Il circolo culturale di Bruxelles è salito in cattedra. Non trovando una strada percorribile e condivisa per mettere fine alla guerra in Ucraina, l’Unione europea ha deciso di buttarla sulla Storia, sulle infrastrutture culturali, sulla «resilienza democratica», «sui contenuti dai valori comuni». Armiamoci e studiate. Così ti viene il dubbio: stai a vedere che Fedor Dostoevskij torna ad essere praticabile nelle università italiane e il presidente Sergio Mattarella fra otto giorni va alla prima della Scala ad applaudire Dmitrij Sciostakovic. Niente di tutto questo, con la Russia non si condivide nulla. Lei rimane fuori, oltrecortina: è il nemico alle porte.
La conferma arriva dal pulpito traballante dell’Alto Commissario per gli Affari esteri, Kaja Kallas, che nell’intervento dell’altro ieri ha sollecitato i 27 Paesi membri ad aprire il portafoglio anche nel 2026 e 2027 perché «per aumentare le possibilità di pace, dobbiamo aumentare anche la pressione sulla Russia, che sta perdendo denaro e truppe. Anche l’idea che l’Ucraina stia perdendo è del tutto falsa. Se la Russia potesse conquistare l’Ucraina militarmente, lo avrebbe già fatto». Quindi bisogna continuare a finanziare Kiev, spiega Kallas. E in un passaggio del discorso che la fa somigliare più a una cantante lirica o a un mobile dell’Ikea, va fuori strada: «Negli ultimi 100 anni la Russia ha attaccato più di 19 Paesi, alcuni fino a tre o quattro volte. Nessuno di questi paesi ha mai attaccato la Russia».
Bontà sua, dimentica la Germania di Adolf Hitler, l’Italia nella tragedia delle centomila gavette di ghiaccio e il Giappone imperiale a Port Arthur (120 anni fa). Se è emotivamente comprensibile piegare la Storia di ieri per giustificare le strategie di oggi - la Russia comunista non si fece mai pregare nel far sentire il peso dei cingoli sulle schiene di popoli inermi -, lo è meno creare distopie orwelliane un tanto al chilo. Cosa che accade regolarmente anche quando si citano i famosi «80 anni di pace in Europa» lasciando al loro destino di sangue e di morte le guerre nei Balcani e i bombardamenti su Belgrado ordinati da Bill Clinton e dalla coalizione dei buoni.
La giornata europea della difesa della cultura comincia con lo svarione da terza liceo della Kallas e continua con un Consiglio Ue dedicato all’azione contro «le minacce militari e ibride all’identità culturale», qualunque cosa la frase voglia dire. La preoccupazione è duplice e lievemente lunare. Da una parte l’Europa paventa attentati di Mosca al patrimonio culturale (monumenti, statue, ponti romani, basiliche), dall’altra mette in guardia dalle infiltrazioni social degli ormai leggendari hacker russi che prenderebbero di mira intenzionalmente «l’identità culturale attraverso minacce ibride o disinformazione, che sono diventate elementi sempre più importanti delle strategie politiche e militari, sia in tempo di pace che durante i conflitti».
Per contrastare l’ipotetico fantasma tentacolare, Bruxelles chiede ai 27 di «integrare le infrastrutture culturali come monumenti, archivi, biblioteche, registri, musei, cinema, edifici, compresi quelli religiosi, attraverso sistemi di difesa, piani di evacuazione, la valutazione e la mappatura dei rischi e tenendo conto della vulnerabilità dei siti archeologici». Un impegno titanico e costosissimo destinato a rimanere sulla carte come le strategie satellitari dell’Esa.
