neanche i tuoi, c’è un problema.
E il problema, numeri alla mano, esiste. Ed è pure grosso. Basta vedere le percentuali dei lavoratori che hanno deciso di spalleggiare l’ennesima rivolta politica e tutta improntata ad attaccare il governo Meloni del leader della Cgil. Innanzitutto nel pubblico impiego. Tra gli statali (scuola, sanità, dipendenti di ministeri, enti locali ecc.) ci sono circa 2,7 milioni di dipendenti contrattualizzati. E tra questi il 12% ha in tasca la tessera della Cgil. Bene, a fine giornata i dati ufficiali parlavano di circa il 4,4% complessivo di adesione all’ennesimo logoro show di Landini. Messa in soldoni: ormai anche la Cgil si è stancata del suo segretario che combatte una battaglia personale e quasi sempre sulle spalle dei lavoratori.
Che in corso d’Italia monti il malcontento, La Verità lo evidenzia da un po’ di tempo, ma il dato degli impiegati dello Stato è particolarmente significativo. Perché è intorno agli statali che l’ex leader della Fiom ha combattuto e poi perso la sua battaglia più significativa. Per mesi e mesi, infatti, spalleggiato dalla Uil e dall’ex alleato Pierpaolo Bombardieri, Landini ha bloccato il rinnovo dei contratti della Pa.
Circa 20 miliardi, già stanziati dal governo, fermi. E aumenti tra i 150 e i 170 euro lordi al mese, con istituti di favore come la settimana cortissima e il ticket anche in smart working, preclusi ai lavoratori per l’opposizione a prescindere del compagno Maurizio. Certo, lui l’ha spiegata come una lotta di giustizia sociale che aveva l’obiettivo di recuperare tutta l’inflazione del periodo (2022-2024). Ma si trattava di un bluff. Perché la Cgil con governi di un colore diverso ha rinnovato contratti decisamente meno convenienti e che comunque non coprivano il carovita.
Insomma, quella sugli accordi della pubblica amministrazione è diventata l’ultima frontiera dell’opposizione a prescindere. E su quella battaglia Landini si è schiantato. Prima nel merito, perché alla fine la Uil l’ha mollato e i contratti sono stati firmati. E poi sul campo: perché se almeno la metà degli iscritti diserta sciopero (e siamo benevoli), vuol dire che i tuoi stanno bocciando una linea che porta nelle piazza, sulle barricate e sui giornali, ma lascia i lavoratori con le tasche sempre più vuote.
«Il dato», spiega alla Verità il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, «certifica l’ennesimo flop degli scioperi generali, un fallimento che finisce tutto sulle spalle della Cgil che nel pubblico impiego può contare su circa 300.000 iscritti. Pur ammettendo che tutti gli aderenti siano tesserati di Landini e che le proiezioni del pomeriggio vengano confermate, la bocciatura interna per la linea del segretario sarebbe evidente. E, del resto, questo disagio era palese anche sul tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto. È arrivato il momento che anche all’interno del sindacato si apra una riflessione sincera».
E se tra gli statali la sconfitta è stata cocente, non meglio è andata nel privato. Dove, però, i dati sono più frammentati. Secondo le rilevazioni degli altri sindacati, ci sono alcune situazioni clamorose e altri meno, ma sempre di batoste si tratta.
Appartengono al primo caso le adesioni ferme a quota 1% nei cantieri delle grandi opere: dal Brennero fino al Terzo valico e alla Tav. Si risale al 5% negli stabilimenti di produzione e lavorazione di cemento, legno e laterizi, ma in generale la partecipazione nell’edilizia è stata bassissima.
Come nell’agroalimentare, dove, se si fa eccezioni per la rossa Emilia-Romagna (ai reparti produttivi della Granarolo si è arrivati a sfiorare il 50%), i risultati nelle piccole e medie imprese sono quasi tutti sotto il 5%. La media tra le aziende elettriche è del 5%, nelle Poste siamo fermi al 2,5% e nelle banche si sfiora l’1%. Leggermente meglio nel terziario e nel commercio (dove viene toccato il 10%), così come si contano sulle punte delle dita i siti delle realtà industriali in doppia cifra (Ex Ilva a Novi, Marcegaglia di Dusino San Michele in Piemonte e alcuni siti di Leonardo).
