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2020-06-16
Speranza esalta un vaccino zeppo di dubbi
Roberto Speranza (Ansa)
È già tutto apparecchiato per il vaccino contro il Covid-19. Peccato che al banchetto più importante e succulento - in termini di potenziali guadagni - del nuovo millennio manchi proprio l'ospite principale, per l'appunto il vaccino. Memorabile lo scambio andato in scena sabato sui social tra il premier Giuseppe Conte e la controversa cantante Myley Cyrus, artista nota più per le sue performance ai confini della pornografia che per i testi dei suoi brani. «Insieme ce la possiamo fare», ha twittato Giuseppi. Poche ore prima, era stato il ministro della Salute, Roberto Speranza, a dare il lieto annuncio. «Insieme ai ministri della Salute di Germania, Francia e Olanda, dopo aver lanciato nei giorni scorsi l'alleanza per il vaccino», così Speranza su Facebook, «ho sottoscritto un contratto con Astrazeneca per l'approvvigionamento fino a 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea». Ma come spesso accade, non è tutto oro quello che luccica.
Primo problema. Al netto di tutti questi discorsi, il vaccino promesso da Astrazeneca rappresenta ancora un miraggio. Condotta in collaborazione con l'Università di Oxford, la ricerca si trova ancora nella fase sperimentale. Lo scorso aprile sono partiti i trial clinici su 1.110 volontari tra i 18 e 55 anni, mentre la «fase 2» annunciata appena venti giorni fa dovrebbe coinvolgere 10.260 tra adulti e, novità, anche bambini tra i 5 e 12 anni. È notizia del 4 giugno, infine, che l'agenzia di regolamentazione sanitaria brasiliana ha dato il via libera per testare il farmaco su 2.000 volontari. Tecnicamente, dunque, il vaccino ancora non esiste. Eppure, sull'onda dell'entusiasmo, i Paesi si stanno affrettando a farne scorta.
Nonostante la strada da fare sia ancora molto lunga, Astrazeneca ha annunciato di avere già avviato la catena produttiva per realizzare 2 miliardi di dosi entro la fine dell'anno. «Dobbiamo averlo pronto per utilizzarlo in tempo una volta che abbiamo i risultati», ha affermato l'ad Pascal Soriot, «il nostro programma attuale è di avere i dati entro la fine dell'estate, entro agosto, così a settembre dovremmo sapere se abbiamo un vaccino efficace o meno». Un ragionamento che, almeno sul piano commerciale, non fa una piega.
Secondo problema. Come ammesso dallo stesso numero uno di Astrazeneca, esiste il rischio concreto che a fine anno l'azienda si ritrovi con i magazzini pieni di un vaccino che non funziona. E per l'Italia di aver puntato sul cavallo sbagliato. Per il momento, rimane la macchia sui risultati della «fase 1». Come rileva William A. Haseltine, ex professore alla Harvard medical school, i macachi vaccinati e poi infettati con il coronavirus hanno effettivamente contratto solo un raffreddore (anziché la polmonite tipicamente causata dal Covid), ma l'alta carica virale ha fatto sì che rimanessero infetti. C'è poi il pericolo che si verifichi il cosiddetto Ade (Antibody-dependent enhancement), un fenomeno a seguito del quale gli anticorpi prodotti dal vaccino non solo non proteggono dall'infezione, ma addirittura facilitano l'ingresso del virus all'interno delle cellule. Accorciare troppo i tempi della sperimentazione, in altre parole, rappresenta un rischio. Certo, ci sono anche altri candidati, ma è su quello di Oxford che il nostro governo sembra aver riposto le maggiori speranze. E infatti Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute, si è portato già avanti. «Verrà dato al personale sanitario, alle categorie a rischio, per età o patologie, e a militari e forze dell'ordine. Poi piano piano toccherà anche agli altri», ha spiegato nell'intervista pubblicata domenica su Repubblica, «andranno organizzati servizi sanitari, centri vaccinali e medici di famiglia, per coprire più rapidamente possibile la popolazione». Ricapitolando: ancora non esiste un vaccino, non abbiamo nessuna garanzia circa la sua efficacia, ma da Lungotevere Ripa già pianificano di vaccinarci in massa.