Per proteggersi invece dagli effetti della cosiddetta disinformazione, la Ue sollecita i Paesi membri a «salvaguardare e preservare digitalmente il patrimonio culturale, al fine di aumentare la preparazione alle crisi e la resilienza democratica». Da qui la necessità di «continuare a promuovere la libertà artistica e la diversità culturale incoraggiando settori e iniziative che mettano in evidenza i valori comuni. Come la cinematografia, che riflette un passato condiviso, contribuendo in tal modo a difendere i valori europei». Siamo sempre lì, più Europa e meno Russia anche al cinema, che per noi significa purtroppo più Gabriele Muccino e meno Andrei Tarkovskij.
Al di là della «resilienza democratica» necessaria soprattutto a chi legge, l’allarme è singolare e sembra segnare il rientro nella Storia dell’Europa del benessere, dei desideri e della noia che ne era allegramente uscita 25 anni fa ritenendola finita. Lo è se si pensa che l’Unione Europea non ha mai mosso un dito per stigmatizzare la Cancel culture (targhe distrutte, statue gettate a mare, monumenti sfregiati da fanatici militanti progressisti) e neppure per proteggere le opere d’arte brutalizzate dai terroristi del clima. Quelli per Ursula von der Leyen erano attentati benvenuti. Quanto all’identità culturale da valorizzare, è interessante sentirne parlare a proposito delle infiltrazioni della «disinformazione russa». Ma negli ultimi 20 anni nessuno mai a Bruxelles ha utilizzato la formula per difendere l’Europa dalle infiltrazioni islamiste, dal radicarsi di comunità estranee alla cultura occidentale. In attesa di far abbeverare i cavalli nella fontana di Trevi, Vladimir Putin, anche da nemico, fa miracoli.
Precari di serie A e precari di serie B. I primi sono pochi e stellati (come gli hotel), gli altri sono tanti e peripatetici (come le roulotte); in Rai riescono anche a inventarsi la formula mista per accontentare il giornalismo militante con sahariana di alcune redazioni. La questione è talmente bollente da caratterizzare il dibattito interno e attirare l’attenzione di leader politici come Elly Schlein e Giuseppe Conte in difetto di piazze estive da esplorare. La faccenda è elementare e parte da una necessità oggettiva: ci sono 127 precari da stabilizzare.
Molti entrarono come collaboratori durante il dominio piddino dell’era Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e dopo un decennio da precari hanno l’opportunità di essere messi definitivamente in regola come giornalisti, guarda caso all’epoca di Giorgia Meloni. Poiché la Rai è un’azienda pubblica che fa «servizio pubblico» (come ci ricordano a pranzo e a cena le vestali sindacali dell’ortodossia), servono un obiettivo e un concorso. L’obiettivo è riempire i buchi d’organico nelle 24 sedi regionali che fanno capo alla Tgr, fiore all’occhiello dell’azienda e in grande carenza di personale, voce dai territori, espressione del valore delle differenze che rendono l’Italia un Paese affascinante e attrattivo. E il concorso è un concorso: chi lo vince va dove viene destinato. Come accade a insegnanti e magistrati. A Torino come a Palermo, a Bari come a Genova.
Qui sta il fastidio, anzi il disgusto, anzi l’orrore dei paladini del giornalismo d’inchiesta di Rai 3 capitanati da mister Report Sigfrido Ranucci: loro, i precari, li vogliono stabilizzare nei comitati centrali dove già stanno. Hai visto mai che debbano essere trattati come tutti gli altri e rischiare Campobasso? Hai visto mai che nel Soviet arrivi un collega non allineato, quindi da rieducare? Al centro della polemica ci sono sette «contrattualizzati» che lavorano a Report, Presa diretta, Indovina chi viene a cena, Elisir, Mi manda Rai 3. Scene dal pianeta rosso.
Nel concorso costruito dall’azienda (decisivo l’ad Giampaolo Rossi) in collaborazione con Usigrai e Unirai, si sottolinea che i primi sette (guarda un po’) avranno la possibilità di scegliersi la sede «se appartenenti ai generi Approfondimenti e Day time». Ma a Rai 3 non basta. Senza la certezza che siano quelli giusti, la protesta continua. Con Conte e Schlein a supportarla, forse inconsapevoli di fare il tifo non solo per il precariato singolo, ma per il precariato doppio (serie A e serie B).