Insomma, al balletto delle cifre nelle manifestazioni siamo abituati e che ci siano delle enormi differenze numeriche tra promotori dello sciopero e controparte sta nelle regole del gioco, eppure si fa davvero fatica a capire da dove il sindacato rosso abbia tirato fuori il dato del 68% delle adesioni. Se 7 lavoratori su 10 si fermano, l’Italia si blocca. Non solo i trasporti, ma tutto il sistema finisce in una sorta di pericoloso stand by collettivo. Nulla a che vedere con quello che è successo sul territorio che ieri ha subito qualche prevedibile disagio da effetto-annuncio, ma poco più. Ma, del resto, nel Paese immaginario che sta raccontando Landini può succedere questo e altro.
Landini straparla di regime e agita lo sciopero infinito
«Fanno bene ad avere qualche timore, avere qualche paura, perché non ci fermano. Non so come dirlo, non ci fermano e, siccome siamo convinti di rappresentare la maggioranza del Paese, andremo avanti fino a quando questa battaglia l’abbiamo vinta». È stato questo il grido di battaglia, ieri, del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a Firenze dove ha partecipato al corteo nel giorno dello sciopero generale contro la legge di bilancio, salari bassi, precarietà e caro-vita.
Una protesta «per cambiare la manovra 2026, considerata del tutto inadeguata a risolvere i problemi del Paese, malgrado le modifiche appena approvate, per sostenere investimenti in sanità, istruzione, servizi pubblici e politiche industriali, per fermare l’innalzamento dell’età pensionabile, per contrastare la precarietà». Insomma, i temi sul tavolo di ogni governo degli ultimi 30 anni, basti pensare alla sanità da sempre gestita dalla sinistra da Rosy Bondi in poi, ma che, per Landini e sinistra, sembrano esplosi con l’arrivo del governo Meloni. E, ignorando totalmente i dati dell’occupazione che cresce in maniera costante, arriva a sostenere che «La precarietà non è un problema dei giovani: se vogliamo combattere e contrastare la precarietà, sono quelli che non sono precari che, innanzitutto, si devono battere e scioperare per cancellare la precarietà. Questa è la solidarietà, questo è il sindacato».
«Quando ho lavorato», ha ricordato Landini, «io la precarietà non l’ho conosciuta. E vorrei che fosse chiaro, non è merito mio, eh, io non avevo fatto niente, ero andato semplicemente a lavorare. Ma mi sono trovato dei diritti, perché quelli prima di me, che quei diritti lì non ce ne avevano, si erano battuti per ottenerli. Non per loro, ma per tutti. Tre mesi dopo che ero assunto come apprendista, ho potuto operare e partecipare a una manifestazione senza essere licenziato. Non m’hanno fatto prove del carrello», ha detto riferendosi ai tre lavoratori della catena Pam allontanati dopo un controllo a sorpresa che ha simulato un furto. «Dobbiamo far parlare il Paese reale, perché dobbiamo raccontare quel che succede: qui siamo, ormai, a un regime, ci raccontano un Paese che non c’è, ci raccontano una quantità di balle, che tutto va bene, tutto sta funzionando. Non è così».
Il leader della Cgil ha, poi, sottolineato che oggi c’è «un obiettivo esplicito della politica e del governo: mettere in discussione l’esistenza stessa del sindacato confederale come soggetto che ha diritto di negoziare alla pari col governo». Al segretario che un anno fa voleva «rivoltare il Paese come un guanto», lo sciopero politico di ieri gli è comunque costato la mancata unità sindacale con Cisl, Uil e Ugl ormai fuori sintonia. Landini ha chiarito che «il diritto di sciopero è un diritto costituzionale e non accetteremo alcun tentativo di metterlo in discussione o di limitarlo. Oggi siamo in piazza non contro altri lavoratori o altri sindacati, ma per estendere questi diritti a tutti. Quando un governo prova a delegittimare chi protesta o a ridurre gli spazi di partecipazione democratica, significa che non vuole ascoltare il disagio reale che attraversa il Paese. Lo sciopero è per cambiare politiche sbagliate. E la grande partecipazione che vediamo oggi dimostra che c’è un Paese che chiede un cambio di rotta».
