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2021-06-02
Speranza sfregia pure le vacanze. «Al ristorante? al massimo in 4»
Nel film di Massimo Troisi Ricomincio da tre c'è una memorabile scena nella quale il protagonista è alle prese con un giovanotto complessato che non esce mai di casa, interpretato da Renato Scarpa: il nome del personaggio è Robertino. Non se la prenderà, il ministro della Salute Roberto Speranza, ma ieri lo avremmo chiamato Robertino, quando è stata diffusa la precisazione che mantiene, nelle zone gialle e pure in quelle bianche, il limite massimo di quattro persone sedute allo stesso tavolo al ristorante, a meno che non siano conviventi. Incredibile ma vero: il primo giorno di riapertura dei locali al chiuso, un giorno atteso per un anno e mezzo, un giorno storico, viene funestato da una delle più incredibili decisioni di Speranza, ministro che in questo lunghissimo anno e mezzo di pandemia di decisioni puramente ideologiche, al limite dell'autolesionismo, ne ha prese tantissime.
La cronaca di questa ennesima giornata di ordinaria follia targata Robertino Speranza inizia ieri mattina, quando riaprono, dopo la lunghissima agonia, circa 360.000 bar, ristoranti, pizzerie e agriturismi in tutta Italia, con la possibilità di offrire il servizio al bancone e al tavolo al chiuso. Tutti contenti, dunque? Macché: da giorni regna l'incertezza sulla regola che limita, anche nelle zone bianche, il numero dei commensali a quattro, a meno che non siano tutti conviventi. «Passano i mesi», protesta la Fipe Confcommercio, la Federazione italiana dei pubblici esercizi, «ma non la confusione successiva a ogni provvedimento. È inaccettabile che, nel giorno in cui finalmente bar e ristoranti possono riprendere a lavorare a regime, non ci sia ancora una linea chiara sul numero di commensali permessi a ogni tavolo. Da giorni si susseguono interpretazioni giornalistiche le più disparate, mai smentite, salvo ricevere solo ora, a mezzo stampa, un'interpretazione del ministero della Salute giuridicamente incomprensibile, che limita persino nelle zone bianche il numero dei commensali a quattro. Se fosse confermata andrebbero spiegate le basi su cui si fonda una decisione così penalizzante, che comunque doveva essere resa pubblica giorni fa e non a tre ore dall'inizio del servizio serale. Questa è una grave mancanza di rispetto nei confronti di centinaia di migliaia di imprenditori», attacca la Fipe, «costretti per l'ennesima volta a improvvisare. Confidiamo in un ripensamento».
Altro che ripensamento: il ministero della Salute conferma l'assurda regola. «Sia nelle regioni in zona gialla sia in quelle in zona bianca», fa sapere il dicastero guidato da Robertino Speranza, «rimane il limite, per i ristoranti, del servizio al tavolo consentito per un massimo di quattro persone, a meno che non siano tutte conviventi. Lo precisa il ministero della Salute», continua la nota, «facendo riferimento al dpcm del 2 marzo scorso, a sua volta richiamato dal decreto legge 22 aprile 2021 e nella premessa delle linee guida per la ripresa delle attività economiche e sociali del 28 maggio 2021 al punto 1». Una precisazione in un orrendo linguaggio burocratico che assesta una legnata tremenda sulla testa dei ristoratori e dei clienti. Una decisione senza capo né coda, che va contro il minimo buon senso, e che mette in estrema difficoltà tutto il comparto della ristorazione, come se i problemi non fossero già abbastanza. L'enormità di questa decisione di Speranza è lampante, i paradossi che comporta non si contano.
Qualche esempio? Innanzitutto, una comitiva di 20 persone può riunirsi in un appartamento, guardare la partita in tv, bere, sgranocchiare noccioline, mettersi in auto, andare al ristorante, ma poi a cena deve dividersi in cinque tavoli, lontani l'uno dall'altro. Il motivo? Bisogna chiederlo a Robertino Speranza. Per non parlare di chi sta prenotando una vacanza, con la propria famiglia e altri amici: la combriccola dovrà rassegnarsi a stare tutto il giorno insieme, salvo dividersi a pranzo e a cena, ovvero nei momenti di più spensierata convivialità. Un fattore decisivo nella scelta del luogo dove trascorrere la villeggiatura, che finirà per penalizzare le località turistiche italiane favorendo quelle degli altri Paesi, dove questo limite non c'è.