C’è un altro simpatico dettaglio. Mentre protesta dicendo «è un accordo mai visto in 30 anni di Rai», Ranucci difetta di memoria: il concorso contestato è stato organizzato nei particolari su quello storico del 2013, orchestrato dall’Usigrai allora guidata da Vittorio Di Trapani, poi replicato (anche per gli esterni) nel 2015 e nel 2021. Allora Di Trapani stappò una bottiglia per brindare a quel concorso. Oggi, da presidente della Fnsi, chiede ai direttori con aria indignata come possano avallare l’accordo firmato. Direbbe Giorgio Gaber: «E questa è coerenza». A margine della faccenda si è innescata una polemica fastidiosa. Nel tentativo di bloccare il passaggio degli stabilizzandi alla Tgr - neanche fosse un consigliere d’amministrazione -, Ranucci si è esibito in una piazzata da narcisista: «Chi va lì non riesce a fare inchieste, bloccato dal politico di turno, dall’imprenditore di turno o dal criminale di turno».
La risposta del direttore della Tgr, Roberto Pacchetti, è stata puntuale: «Parole gravissime, pesanti macigni scagliati ad altezza d’uomo contro centinaia di colleghe e colleghi». Poi un elenco di inchieste fiore all’occhiello delle redazioni regionali, dove eccellenti cronisti lavorano duro senza «pon pon» e senza sbandierare Pulitzer di legno. La Tgr ha bisogno di quei rinforzi anche per un’inezia che a un’azienda seria non può sfuggire: ogni giorno, più volte al giorno, fa un’audience del 50% in più rispetto a sua maestà (di cartone) Report.
«È un film pazzo, ambizioso e apocalittico». A Paolo Virzì piacciono così tanto i tre aggettivi che li usa per quasi tutti i suoi lavori, da Ovosodo a Siccità. Invece l’ultima opera, quella andata in scena una sera d’estate in un ristorante romano, è trash e triste, trash e isterica, forse solo trash. Già lo si intuiva dai pesci in faccia scambiati fra il regista e l’ex moglie Micaela Ramazzotti, con il contorno di querele incrociate per violenza privata e lesioni. Ma lo si scopre ancora meglio dalla chiusura del caso con la richiesta di archiviazione da parte della Procura dopo il ritiro delle reciproche denunce. È pure singolare (e a sua volta trash) che i dettagli più sanguinolenti diventino pubblici nel giorno in cui protagonisti così deliziosamente radical vorrebbero seppellirli sotto la sabbia di Capalbio.
«Mignotta», «Criminale», occhiali che volano in strada, telefonini strappati dalle mani e gettati in terra, schiaffi e sputi vaganti, fughe in bagno, pugni sulla porta. «Hai paura vero?». C’è molto Quentin Tarantino la sera del 20 giugno nel dehors del ristorante «L’insalata ricca», secondo la ricostruzione delle carte giudiziarie (fonte Il Messaggero). L’imbarazzante piazzata con rissa fra Virzì con la figlia Ottavia (35 anni) e l’ex moglie Micaela Ramazzotti con il compagno Claudio Pallitto (attore e personal trainer con certi bicipiti), si consuma in tre scene da autentico B movie.
La prima quando padre e figlia sfilano accanto al tavolo degli altri due. Nonostante i testimoni e le telecamere del locale, nella ricostruzione della Procura le versioni divergono. Secondo l’attrice, Ottavia Virzì l’avrebbe filmata con lo smartphone provocandola mentre il padre la insultava con epiteti come «Brutta m….», «Mignotta». Da qui la deflagrazione atomica ramazzottiana, anche perché l’altra donna continuava a riprendere. Micaela avrebbe tolto di mano il cellulare a Ottavia, che l’avrebbe graffiata sul braccio destro mentre Virzì le stringeva il polso sinistro e le sputava addosso in un frame degno di Anche gli angeli mangiano fagioli. Secondo il regista invece è stato Pallitto a minacciare padre e figlia, intimando loro di lasciare il locale. Poi l’ex moglie gli avrebbe strappato gli occhiali dal volto per gettarli in strada.
