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2021-06-02
Speranza sfregia pure le vacanze. «Al ristorante? al massimo in 4»
Nel film di Massimo Troisi Ricomincio da tre c'è una memorabile scena nella quale il protagonista è alle prese con un giovanotto complessato che non esce mai di casa, interpretato da Renato Scarpa: il nome del personaggio è Robertino. Non se la prenderà, il ministro della Salute Roberto Speranza, ma ieri lo avremmo chiamato Robertino, quando è stata diffusa la precisazione che mantiene, nelle zone gialle e pure in quelle bianche, il limite massimo di quattro persone sedute allo stesso tavolo al ristorante, a meno che non siano conviventi. Incredibile ma vero: il primo giorno di riapertura dei locali al chiuso, un giorno atteso per un anno e mezzo, un giorno storico, viene funestato da una delle più incredibili decisioni di Speranza, ministro che in questo lunghissimo anno e mezzo di pandemia di decisioni puramente ideologiche, al limite dell'autolesionismo, ne ha prese tantissime.
La cronaca di questa ennesima giornata di ordinaria follia targata Robertino Speranza inizia ieri mattina, quando riaprono, dopo la lunghissima agonia, circa 360.000 bar, ristoranti, pizzerie e agriturismi in tutta Italia, con la possibilità di offrire il servizio al bancone e al tavolo al chiuso. Tutti contenti, dunque? Macché: da giorni regna l'incertezza sulla regola che limita, anche nelle zone bianche, il numero dei commensali a quattro, a meno che non siano tutti conviventi. «Passano i mesi», protesta la Fipe Confcommercio, la Federazione italiana dei pubblici esercizi, «ma non la confusione successiva a ogni provvedimento. È inaccettabile che, nel giorno in cui finalmente bar e ristoranti possono riprendere a lavorare a regime, non ci sia ancora una linea chiara sul numero di commensali permessi a ogni tavolo. Da giorni si susseguono interpretazioni giornalistiche le più disparate, mai smentite, salvo ricevere solo ora, a mezzo stampa, un'interpretazione del ministero della Salute giuridicamente incomprensibile, che limita persino nelle zone bianche il numero dei commensali a quattro. Se fosse confermata andrebbero spiegate le basi su cui si fonda una decisione così penalizzante, che comunque doveva essere resa pubblica giorni fa e non a tre ore dall'inizio del servizio serale. Questa è una grave mancanza di rispetto nei confronti di centinaia di migliaia di imprenditori», attacca la Fipe, «costretti per l'ennesima volta a improvvisare. Confidiamo in un ripensamento».
Altro che ripensamento: il ministero della Salute conferma l'assurda regola. «Sia nelle regioni in zona gialla sia in quelle in zona bianca», fa sapere il dicastero guidato da Robertino Speranza, «rimane il limite, per i ristoranti, del servizio al tavolo consentito per un massimo di quattro persone, a meno che non siano tutte conviventi. Lo precisa il ministero della Salute», continua la nota, «facendo riferimento al dpcm del 2 marzo scorso, a sua volta richiamato dal decreto legge 22 aprile 2021 e nella premessa delle linee guida per la ripresa delle attività economiche e sociali del 28 maggio 2021 al punto 1». Una precisazione in un orrendo linguaggio burocratico che assesta una legnata tremenda sulla testa dei ristoratori e dei clienti. Una decisione senza capo né coda, che va contro il minimo buon senso, e che mette in estrema difficoltà tutto il comparto della ristorazione, come se i problemi non fossero già abbastanza. L'enormità di questa decisione di Speranza è lampante, i paradossi che comporta non si contano.