Secondo i calcoli della Coldiretti, la filiera della ristorazione è stata la più colpita dalle misure adottate per combattere la pandemia, con una perdita, tra limitazioni e chiusure a singhiozzo, stimata in 41 miliardi di euro nell'anno del Covid. Se un ristorante resta chiuso, infatti, a risentirne non sono solo il proprietario e i dipendenti, ma tutte le aziende della filiera agroalimentare. A beneficiare delle riaperture sarebbe a cascata l'intero sistema, un esercito di imprese con relativi dipendenti, tra le quali 70.000 industrie alimentari e 740.000 aziende agricole impegnate a garantire le forniture, per un totale di 3,6 milioni di posti di lavoro.
«Con il limite dei quattro posti a sedere», protesta Coldiretti, «saltano le tradizionali tavolate estive, dalle feste di fine anno scolastico ai pranzi aziendali fino ai pranzi in riva al mare e alle cene serali tutti insieme in vacanza, che sono una priorità per quasi un italiano su tre dopo le riaperture». Numeri impressionanti, quelli della filiera della ristorazione, che suggerirebbero a chiunque abbia responsabilità di governo di fare tutto ciò che è possibile per rimettere in moto il motore di questo settore, e di conseguenza dell'intera economia italiana, in un momento in cui la sentenza Ilva rischia di affossare la siderurgia del nostro Paese, che rischia di dover acquistare l'acciaio dall'estero ora che il prezzo è alle stelle, e mentre il premier Mario Draghi sottolinea che in questa fase di risveglio dell'Italia «il compito del governo per tutte le realtà produttive è creare un ambiente dove ci si sente parte della società, per investire e guardare al futuro». Il compito del governo, quindi dei ministri, compreso Robertino Speranza, l'ultimo giapponese delle restrizioni senza senso.
La disoccupazione arriva al 10,7%. Persi 870.000 posti in un anno
«Nel primo trimestre del 2021 il prodotto interno lordo (Pil) espresso con valori concatenati con anno di riferimento 2015, corretto per gli effetti del calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente ed è diminuito dello 0,8% nei confronti del primo trimestre del 2020». Sono le prime 46 parole della nota Istat pubblicata ieri. Un po' involute per i non addetti ai lavori. Sembrerebbero dare una buona notizia. Il 30 aprile scorso, l'Istituto aveva affermato che il Pil del primo trimestre era diminuito dello 0,4% rispetto al precedente. E i calcoli sono effettuati avendo a riferimento i prezzi del 2015. Per depurare il tutto dalle fluttuazioni dei prezzi. Come interpretare i dati? Tecnicamente siamo fuori dalla recessione. I dati del secondo trimestre saranno addirittura molto più buoni soprattutto se confrontati con il secondo quarto del 2020, quello delle chiusure più dure. Quando l'Italia ha registrato un terrificante livello di reddito pari a circa 353 miliardi. Mantenendo il Pil del primo trimestre del 2021 - circa 403 miliardi - a fine luglio i titoli dei giornali saranno questi: «Nel secondo trimestre il Pil tendenziale esplode. Rispetto a un anno +14%!».