«Il Paese non è più disponibile a un’altra legge di bilancio di austerità e di tagli», ha affermato il leader di Avs, Nicola Fratoianni, presente alla manifestazione con Angelo Bonelli. Sul palco in piazza del Carmine ha trovato posto anche la protesta dei giornalisti de La Stampa e Repubblica, in sciopero dopo l’annuncio di Exor della cessione del gruppo editoriale Gedi al magnate greco Theodore Kyriakou. Mai così in prima fila nella solidarietà ad altre crisi di giornali meno «amici», Landini ha spiegato il perché: «Pensiamo che quello che sta succedendo sia un tentativo esplicito di mettere in discussione la libertà di stampa e la possibilità concreta di proseguire e di fare serie politiche industriali. Mi sembra evidente quello che sta succedendo: abbiamo imprese e imprenditori che, dopo aver fatto i profitti, chiudono le imprese, se ne vogliono andare dal nostro Paese per usare i soldi e quella ricchezza che è stata prodotta da chi lavora, da altre parti. Ecco, quelli che fanno i patrioti dove sono? Stanno difendendo chi? Difendono quelli che pagano le tasse che tengono in piedi questo Paese o difendono quelli che chiudono le aziende che investono da un’altra parte?». C’è voluta la vendita di Repubblica perché Landini attaccasse Elkann visto che dalla nascita di Stellantis, nel gennaio 2021, l’azienda ha licenziato solo in Italia attraverso esodi incentivati 7.500 lavoratori. Del restom lo ha detto chiaramente Carlo Calenda di Azione: «Da quando la Repubblica è stata comprata da Elkann, Fiom e Cgil hanno smesso di dare battaglia che prima facevano con Sergio Marchionne quando la produzione aumentava, adesso che è crollata non li senti più dire nulla».
Intanto ieri Landini non ha nascosto la sua soddisfazione per la risposta allo sciopero, «le piazze si sono riempite e le fabbriche svuotate», rinfocolando la polemica a distanza con il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che aveva definito «irresponsabile» bloccare il Paese. «Noi stiamo facendo il nostro mestiere, quello che non fa Salvini», la replica del segretario della Cgil. Il vicepremier leghista ieri ha visitato la centrale operativa delle Ferrovie dello Stato per verificare le ricadute dello sciopero, ed ha definito «incoraggianti» i dati sull’adesione, «con disagi limitati» dovuti soprattutto all’effetto «annuncio».
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John Elkann (Getty Images)
Eppure, mentre assiste impassibile alla disfatta dell’industria automobilistica italiana, la sinistra si agita per la vendita di Gedi, ovvero di ciò che resta del gruppo editoriale che un tempo faceva capo alla famiglia De Benedetti. Nel corso degli anni, dopo aver comprato dai figli dell’Ingegnere decine di testate, tra cui Repubblica, l’Espresso e un pacchetto di giornali locali, Elkann ha provveduto a smembrare e cedere quasi tutto. Venduto lo storico settimanale che all’inizio dava il nome al gruppo e il cui titolo era quotato in Borsa. Via il Secolo XIX, quotidiano con forti radici in tutta la Liguria. Passati di mano il Tirreno a Livorno, la Nuova Sardegna a Sassari, il Piccolo a Udine, il Messaggero Veneto a Pordenone. Mollati a imprenditori locali la Gazzetta di Mantova e pure quella di Reggio Emilia e Modena, la Nuova Ferrara, la Provincia Pavese, il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia e perfino la Sentinella del Canavese, tra Ivrea e Val d’Aosta. Insomma, un impero di carta fatto a pezzi minuti, che alla fine è rimasto con sole due testate, ovvero Repubblica (con propaggini come Huffington Post, Limes e National Geographic) e La Stampa, oltre a tre radio, la più importante delle quali è Radio Deejay. I giornali ancora nelle mani del nipote dell’Avvocato sono un buco nero, anzi rosso, di perdite. Dopo svalutazioni da centinaia di milioni, continuano a perdere soldi, oltre che copie. Le sole soddisfazioni arrivano dalle emittenti: per il resto solo dolori e niente gioie.