Qualche esempio? Innanzitutto, una comitiva di 20 persone può riunirsi in un appartamento, guardare la partita in tv, bere, sgranocchiare noccioline, mettersi in auto, andare al ristorante, ma poi a cena deve dividersi in cinque tavoli, lontani l'uno dall'altro. Il motivo? Bisogna chiederlo a Robertino Speranza. Per non parlare di chi sta prenotando una vacanza, con la propria famiglia e altri amici: la combriccola dovrà rassegnarsi a stare tutto il giorno insieme, salvo dividersi a pranzo e a cena, ovvero nei momenti di più spensierata convivialità. Un fattore decisivo nella scelta del luogo dove trascorrere la villeggiatura, che finirà per penalizzare le località turistiche italiane favorendo quelle degli altri Paesi, dove questo limite non c'è.
Secondo i calcoli della Coldiretti, la filiera della ristorazione è stata la più colpita dalle misure adottate per combattere la pandemia, con una perdita, tra limitazioni e chiusure a singhiozzo, stimata in 41 miliardi di euro nell'anno del Covid. Se un ristorante resta chiuso, infatti, a risentirne non sono solo il proprietario e i dipendenti, ma tutte le aziende della filiera agroalimentare. A beneficiare delle riaperture sarebbe a cascata l'intero sistema, un esercito di imprese con relativi dipendenti, tra le quali 70.000 industrie alimentari e 740.000 aziende agricole impegnate a garantire le forniture, per un totale di 3,6 milioni di posti di lavoro.
«Con il limite dei quattro posti a sedere», protesta Coldiretti, «saltano le tradizionali tavolate estive, dalle feste di fine anno scolastico ai pranzi aziendali fino ai pranzi in riva al mare e alle cene serali tutti insieme in vacanza, che sono una priorità per quasi un italiano su tre dopo le riaperture». Numeri impressionanti, quelli della filiera della ristorazione, che suggerirebbero a chiunque abbia responsabilità di governo di fare tutto ciò che è possibile per rimettere in moto il motore di questo settore, e di conseguenza dell'intera economia italiana, in un momento in cui la sentenza Ilva rischia di affossare la siderurgia del nostro Paese, che rischia di dover acquistare l'acciaio dall'estero ora che il prezzo è alle stelle, e mentre il premier Mario Draghi sottolinea che in questa fase di risveglio dell'Italia «il compito del governo per tutte le realtà produttive è creare un ambiente dove ci si sente parte della società, per investire e guardare al futuro». Il compito del governo, quindi dei ministri, compreso Robertino Speranza, l'ultimo giapponese delle restrizioni senza senso.
La disoccupazione arriva al 10,7%. Persi 870.000 posti in un anno
«Nel primo trimestre del 2021 il prodotto interno lordo (Pil) espresso con valori concatenati con anno di riferimento 2015, corretto per gli effetti del calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente ed è diminuito dello 0,8% nei confronti del primo trimestre del 2020». Sono le prime 46 parole della nota Istat pubblicata ieri. Un po' involute per i non addetti ai lavori. Sembrerebbero dare una buona notizia. Il 30 aprile scorso, l'Istituto aveva affermato che il Pil del primo trimestre era diminuito dello 0,4% rispetto al precedente. E i calcoli sono effettuati avendo a riferimento i prezzi del 2015. Per depurare il tutto dalle fluttuazioni dei prezzi. Come interpretare i dati? Tecnicamente siamo fuori dalla recessione. I dati del secondo trimestre saranno addirittura molto più buoni soprattutto se confrontati con il secondo quarto del 2020, quello delle chiusure più dure. Quando l'Italia ha registrato un terrificante livello di reddito pari a circa 353 miliardi. Mantenendo il Pil del primo trimestre del 2021 - circa 403 miliardi - a fine luglio i titoli dei giornali saranno questi: «Nel secondo trimestre il Pil tendenziale esplode. Rispetto a un anno +14%!».