C'è bisogno di buone notizie, possibilmente vere. E questa notizia sarà buona e sarà vera. Ma purtroppo non sarà abbastanza. Prima che arrivassero le chiusure, l'Italia ogni trimestre registrava un Pil di 431-432 miliardi. Centesimo più centesimo meno. Oggi siamo a 403 miliardi. La strada per tornare alla normalità purtroppo è ancora lunga. Potremo dire di essere usciti dalla crisi non quando faremo un più zero virgola rispetto al trimestre immediatamente precedente (la cosiddetta variazione congiunturale) o rispetto allo stesso trimestre dell'anno passato (la cosiddetta variazione tendenziale), ma solo quando saremo tornati al già non esaltante 430 miliardi. Un livello comunque tale da non far abbassare la povertà in Italia al di sotto dei 5 milioni di individui. Oggi siamo addirittura a 5,6 milioni e nel 2011, prima della cura Monti, eravamo a 2,6 milioni. Siamo quindi straordinariamente lontani da una situazione di normalità e benessere. E la strada verso il completo recupero è lastricata di trabocchetti. Basterà sbagliare un passo e la trappola scatterà, mettendo in ginocchio il Paese. E alcune di queste trappole potrebbero scattare anche se non commettessimo alcun errore. Insomma, non abbiamo il destino nelle nostre mani e dovremo sperare nello stellone perché la situazione non peggiori.
Anche sul fronte del lavoro i dati sono negativi. Ad aprile il tasso di disoccupazione è salito al 10,7% (+0,3 punti) e le persone in cerca di lavoro risultano in «forte crescita» pari a +870.000 unità (+48,3%) rispetto a un anno fa. L'unica nota positiva è il lieve aumento degli occupati (+0,1%).
A marzo 2022, se non accade nulla di nuovo, la Bce metterà fine al programma straordinario dell'acquisto di titoli di Stato. E saranno dolori perché i tassi tornerebbero a crescere mettendo definitivamente al tappeto le nostre imprese che - secondo le stime di Giuliano Mandolesi, commercialista ed esperto di cose tributarie - hanno perso qualcosa come 316 miliardi di fatturato nel solo 2020. A fronte di indennizzi complessivi a loro destinati pari a poco più di 40 miliardi. Se molte di queste imprese non hanno portato i libri in tribunale, è perché sono ancora in essere moratorie sul debito bancario su un totale complessivo pari a quasi 150 miliardi. Quando le rate di questi mutui torneranno a essere addebitate sui conti correnti, come potranno essere pagate?
La situazione delle nostre aziende è radicalmente lacerata e disuguale. Il manifatturiero torna a crescere prepotente. L'indice Pmi pubblicato ieri misura la fiducia dei direttori degli acquisti in misura superiore a 60. Livelli altissimi da vero boom economico. Ma è il settore del turismo, della ristorazione e del commercio non alimentare a essere stato completamente distrutto dalle chiusure. Il grosso delle perdite del fatturato deriva da lì. E i dolorosi ma necessari processi di ristrutturazione sono impediti dal blocco dei licenziamenti che il ministro Andrea Orlando pervicacemente (anche se comprensibilmente) ripropone, con ciò rimandando di poco lo scoppio della bomba dei licenziamenti. Cui rischia di aggiungersi l'esplosione della bolla dei crediti deteriorati (inadempienze probabili e sofferenze) nei bilanci delle banche.
Neppure il governatore di Banca d'Italia nasconde questa terribile realtà, mitigandola con un neutro «i nuovi crediti deteriorati stanno aumentando seppur lievemente». Kpmg stima, soltanto per le inadempienze probabili, un possibile raddoppio da 50 a 100 miliardi. E non stiamo parlando delle sofferenze. Il rischio che tutto non vada per il verso giusto è alto. E la crescita a doppia cifra di cui parleranno i giornali ai primi di luglio rischia di essere il canto del cigno.
Servono ancora cose per evitare ciò che Mario Draghi un anno fa sul Financial Times definiva «distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base imponibile fiscale». Siamo fuori dalla recessione tecnica ma siamo sull'orlo del burrone. Non è mai troppo presto per agire.