Si sapeva che Elkann volesse disfarsi di tutto, anche perché vorrebbe disfarsi pure degli stabilimenti e trasferirsi felice a Parigi o in America, dove peraltro studiano i figli. Si sapeva anche che il suo interesse nei confronti dei giornali fosse pari a zero. La Stampa se l’era ritrovata sulle spalle insieme con una montagna di miliardi, ma l’amore per la testata non era proprio fortissimo. Repubblica e il resto se li era comprati all’improvviso dai De Benedetti per fare quello che De Benedetti, Carlo, aveva fatto per anni benissimo, ossia accreditarsi con la politica. I giornali della sinistra dovevano coprire la ritirata dall’Italia, l’addio all’industria automobilistica. E forse sono serviti a limitare le polemiche, visto che Landini a lungo ha concesso interviste a Repubblica e Stampa senza mai lamentarsi troppo di quello che stava accadendo nelle fabbriche del gruppo.
Certo, fa un po’ impressione vedere la Bibbia di generazioni di compagni, che dopo aver soppiantato perfino l’Unità viene venduta come se fosse una Magneti Marelli qualsiasi. Una cessione nel cinquantesimo esatto della fondazione, per di più a un imprenditore straniero che pare essere in affari con quel «principe rinascimentale» (copyright Renzi) di Bin Salman, uno che i giornalisti di solito li fa a pezzi. Ma soprattutto, una vendita contro cui sindacato e sinistra chiedono l’intervento di quella Giorgia Meloni che fino a ieri era considerata una minaccia per la libertà di stampa. Tuttavia, impressiona di più la levata di scudi della sinistra per una Casta di colleghi che a lungo ha guardato con sufficienza il mondo, ritenendosi intoccabile. Poi qualcuno si chiede perché gli operai non votino più né il Pd né i cespugli che gli ruotano attorno, mentre alla Cgil siano rimasti solo i pensionati.
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Elsa Fornero (Ansa)
Bisogna avvertire i giovani italiani: guardatevi dalle previsioni di questa signora. È Elsa Fornero, che ha una specie di ossessione per Matteo Salvini - le rimprovera una riforma delle pensioni tanto austera quanto inefficace - ma assi considerata da Mario Monti. Fu ministro del Lavoro in quel governo che tra 2011 e 2013 ha segnato tutti i record negativi degli ultimi trenta anni. È rimasta nell’immaginario di molti perché, mentre di fatto aboliva le pensioni, si è commossa. Sottofondo musicale: il coccodrillo come fa, pensando alle lacrime. La pensionata Elsa Fornero, già docente d’economia in quel di Torino, benissimo introdotta nei salotti pingui della «rive gauche» del Po, è il grillo parlante de La 7. Tutti i talk della Cairo production - portafoglio a destra e audience a sinistra - la venerano come l’oracolo di Delfi.
Ma anche alla Stampa non scherzano. Ieri le hanno offerto una pagina intera per dire: «Serve un piano che salvi il nostro Paese dal declino, la situazione è drammatica: c’è un grande paradosso perché, se i giovani sono meno, dovremmo investire su di loro perché si occuperanno degli anziani». E come si fa a investire su questi giovani che lei, con la sua riforma che ha alzato l’età pensionabile, ha lasciato per strada? Nell’unico modo che Elsa Fornero conosce: tartassare gli italiani. Nel foglio torinese dismesso da John Elkann remunerato sulla via del Partenone, si esercitano pensose signore dei numeri che mai se la pigliano però col padrone di Stellantis. Giorni fa la professoressa Veronica De Romanis, coniugata Bini Smaghi cioè Société générale e soprannominata madame Mes, ha sostenuto che l’Ue è meglio degli Usa, fornendo un profluvio di cifre. Se n’è scodata una: il Pil degli americani è 75.000 dollari pro capite a parità di potere di acquisto, quello degli europei è 38.000 dollari. Vedete un po’ voi.