C'è bisogno di buone notizie, possibilmente vere. E questa notizia sarà buona e sarà vera. Ma purtroppo non sarà abbastanza. Prima che arrivassero le chiusure, l'Italia ogni trimestre registrava un Pil di 431-432 miliardi. Centesimo più centesimo meno. Oggi siamo a 403 miliardi. La strada per tornare alla normalità purtroppo è ancora lunga. Potremo dire di essere usciti dalla crisi non quando faremo un più zero virgola rispetto al trimestre immediatamente precedente (la cosiddetta variazione congiunturale) o rispetto allo stesso trimestre dell'anno passato (la cosiddetta variazione tendenziale), ma solo quando saremo tornati al già non esaltante 430 miliardi. Un livello comunque tale da non far abbassare la povertà in Italia al di sotto dei 5 milioni di individui. Oggi siamo addirittura a 5,6 milioni e nel 2011, prima della cura Monti, eravamo a 2,6 milioni. Siamo quindi straordinariamente lontani da una situazione di normalità e benessere. E la strada verso il completo recupero è lastricata di trabocchetti. Basterà sbagliare un passo e la trappola scatterà, mettendo in ginocchio il Paese. E alcune di queste trappole potrebbero scattare anche se non commettessimo alcun errore. Insomma, non abbiamo il destino nelle nostre mani e dovremo sperare nello stellone perché la situazione non peggiori.
Anche sul fronte del lavoro i dati sono negativi. Ad aprile il tasso di disoccupazione è salito al 10,7% (+0,3 punti) e le persone in cerca di lavoro risultano in «forte crescita» pari a +870.000 unità (+48,3%) rispetto a un anno fa. L'unica nota positiva è il lieve aumento degli occupati (+0,1%).
A marzo 2022, se non accade nulla di nuovo, la Bce metterà fine al programma straordinario dell'acquisto di titoli di Stato. E saranno dolori perché i tassi tornerebbero a crescere mettendo definitivamente al tappeto le nostre imprese che - secondo le stime di Giuliano Mandolesi, commercialista ed esperto di cose tributarie - hanno perso qualcosa come 316 miliardi di fatturato nel solo 2020. A fronte di indennizzi complessivi a loro destinati pari a poco più di 40 miliardi. Se molte di queste imprese non hanno portato i libri in tribunale, è perché sono ancora in essere moratorie sul debito bancario su un totale complessivo pari a quasi 150 miliardi. Quando le rate di questi mutui torneranno a essere addebitate sui conti correnti, come potranno essere pagate?
La situazione delle nostre aziende è radicalmente lacerata e disuguale. Il manifatturiero torna a crescere prepotente. L'indice Pmi pubblicato ieri misura la fiducia dei direttori degli acquisti in misura superiore a 60. Livelli altissimi da vero boom economico. Ma è il settore del turismo, della ristorazione e del commercio non alimentare a essere stato completamente distrutto dalle chiusure. Il grosso delle perdite del fatturato deriva da lì. E i dolorosi ma necessari processi di ristrutturazione sono impediti dal blocco dei licenziamenti che il ministro Andrea Orlando pervicacemente (anche se comprensibilmente) ripropone, con ciò rimandando di poco lo scoppio della bomba dei licenziamenti. Cui rischia di aggiungersi l'esplosione della bolla dei crediti deteriorati (inadempienze probabili e sofferenze) nei bilanci delle banche.
Neppure il governatore di Banca d'Italia nasconde questa terribile realtà, mitigandola con un neutro «i nuovi crediti deteriorati stanno aumentando seppur lievemente». Kpmg stima, soltanto per le inadempienze probabili, un possibile raddoppio da 50 a 100 miliardi. E non stiamo parlando delle sofferenze. Il rischio che tutto non vada per il verso giusto è alto. E la crescita a doppia cifra di cui parleranno i giornali ai primi di luglio rischia di essere il canto del cigno.
Servono ancora cose per evitare ciò che Mario Draghi un anno fa sul Financial Times definiva «distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base imponibile fiscale». Siamo fuori dalla recessione tecnica ma siamo sull'orlo del burrone. Non è mai troppo presto per agire.