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Contagi, ricoveri e decessi giù. Nel giorno in cui i locali ripartono anche al chiuso e si tenta di rilanciare turismo ed economia, il titolare della Salute «precisa»: restrizioni a tavola in zona bianca e all'aperto. Mancano 800.000 posti di lavoro rispetto al pre Covid. E l'Ilva rischia grosso. Nel primo trimestre Pil su dello 0,1%, però è ancora 30 miliardi sotto i livelli pre Covid. Lo speciale contiene due articoli. Nel film di Massimo Troisi Ricomincio da tre c'è una memorabile scena nella quale il protagonista è alle prese con un giovanotto complessato che non esce mai di casa, interpretato da Renato Scarpa: il nome del personaggio è Robertino. Non se la prenderà, il ministro della Salute Roberto Speranza, ma ieri lo avremmo chiamato Robertino, quando è stata diffusa la precisazione che mantiene, nelle zone gialle e pure in quelle bianche, il limite massimo di quattro persone sedute allo stesso tavolo al ristorante, a meno che non siano conviventi. Incredibile ma vero: il primo giorno di riapertura dei locali al chiuso, un giorno atteso per un anno e mezzo, un giorno storico, viene funestato da una delle più incredibili decisioni di Speranza, ministro che in questo lunghissimo anno e mezzo di pandemia di decisioni puramente ideologiche, al limite dell'autolesionismo, ne ha prese tantissime. La cronaca di questa ennesima giornata di ordinaria follia targata Robertino Speranza inizia ieri mattina, quando riaprono, dopo la lunghissima agonia, circa 360.000 bar, ristoranti, pizzerie e agriturismi in tutta Italia, con la possibilità di offrire il servizio al bancone e al tavolo al chiuso. Tutti contenti, dunque? Macché: da giorni regna l'incertezza sulla regola che limita, anche nelle zone bianche, il numero dei commensali a quattro, a meno che non siano tutti conviventi. «Passano i mesi», protesta la Fipe Confcommercio, la Federazione italiana dei pubblici esercizi, «ma non la confusione successiva a ogni provvedimento. È inaccettabile che, nel giorno in cui finalmente bar e ristoranti possono riprendere a lavorare a regime, non ci sia ancora una linea chiara sul numero di commensali permessi a ogni tavolo. Da giorni si susseguono interpretazioni giornalistiche le più disparate, mai smentite, salvo ricevere solo ora, a mezzo stampa, un'interpretazione del ministero della Salute giuridicamente incomprensibile, che limita persino nelle zone bianche il numero dei commensali a quattro. Se fosse confermata andrebbero spiegate le basi su cui si fonda una decisione così penalizzante, che comunque doveva essere resa pubblica giorni fa e non a tre ore dall'inizio del servizio serale. Questa è una grave mancanza di rispetto nei confronti di centinaia di migliaia di imprenditori», attacca la Fipe, «costretti per l'ennesima volta a improvvisare. Confidiamo in un ripensamento». Altro che ripensamento: il ministero della Salute conferma l'assurda regola. «Sia nelle regioni in zona gialla sia in quelle in zona bianca», fa sapere il dicastero guidato da Robertino Speranza, «rimane il limite, per i ristoranti, del servizio al tavolo consentito per un massimo di quattro persone, a meno che non siano tutte conviventi. Lo precisa il ministero della Salute», continua la nota, «facendo riferimento al dpcm del 2 marzo scorso, a sua volta richiamato dal decreto legge 22 aprile 2021 e nella premessa delle linee guida per la ripresa delle attività economiche e sociali del 28 maggio 2021 al punto 1». Una precisazione in un orrendo linguaggio burocratico che assesta una legnata tremenda sulla testa dei ristoratori e dei clienti. Una decisione senza capo né coda, che va contro il minimo buon senso, e che mette in estrema difficoltà tutto il comparto della ristorazione, come se i problemi non fossero già abbastanza. L'enormità di questa decisione di Speranza è lampante, i paradossi che comporta non si contano. Qualche esempio? Innanzitutto, una comitiva di 20 persone può riunirsi in un appartamento, guardare la partita in tv, bere, sgranocchiare noccioline, mettersi in auto, andare al ristorante, ma poi a cena deve dividersi in cinque