Ma anche Elsa Fornero con i numeri s’impappina. In presa diretta, nostra signora della previdenza sgrana un rosario di nefandezze imputabili al centrodestra: i giovani hanno lavoro precario e malpagato, c’è un abbandono scolastico intollerabile (anche perché paghiamo poco gli insegnanti) e per occuparsi davvero del Paese serve una sorta di Pnrr dedicato ai giovani, per spingere la natalità, con una classe politica che non guardi all’oggi, ma sia proiettata nel medio termine. L’intervistatrice Sara Tirrito, adorante, osa domandarle: ma come si fa? Ecco dal campionario di Elsa delle lacrime e sangue uscire le tasse: 3,1 miliardi si trovano con nuove imposte sugli affitti, 3,5 miliardi di maggiori entrate vengono trasformando la flat tax per i giovani che svolgono lavoro autonomo in tassazione progressiva, altri miliardi vengono rimodulando (al rialzo) l’Iva sugli acquisti on-line. E poi tassa di successione per finanziare un piano scuola, per consentire ai giovani di trovare lavoro non precario e ben pagato.
La professoressa non si accorge delle sue contraddizioni. Dice: i giovani devono badare agli anziani che, però, devono pagare in anticipo la tassa di successione; i ragazzi vanno impiegati in lavori ad alta qualificazione così non emigrano, ma lei vuole stangarli subito con l’imposta progressiva togliendo la flat tax. Aggiunge che che devono farsi una vita autonoma, ma con le tasse sugli affitti manda le locazioni fuori mercato. Però se queste contraddizioni si sciorinano sospirando o quasi piangendo - «aiutiamoli quando sono giovani ad avere una vita degna di questo nome» - fa tutto un altro effetto. Perdonerà la professoressa Elsa Fornero, ma tornano in mente alcuni dati. La pressione fiscale con il governo Monti ha toccato in Italia il record assoluto arrivando al 45,1% del Pil in media grazie all’introduzione dell’Imu prima casa, alla Tobin tax che, però, il governo Meloni ritocca inspiegabilmente al rialzo, al quasi raddoppio dell’imposta sulle transazioni finanziare e all’aumento di tutte le addizionali Irpef.
Come ricompensa agli italiani, Mario Monti aveva offerto il record di aumento del debito pubblico, arrivato a 2.040 miliardi, a botte di 7,5 miliardi al mese: tra il 2011 e il 2012 si sono accumulati 129 miliardi di passivo aggiuntivo. Pensando ai giovani, con Elsa Fornero ministro del Lavoro il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è salito dal 27,4% al 33,9%, con un picco del 48% per le giovani donne del Mezzogiorno. Il tasso di disoccupazione complessiva, con un Pil crollato del 2,6%, col governo Monti è cresciuto del 40%, cioè di oltre 750.000 unità. Sono credenziali perfette per dare buoni consigli.
Giusto per memoria visto che siamo al disastro: col governo di Giorgia Meloni lo spread - dato di ieri - è a 68 punti base (meglio della Francia, ma non ditelo alla De Romanis) e ai minimi da 2008, il rating dell’Italia è stato alzato in positivo dopo un quarto di secolo, il tasso di occupazione a novembre è del 62,7% con 75.000 occupati in più ed è il record. Gli stipendi nel 2024 e nei primi nove mesi del 2025 sono cresciuti più dell’inflazione (3,5% di media contro 1,8% di aumento del costo della vita). Meglio questi tassi delle tasse, non trova? Ma non si preoccupi, Fornero: qualcuno che l’ascolta se evoca il disastro lo trova. Di solito sta in fondo a sinistra.