Per la seconda scena il set si trasferisce nei bagni del ristorante, dove Ottavia si rifugia rinchiudendosi a chiave, in fuga dalla furia di lady Ramazzotti. Quando la raggiunge, ecco i pugni sulla porta e gli schiamazzi: «Ti ammazzo, hai paura vero?». Nei video si sente anche Virzì gridare a Pallitto: «Io ho paura dei criminali». E l’altro di rimando: «Fai bene, anzi che non ti meno». Una testimone sottoscrive d’aver visto «una donna con il vestito a fiori (Ramazzotti, ndr) colpire l’altra alla testa e al volto mentre un uomo sui 50 anni (il regista, ndr) cercava di separarle». Per completezza d’informazione, al fascicolo giudiziario è allegata una foto che mostra una ferita sulla mano di Ottavia Virzì, i graffi sulla sua testa e la maglietta strappata della ragazza. Wargame.
Al termine dello scempio di quel politicamente corretto che alberga in ogni ripresa dei film di Virzì, arriva la terza scena. È quella delle denunce incrociate e della richiesta, da parte dell’autore de La pazza gioia, dell’attivazione del codice rosso nei confronti di Ramazzotti e Pallitto, una procedura d’urgenza per reati come maltrattamenti, stalking, violenza sessuale, revenge porn. In cambio riceve, impacchettata, una denuncia per violenza e lesioni. Alla ricerca di un compromesso, il regista è il primo a ritirare la querela con una frase al miele: «Ramazzotti è stata una donna per me importantissima». La replica, con accusa incorporata di ipocrisia, è sontuosa: «Tiene più alla sua immagine pubblica che alla sua famiglia».
L’alterco lascia macerie davanti a casa Virzì. Con questo meraviglioso spaccato fra lo splatter e il coatto, crolla il castello moralista di uno dei pilastri del progressismo cinematografaro. Quello della rissa con schiaffi e insulti è lo stesso maestro di comportamento che non manca in ogni opera di moraleggiare su una generazione di ignoranti capaci solo di abbrutirsi nel lavoro. Senza passato, senza sogni e senza futuro. Il contrappasso è da Halloween: l’intellettuale rosso che si definì «un anarchico di Livorno che si commuove vedendo Mario Draghi» ha rischiato di vedere le stelle a sberle. Il filosofo situazionista che nella comfort zone di Propaganda Live battezzò Giorgia Meloni «una fascetta della Garbatella che non ha le idee giuste né il tono per governare questo Paese, pericolosa per tanti motivi», ora ne trovi mezzo per giustificare una simile, volgare esibizione.
Sempre pronto a passare al dibbbattito per educare i pupi, parlando di un suo film l’immaginifico Virzì ha spiegato: «Sono momenti difficili per il nostro Paese. Volevo raccontare quello che stava succedendo tra chi diceva che ci saremmo abituati a tutto e chi diceva che sarebbe stato sempre peggio. Colpisce che i politici parlino solo di loro stessi, delle loro alleanze, dei punti percentuale: perché non fanno finalmente due passi indietro invece di parlare di bonus scaldabagno mentre il mondo si estingue e sprofonda?». Lui che gli scaldabagno li tirerebbe volentieri in testa al prossimo, non ha mai avuto dubbi nel camminare dalla parte giusta del marciapiede. Poi ecco una sera di giugno con sberle, sputi, minacce e codici rossi davanti a commensali esterrefatti. Se questo è il capitale umano...