tavoli, lontani l'uno dall'altro. Il motivo? Bisogna chiederlo a Robertino Speranza. Per non parlare di chi sta prenotando una vacanza, con la propria famiglia e altri amici: la combriccola dovrà rassegnarsi a stare tutto il giorno insieme, salvo dividersi a pranzo e a cena, ovvero nei momenti di più spensierata convivialità. Un fattore decisivo nella scelta del luogo dove trascorrere la villeggiatura, che finirà per penalizzare le località turistiche italiane favorendo quelle degli altri Paesi, dove questo limite non c'è. Secondo i calcoli della Coldiretti, la filiera della ristorazione è stata la più colpita dalle misure adottate per combattere la pandemia, con una perdita, tra limitazioni e chiusure a singhiozzo, stimata in 41 miliardi di euro nell'anno del Covid. Se un ristorante resta chiuso, infatti, a risentirne non sono solo il proprietario e i dipendenti, ma tutte le aziende della filiera agroalimentare. A beneficiare delle riaperture sarebbe a cascata l'intero sistema, un esercito di imprese con relativi dipendenti, tra le quali 70.000 industrie alimentari e 740.000 aziende agricole impegnate a garantire le forniture, per un totale di 3,6 milioni di posti di lavoro. «Con il limite dei quattro posti a sedere», protesta Coldiretti, «saltano le tradizionali tavolate estive, dalle feste di fine anno scolastico ai pranzi aziendali fino ai pranzi in riva al mare e alle cene serali tutti insieme in vacanza, che sono una priorità per quasi un italiano su tre dopo le riaperture». Numeri impressionanti, quelli della filiera della ristorazione, che suggerirebbero a chiunque abbia responsabilità di governo di fare tutto ciò che è possibile per rimettere in moto il motore di questo settore, e di conseguenza dell'intera economia italiana, in un momento in cui la sentenza Ilva rischia di affossare la siderurgia del nostro Paese, che rischia di dover acquistare l'acciaio dall'estero ora che il prezzo è alle stelle, e mentre il premier Mario Draghi sottolinea che in questa fase di risveglio dell'Italia «il compito del governo per tutte le realtà produttive è creare un ambiente dove ci si sente parte della società, per investire e guardare al futuro». Il compito del governo, quindi dei ministri, compreso Robertino Speranza, l'ultimo giapponese delle restrizioni senza senso. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speranza-sfregia-pure-le-vacanze-al-ristorante-al-massimo-in-4-2653198485.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-disoccupazione-arriva-al-107-persi-870-000-posti-in-un-anno" data-post-id="2653198485" data-published-at="1622577314" data-use-pagination="False"> La disoccupazione arriva al 10,7%. Persi 870.000 posti in un anno «Nel primo trimestre del 2021 il prodotto interno lordo (Pil) espresso con valori concatenati con anno di riferimento 2015, corretto per gli effetti del calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente ed è diminuito dello 0,8% nei confronti del primo trimestre del 2020». Sono le prime 46 parole della nota Istat pubblicata ieri. Un po' involute per i non addetti ai lavori. Sembrerebbero dare una buona notizia. Il 30 aprile scorso, l'Istituto aveva affermato che il Pil del primo trimestre era diminuito dello 0,4% rispetto al precedente. E i calcoli sono effettuati avendo a riferimento i prezzi del 2015. Per depurare il tutto dalle fluttuazioni dei prezzi. Come interpretare i dati? Tecnicamente siamo fuori dalla recessione. I dati del secondo trimestre saranno addirittura molto più buoni soprattutto se confrontati con il secondo quarto del 2020, quello delle chiusure più dure. Quando l'Italia ha registrato un terrificante livello di reddito pari a circa 353 miliardi. Mantenendo il Pil del primo trimestre del 2021 - circa 403 miliardi - a fine luglio i titoli dei giornali saranno questi: «Nel secondo trimestre il Pil tendenziale esplode. Rispetto a un anno +14%!». C'è bisogno di buone notizie, possibilmente vere. E questa notizia sarà buona e sarà vera. Ma purtroppo non sarà abbastanza. Prima che arrivassero le chiusure, l'Italia ogni trimestre registrava un Pil di 431-432 miliardi. Centesimo più centesimo