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Contagi, ricoveri e decessi giù. Nel giorno in cui i locali ripartono anche al chiuso e si tenta di rilanciare turismo ed economia, il titolare della Salute «precisa»: restrizioni a tavola in zona bianca e all'aperto. Mancano 800.000 posti di lavoro rispetto al pre Covid. E l'Ilva rischia grosso. Nel primo trimestre Pil su dello 0,1%, però è ancora 30 miliardi sotto i livelli pre Covid. Lo speciale contiene due articoli. Nel film di Massimo Troisi Ricomincio da tre c'è una memorabile scena nella quale il protagonista è alle prese con un giovanotto complessato che non esce mai di casa, interpretato da Renato Scarpa: il nome del personaggio è Robertino. Non se la prenderà, il ministro della Salute Roberto Speranza, ma ieri lo avremmo chiamato Robertino, quando è stata diffusa la precisazione che mantiene, nelle zone gialle e pure in quelle bianche, il limite massimo di quattro persone sedute allo stesso tavolo al ristorante, a meno che non siano conviventi. Incredibile ma vero: il primo giorno di riapertura dei locali al chiuso, un giorno atteso per un anno e mezzo, un giorno storico, viene funestato da una delle più incredibili decisioni di Speranza, ministro che in questo lunghissimo anno e mezzo di pandemia di decisioni puramente ideologiche, al limite dell'autolesionismo, ne ha prese tantissime. La cronaca di questa ennesima giornata di ordinaria follia targata Robertino Speranza inizia ieri mattina, quando riaprono, dopo la lunghissima agonia, circa 360.000 bar, ristoranti, pizzerie e agriturismi in tutta Italia, con la possibilità di offrire il servizio al bancone e al tavolo al chiuso. Tutti contenti, dunque? Macché: da giorni regna l'incertezza sulla regola che limita, anche nelle zone bianche, il numero dei commensali a quattro, a meno che non siano tutti conviventi. «Passano i mesi», protesta la Fipe Confcommercio, la Federazione italiana dei pubblici esercizi, «ma non la confusione successiva a ogni provvedimento. È inaccettabile che, nel giorno in cui finalmente bar e ristoranti possono riprendere a lavorare a regime, non ci sia ancora una linea chiara sul numero di commensali permessi a ogni tavolo. Da giorni si susseguono interpretazioni giornalistiche le più disparate, mai smentite, salvo ricevere solo ora, a mezzo stampa, un'interpretazione del ministero della Salute giuridicamente incomprensibile, che limita persino nelle zone bianche il numero dei commensali a quattro. Se fosse confermata andrebbero spiegate le basi su cui si fonda una decisione così penalizzante, che comunque doveva essere resa pubblica giorni fa e non a tre ore dall'inizio del servizio serale. Questa è una grave mancanza di rispetto nei confronti di centinaia di migliaia di imprenditori», attacca la Fipe, «costretti per l'ennesima volta a improvvisare. Confidiamo in un ripensamento». Altro che ripensamento: il ministero della Salute conferma l'assurda regola. «Sia nelle regioni in zona gialla sia in quelle in zona bianca», fa sapere il dicastero guidato da Robertino Speranza, «rimane il limite, per i ristoranti, del servizio al tavolo consentito per un massimo di quattro persone, a meno che non siano tutte conviventi. Lo precisa il ministero della Salute», continua la nota, «facendo riferimento al dpcm del 2 marzo scorso, a sua volta richiamato dal decreto legge 22 aprile 2021 e nella premessa delle linee guida per la ripresa delle attività economiche e sociali del 28 maggio 2021 al punto 1». Una precisazione in un orrendo linguaggio burocratico che assesta una legnata tremenda sulla testa dei ristoratori e dei clienti. Una decisione senza capo né coda, che va contro il minimo buon senso, e che mette in estrema difficoltà tutto il comparto della ristorazione, come se i problemi non fossero già abbastanza. L'enormità di questa decisione di Speranza è lampante, i paradossi che comporta non si contano. Qualche esempio? Innanzitutto, una comitiva di 20 persone può riunirsi in un appartamento, guardare la partita in tv, bere, sgranocchiare