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Riduci
Ansa
Nel centro di Milano il mattone vale oro. Tra Brera, via Anfiteatro e via della Zecca le quotazioni superano stabilmente i 15.000 euro al metro quadro. Nei casi più ambiti, per nuove costruzioni o interventi di pregio, si arriva a 20.000 euro. È qui che si concentrano gli affari immobiliari più redditizi della città. Ed è qui che, secondo la Procura, per anni ha preso forma un meccanismo parallelo capace di orientare pratiche e interpretazioni urbanistiche.
Il sequestro di via Anfiteatro va letto in questa chiave, non come un singolo abuso, ma come la spia di un sistema. Un circuito informale che avrebbe coinvolto dirigenti comunali, funzionari, progettisti e organismi tecnici.
Un assetto che, scrive il gip Mattia Fiorentini, avrebbe consentito di aggirare le regole del centro storico senza modificarle apertamente.
Le carte descrivono una rete di relazioni consolidate. Al centro compare Giovanni Oggioni, storico dirigente dell’edilizia comunale, protagonista anche del passaggio dal vecchio Prg al Pgt tra il 2010 e il 2012. Attorno a lui si muovono Marco Emilio Maria Cerri, progettista di riferimento per grandi operazioni immobiliari, Andrea Viaroli, funzionario del Sue, e Carla Barone, dirigente dello stesso settore. Per il giudice non si tratta di coincidenze. Ma dell’esistenza di un ufficio parallelo, capace di incidere sugli iter amministrativi.
Lo snodo è la determina dirigenziale 65 del 2018, adottata durante la giunta Sala. Un atto tecnico, mai discusso in Giunta o in Consiglio, ma centrale. Secondo il decreto di sequestro, quella determina consente di sostituire il piano attuativo con una semplice Scia anche nel centro storico. Un passaggio che riduce i controlli e accorcia i tempi. Proprio nelle aree dove le tutele dovrebbero essere massime.
Il piano attuativo non è una formalità. Serve a valutare l’impatto complessivo degli interventi: volumi, altezze, distanze, standard, servizi, carico urbanistico. Evitarlo significa rendere più agevoli operazioni più grandi e più redditizie. Accade nelle zone B2 e B12, nate per il recupero dell’esistente e la tutela del tessuto storico, non per l’aumento delle volumetrie.
Tra i documenti interni e riservati conservati da Oggioni compaiono anche materiali relativi alla torre di via Stresa, un’altra operazione immobiliare riconducibile alla famiglia Rusconi, già coinvolta nel progetto di via Anfiteatro. Un collegamento che, per gli inquirenti, conferma la ricorrenza degli stessi operatori e delle stesse prassi.
Secondo il gip, parte di questi file sarebbe stata occultata. Dopo il 7 novembre 2024, quando Oggioni riceve la notifica del sequestro dei dispositivi elettronici, alcuni documenti vengono cancellati. Il decreto parla apertamente di depistaggio. Un passaggio che sposta il baricentro dell’indagine: non solo irregolarità urbanistiche, ma interferenze sul corretto svolgimento delle indagini.
Il perimetro non si ferma a via Anfiteatro. Le indagini toccano anche via Zecca Vecchia e in un’informativa compare anche per Largo Claudio Treves, sempre nel quartiere Brera. Qui il progetto promosso da Stella R.E., dopo l’acquisto dell’immobile comunale nel 2021, prevede un nuovo edificio residenziale di nove piani. L’operazione si inserisce in uno dei filoni centrali dell’indagine della Procura, quello sulla dismissione del patrimonio pubblico nel centro storico. Lo stesso immobile è stato ceduto dal Comune all’asta per una cifra che tocca i 50 milioni di euro. Nelle carte il progetto viene discusso anche da Giuseppe Marinoni e Giancarlo Tancredi: l’ex assessore spera non ci siano intoppi.
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