meno. Oggi siamo a 403 miliardi. La strada per tornare alla normalità purtroppo è ancora lunga. Potremo dire di essere usciti dalla crisi non quando faremo un più zero virgola rispetto al trimestre immediatamente precedente (la cosiddetta variazione congiunturale) o rispetto allo stesso trimestre dell'anno passato (la cosiddetta variazione tendenziale), ma solo quando saremo tornati al già non esaltante 430 miliardi. Un livello comunque tale da non far abbassare la povertà in Italia al di sotto dei 5 milioni di individui. Oggi siamo addirittura a 5,6 milioni e nel 2011, prima della cura Monti, eravamo a 2,6 milioni. Siamo quindi straordinariamente lontani da una situazione di normalità e benessere. E la strada verso il completo recupero è lastricata di trabocchetti. Basterà sbagliare un passo e la trappola scatterà, mettendo in ginocchio il Paese. E alcune di queste trappole potrebbero scattare anche se non commettessimo alcun errore. Insomma, non abbiamo il destino nelle nostre mani e dovremo sperare nello stellone perché la situazione non peggiori. Anche sul fronte del lavoro i dati sono negativi. Ad aprile il tasso di disoccupazione è salito al 10,7% (+0,3 punti) e le persone in cerca di lavoro risultano in «forte crescita» pari a +870.000 unità (+48,3%) rispetto a un anno fa. L'unica nota positiva è il lieve aumento degli occupati (+0,1%). A marzo 2022, se non accade nulla di nuovo, la Bce metterà fine al programma straordinario dell'acquisto di titoli di Stato. E saranno dolori perché i tassi tornerebbero a crescere mettendo definitivamente al tappeto le nostre imprese che - secondo le stime di Giuliano Mandolesi, commercialista ed esperto di cose tributarie - hanno perso qualcosa come 316 miliardi di fatturato nel solo 2020. A fronte di indennizzi complessivi a loro destinati pari a poco più di 40 miliardi. Se molte di queste imprese non hanno portato i libri in tribunale, è perché sono ancora in essere moratorie sul debito bancario su un totale complessivo pari a quasi 150 miliardi. Quando le rate di questi mutui torneranno a essere addebitate sui conti correnti, come potranno essere pagate? La situazione delle nostre aziende è radicalmente lacerata e disuguale. Il manifatturiero torna a crescere prepotente. L'indice Pmi pubblicato ieri misura la fiducia dei direttori degli acquisti in misura superiore a 60. Livelli altissimi da vero boom economico. Ma è il settore del turismo, della ristorazione e del commercio non alimentare a essere stato completamente distrutto dalle chiusure. Il grosso delle perdite del fatturato deriva da lì. E i dolorosi ma necessari processi di ristrutturazione sono impediti dal blocco dei licenziamenti che il ministro Andrea Orlando pervicacemente (anche se comprensibilmente) ripropone, con ciò rimandando di poco lo scoppio della bomba dei licenziamenti. Cui rischia di aggiungersi l'esplosione della bolla dei crediti deteriorati (inadempienze probabili e sofferenze) nei bilanci delle banche. Neppure il governatore di Banca d'Italia nasconde questa terribile realtà, mitigandola con un neutro «i nuovi crediti deteriorati stanno aumentando seppur lievemente». Kpmg stima, soltanto per le inadempienze probabili, un possibile raddoppio da 50 a 100 miliardi. E non stiamo parlando delle sofferenze. Il rischio che tutto non vada per il verso giusto è alto. E la crescita a doppia cifra di cui parleranno i giornali ai primi di luglio rischia di essere il canto del cigno. Servono ancora cose per evitare ciò che Mario Draghi un anno fa sul Financial Times definiva «distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base imponibile fiscale». Siamo fuori dalla recessione tecnica ma siamo sull'orlo del burrone. Non è mai troppo presto per agire.
Ansa
L’accordo è stato siglato con Certares, fondo statunitense specializzato nel turismo e nei viaggi, nome ben noto nel settore per American express global business travel e per una rete di partecipazioni che abbraccia distribuzione, servizi e tecnologia legata alla mobilità globale. Il piano è robusto: una joint venture e investimenti complessivi per circa un miliardo di euro tra Francia e Regno Unito.