noccioline, mettersi in auto, andare al ristorante, ma poi a cena deve dividersi in cinque tavoli, lontani l'uno dall'altro. Il motivo? Bisogna chiederlo a Robertino Speranza. Per non parlare di chi sta prenotando una vacanza, con la propria famiglia e altri amici: la combriccola dovrà rassegnarsi a stare tutto il giorno insieme, salvo dividersi a pranzo e a cena, ovvero nei momenti di più spensierata convivialità. Un fattore decisivo nella scelta del luogo dove trascorrere la villeggiatura, che finirà per penalizzare le località turistiche italiane favorendo quelle degli altri Paesi, dove questo limite non c'è. Secondo i calcoli della Coldiretti, la filiera della ristorazione è stata la più colpita dalle misure adottate per combattere la pandemia, con una perdita, tra limitazioni e chiusure a singhiozzo, stimata in 41 miliardi di euro nell'anno del Covid. Se un ristorante resta chiuso, infatti, a risentirne non sono solo il proprietario e i dipendenti, ma tutte le aziende della filiera agroalimentare. A beneficiare delle riaperture sarebbe a cascata l'intero sistema, un esercito di imprese con relativi dipendenti, tra le quali 70.000 industrie alimentari e 740.000 aziende agricole impegnate a garantire le forniture, per un totale di 3,6 milioni di posti di lavoro. «Con il limite dei quattro posti a sedere», protesta Coldiretti, «saltano le tradizionali tavolate estive, dalle feste di fine anno scolastico ai pranzi aziendali fino ai pranzi in riva al mare e alle cene serali tutti insieme in vacanza, che sono una priorità per quasi un italiano su tre dopo le riaperture». Numeri impressionanti, quelli della filiera della ristorazione, che suggerirebbero a chiunque abbia responsabilità di governo di fare tutto ciò che è possibile per rimettere in moto il motore di questo settore, e di conseguenza dell'intera economia italiana, in un momento in cui la sentenza Ilva rischia di affossare la siderurgia del nostro Paese, che rischia di dover acquistare l'acciaio dall'estero ora che il prezzo è alle stelle, e mentre il premier Mario Draghi sottolinea che in questa fase di risveglio dell'Italia «il compito del governo per tutte le realtà produttive è creare un ambiente dove ci si sente parte della società, per investire e guardare al futuro». Il compito del governo, quindi dei ministri, compreso Robertino Speranza, l'ultimo giapponese delle restrizioni senza senso. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speranza-sfregia-pure-le-vacanze-al-ristorante-al-massimo-in-4-2653198485.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-disoccupazione-arriva-al-107-persi-870-000-posti-in-un-anno" data-post-id="2653198485" data-published-at="1622577314" data-use-pagination="False"> La disoccupazione arriva al 10,7%. Persi 870.000 posti in un anno «Nel primo trimestre del 2021 il prodotto interno lordo (Pil) espresso con valori concatenati con anno di riferimento 2015, corretto per gli effetti del calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente ed è diminuito dello 0,8% nei confronti del primo trimestre del 2020». Sono le prime 46 parole della nota Istat pubblicata ieri. Un po' involute per i non addetti ai lavori. Sembrerebbero dare una buona notizia. Il 30 aprile scorso, l'Istituto aveva affermato che il Pil del primo trimestre era diminuito dello 0,4% rispetto al precedente. E i calcoli sono effettuati avendo a riferimento i prezzi del 2015. Per depurare il tutto dalle fluttuazioni dei prezzi. Come interpretare i dati? Tecnicamente siamo fuori dalla recessione. I dati del secondo trimestre saranno addirittura molto più buoni soprattutto se confrontati con il secondo quarto del 2020, quello delle chiusure più dure. Quando l'Italia ha registrato un terrificante livello di reddito pari a circa 353 miliardi. Mantenendo il Pil del primo trimestre del 2021 - circa 403 miliardi - a fine luglio i titoli dei giornali saranno questi: «Nel secondo trimestre il Pil tendenziale esplode. Rispetto a un anno +14%!». C'è bisogno di buone notizie, possibilmente vere. E