Il primo terreno di gioco è Trenitalia France, la controllata con sede a Parigi che negli ultimi anni ha dimostrato come la concorrenza sui binari francesi non sia più un tabù. Oggi opera nell’Alta velocità sulle tratte Parigi-Lione e Parigi-Marsiglia, oltre al collegamento internazionale Parigi-Milano. Dal debutto ha trasportato oltre 4,7 milioni di passeggeri, ritagliandosi il ruolo di secondo operatore nel mercato francese. A dominarlo il monopolio storico di Sncf il cui Tgv è stato il primo treno super-veloce in Europa. Intaccarne il primato richiede investimenti e impegno. Il nuovo capitale messo sul tavolo servirà a consolidare la presenza di Fs non solo in Francia, ma anche nei mercati transfrontalieri. Il progetto prevede l’ampliamento della flotta fino a 19 treni, aumento delle frequenze - sulla Parigi-Lione si arriverà a 28 corse giornaliere - e la realizzazione di un nuovo impianto di manutenzione nell’area parigina. A questo si aggiunge la creazione di centinaia di nuovi posti di lavoro e il rafforzamento degli investimenti in tecnologia, brand e marketing. Ma il vero orizzonte strategico è oltre il Canale della Manica. La partnership punta infatti all’ingresso sulla rotta Parigi-Londra entro il 2029, un corridoio simbolico e ad altissimo traffico, finora appannaggio quasi esclusivo dell’Eurostar. Portare l’Alta velocità italiana su quella linea significa non solo competere su prezzi e servizi, ma anche ridisegnare la geografia dei viaggi europei, offrendo un’alternativa all’aereo.
In questo disegno Certares gioca un ruolo chiave. Il fondo americano non si limita a investire capitale, ma mette a disposizione la rete di distribuzione e le società in portafoglio per favorire la transizione dei clienti business verso il treno ad Alta velocità. Parallelamente, l’accordo guarda anche ad altro. Trenitalia France e Certares intendono promuovere itinerari integrati che includano il treno, semplificare gli strumenti di prenotazione e spingere milioni di viaggiatori a scegliere la ferrovia come modalità di trasporto preferita, soprattutto sulle medie distanze. L’operazione si inserisce nel piano strategico 2025-2029 del gruppo Fs, che punta su una crescita internazionale accelerata attraverso alleanze con partner finanziari e industriali di primo piano. Sarà centrale Fs International, la divisione che si occupa delle attività passeggeri fuori dall’Italia. Oggi vale circa 3 miliardi di euro di fatturato e conta su 12.000 dipendenti.
L’obiettivo, come spiega un comunicato del gruppo, combinare l’eccellenza operativa di Fs e di Trenitalia France con la potenza commerciale e distributiva globale di Certares per trasformare la Francia, il corridoio Parigi-Londra e i futuri mercati della joint venture in una vetrina del trasporto europeo. Un’Europa che viaggia veloce, sempre più su rotaia, e che riscopre il treno non come nostalgia del passato, ma come infrastruttura del futuro.
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Brigitte Bardot guarda Gunter Sachs (Ansa)
Ora che è morta, la destra la vorrebbe ricordare. Ma non perché in passato aveva detto di votare il Front National. Semplicemente perché la Bardot è stata un simbolo della Francia, come ha chiesto Eric Ciotti, del Rassemblement National, a Emmanuel Macron. Una proposta scontata, alla quale però hanno risposto negativamente i socialisti. Su X, infatti, Olivier Faure ha scritto: «Gli omaggi nazionali vengono organizzati per servizi eccezionali resi alla Nazione. Brigitte Bardot è stata un'attrice emblematica della Nouvelle Vague. Solare, ha segnato il cinema francese. Ma ha anche voltato le spalle ai valori repubblicani ed è stata pluri-condannata dalla giustizia per razzismo». Un po’ come se esser stata la più importante attrice degli anni Cinquanta e Sessanta passasse in secondo piano a causa delle sue scelte politiche. Come se BB, per le sue idee, non facesse più parte di quella Francia che aveva portato al centro del mondo. Non solo nel cinema. Ma anche nel turismo. Fu grazie a lei che la spiaggia di Saint Tropez divenne di moda. Le sue immagini, nuda sulla riva, finirono sulle copertine delle riviste più importanti dell’epoca. E fecero sì che, ricchi e meno ricchi, raggiungessero quel mare limpido e selvaggio nella speranza di poterla incontrare. Tra loro anche Gigi Rizzi, che faceva parte di quel gruppo di italiani in cerca di belle donne e fortuna sulla spiaggia di Saint Tropez. Un amore estivo, che però lo rese immortale.