questa notizia sarà buona e sarà vera. Ma purtroppo non sarà abbastanza. Prima che arrivassero le chiusure, l'Italia ogni trimestre registrava un Pil di 431-432 miliardi. Centesimo più centesimo meno. Oggi siamo a 403 miliardi. La strada per tornare alla normalità purtroppo è ancora lunga. Potremo dire di essere usciti dalla crisi non quando faremo un più zero virgola rispetto al trimestre immediatamente precedente (la cosiddetta variazione congiunturale) o rispetto allo stesso trimestre dell'anno passato (la cosiddetta variazione tendenziale), ma solo quando saremo tornati al già non esaltante 430 miliardi. Un livello comunque tale da non far abbassare la povertà in Italia al di sotto dei 5 milioni di individui. Oggi siamo addirittura a 5,6 milioni e nel 2011, prima della cura Monti, eravamo a 2,6 milioni. Siamo quindi straordinariamente lontani da una situazione di normalità e benessere. E la strada verso il completo recupero è lastricata di trabocchetti. Basterà sbagliare un passo e la trappola scatterà, mettendo in ginocchio il Paese. E alcune di queste trappole potrebbero scattare anche se non commettessimo alcun errore. Insomma, non abbiamo il destino nelle nostre mani e dovremo sperare nello stellone perché la situazione non peggiori. Anche sul fronte del lavoro i dati sono negativi. Ad aprile il tasso di disoccupazione è salito al 10,7% (+0,3 punti) e le persone in cerca di lavoro risultano in «forte crescita» pari a +870.000 unità (+48,3%) rispetto a un anno fa. L'unica nota positiva è il lieve aumento degli occupati (+0,1%). A marzo 2022, se non accade nulla di nuovo, la Bce metterà fine al programma straordinario dell'acquisto di titoli di Stato. E saranno dolori perché i tassi tornerebbero a crescere mettendo definitivamente al tappeto le nostre imprese che - secondo le stime di Giuliano Mandolesi, commercialista ed esperto di cose tributarie - hanno perso qualcosa come 316 miliardi di fatturato nel solo 2020. A fronte di indennizzi complessivi a loro destinati pari a poco più di 40 miliardi. Se molte di queste imprese non hanno portato i libri in tribunale, è perché sono ancora in essere moratorie sul debito bancario su un totale complessivo pari a quasi 150 miliardi. Quando le rate di questi mutui torneranno a essere addebitate sui conti correnti, come potranno essere pagate? La situazione delle nostre aziende è radicalmente lacerata e disuguale. Il manifatturiero torna a crescere prepotente. L'indice Pmi pubblicato ieri misura la fiducia dei direttori degli acquisti in misura superiore a 60. Livelli altissimi da vero boom economico. Ma è il settore del turismo, della ristorazione e del commercio non alimentare a essere stato completamente distrutto dalle chiusure. Il grosso delle perdite del fatturato deriva da lì. E i dolorosi ma necessari processi di ristrutturazione sono impediti dal blocco dei licenziamenti che il ministro Andrea Orlando pervicacemente (anche se comprensibilmente) ripropone, con ciò rimandando di poco lo scoppio della bomba dei licenziamenti. Cui rischia di aggiungersi l'esplosione della bolla dei crediti deteriorati (inadempienze probabili e sofferenze) nei bilanci delle banche. Neppure il governatore di Banca d'Italia nasconde questa terribile realtà, mitigandola con un neutro «i nuovi crediti deteriorati stanno aumentando seppur lievemente». Kpmg stima, soltanto per le inadempienze probabili, un possibile raddoppio da 50 a 100 miliardi. E non stiamo parlando delle sofferenze. Il rischio che tutto non vada per il verso giusto è alto. E la crescita a doppia cifra di cui parleranno i giornali ai primi di luglio rischia di essere il canto del cigno. Servono ancora cose per evitare ciò che Mario Draghi un anno fa sul Financial Times definiva «distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base imponibile fiscale». Siamo fuori dalla recessione tecnica ma siamo sull'orlo del burrone. Non è mai troppo presto per agire.
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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