È vero: BB era di destra. Era una femmina che non poteva essere femminista. Avrebbe tradito sé stessa se lo avesse fatto. Del resto, disse: «Il femminismo non è il mio genere. A me piacciono gli uomini». Impossibile aggiungere altro.
Se non il dispiacere nel vedere una certa Francia voltarle le spalle. Ancora una volta. Quella stessa Francia che ha dimenticato sé stessa e che ha perso la propria identità. Quella Francia che oggi vuole dimenticare chi, Brigitte Bardot, le ricordava che cosa avrebbe potuto essere. Una Francia dei francesi. Una Francia certamente capace di accogliere, ma senza perdere la propria identità. Era questo che chiedeva BB, massacrata da morta sui giornali di sinistra, vedi Liberation, che titolano Brigitte Bardot, la discesa verso l'odio razziale.
Forse, nelle sue lettere contro l’islamizzazione, BB odiò davvero. Chi lo sa. Di certo amò la Francia, che incarnò. Nel 1956, proprio mentre la Bardot riempiva i cinema mondiali, Édith Piaf scrisse Non, je ne regrette rien (no, non mi pento di nulla). Lo fece per i legionari che combattevano la guerra d’Algeria. Una guerra che oggi i socialisti definirebbero colonialista. Quelle parole di gioia possono essere il testamento spirituale di BB. Che visse, senza rimpiangere nulla. Vivendo in un eterno presente. Mangiando la vita a morsi. Sparendo dalla scena. Ora per sempre.
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«Gigolò per caso» (Amazon Prime Video)
Un infarto, però, lo aveva costretto ad una lunga degenza e, insieme, ad uno stop professionale. Stop che non avrebbe potuto permettersi, indebitato com'era con un orologiaio affatto mite. Così, pur sapendo che avrebbe incontrato la riprova del figlio, già inviperito con suo padre, Giacomo aveva deciso di chiedergli una mano. Una sostituzione, il favore di frequentare le sue clienti abituali, consentendogli con ciò un'adeguata ripresa. La prima stagione della serie televisiva era passata, perciò, dalla rabbia allo stupore, per trovare, infine, il divertimento e una strana armonia. La seconda, intitolata La sex gurue pronta a debuttare su Amazon Prime video venerdì 2 gennaio, dovrebbe fare altrettanto, risparmiandosi però la fase della rabbia. Alfonso, cioè, è ormai a suo agio nel ruolo di gigolò. Non solo. La strana alleanza professionale, arrivata in un momento topico della sua vita, quello della crisi con la moglie Margherita, gli ha consentito di recuperare il rapporto con il padre, che credeva irrimediabilmente compromesso. Si diverte, quasi, a frequentare le sue clienti sgallettate. Peccato solo l'arrivo di Rossana Astri, il volto di Sabrina Ferilli. La donna è una fra le più celebri guru del nuovo femminismo, determinata ad indottrinare le sue simili perché si convincano sia giusto fare a meno degli uomini. Ed è questa convinzione che muove anche Margherita, moglie in crisi di Alfonso. Margherita, interpretata da Ambra Angiolini, diventa un'adepta della Astri, una sua fedele scudiera. Quasi, si scopre ad odiarli, gli uomini, dando vita ad una sorta di guerra tra sessi. Divertita, però. E capace, pure di far emergere le abissali differenze tra il maschile e il femminile, i desideri degli uni e le aspettative, quasi mai soddisfatte, delle altre.
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La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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