Terzo problema. Anche se le cose dovessero mettersi per il verso giusto, non è affatto detto che il vaccino arrivi per tempo. La consegna delle dosi prenotate, infatti, dovrebbe verificarsi tra fine di quest'anno e i primi mesi del 2021. Rimarrebbe fuori, dunque, la minacciata e temutissima seconda ondata prevista per quest'autunno. Sulla quale nemmeno gli esperti mettono ormai la mano sul fuoco. «Non credo arrivi», si è lasciato sfuggire Walter Ricciardi sempre su Repubblica, «magari avremo tante piccole ondine». Sulla stessa linea il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri, intervenuto ieri su Radio1: «Una seconda ondata sembra non esserci». E sul vaccino «è prematuro pensare di poterlo già avere a settembre, ma potrebbe arrivare per fine anno o inizio 2021».
Zangrillo: «Decessi sovrastimati, le cause di morte sono anche altre»
I decessi per Covid-19 «ora sono sovrastimati», secondo Alberto Zangrillo, direttore della terapia intensiva dell'ospedale San Raffaele di Milano. Domenica sera, dal pulpito di La7, a Non è l'Arena, il professore ha sollevato la questione delle persone che nelle ultime settimane muoiono con il Covid e che, come tali, vengono contate, mentre i motivi del decesso sono altri. A sostegno della sua dichiarazione, il primario del San Raffaele, ha portato l'esempio di quanto può accadere in un ospedale in questi giorni. «Quando entra una persona colpita da infarto del miocardio», ha spiegato Zangrillo, «viene effettuato un tampone per determinare se sia positivo o meno al Covid, ma nel frattempo la situazione clinica precipita, per cui entra in emodinamica, entra in sala operatoria di cardiochirurgia, ma dopo due giorni muore». Se questa persona nel frattempo è risultata positiva la tampone, la sua morte viene comunicata alla Protezione civile che la inserisce nelle morti causate dall'infezione. Invece, secondo il professore «è morta con il Covid, ma è morta di tutt'altro». Secondo Zangrillo, «probabilmente c'è stata una prima fase in cui i decessi erano sottostimati», mentre adesso «forse, sono sovrastimati». Anche sulla seconda ondata epidemica attesa in autunno, il clinico ha avuto parole rassicuranti, «primo perché bisogna vedere se arriva, secondo perché sappiamo curare i malati, terzo perché c'è una collaborazione in atto tra gli istituti ospedalieri, il territorio e le istituzioni regionali che sono in grado di fronteggiare il problema, quarto perché sappiamo molto di più su questo virus». Nel riportare la sua osservazione, il professore si è affrettato a dire di non voler «minimizzare», riconoscendo che «il virus esiste» ma ribadendo che «è a livello subclinico».
Zangrillo è tornato così su un concetto che, due settimane fa, ha sollevato un polverone di polemiche. Su Rai3, a Mezz'ora in più, il primario aveva dichiarato che il Covid-19 «dal punto di vista clinico non esiste più», sostenendo che i tamponi eseguiti nei dieci giorni precedenti avevano «una carica virale dal punto di vista quantitativo assolutamente infinitesimale» rispetto a quelli eseguiti a marzo. Nella bufera mediatica che è seguita, a stretto giro, è arrivata la replica del ministero della Salute che ha giudicato il messaggio «sbagliato, che rischia di confondere gli italiani».
Ha definito «pericolose» tali dichiarazioni Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità. In difesa di Zangrillo si è schierato il virologo Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta, confermando che i dati sulla più bassa carica virale sono «molto solidi e in corso di pubblicazione». Sostegno è arrivato anche dell'infettivologo Matteo Bassetti, dell'ospedale San Martino di Genova che, in un post su Facebook, ha spiegato come «la malattia da Sars-Cov-2 è oggi molto diversa da quella vista a marzo» ribadendo quanto da lui osservato da mesi, cioè che «il virus ha perso forza». Non è campata in aria la tesi di Zangrillo nemmeno per Sergio Harari, pneumologo e professore di Clinica medica all'Università di Milano. Più cauto sull'aspetto clinico è Andrea Crisanti, direttore di Microbiologia e Virologia dell'Ospedale-Università di Padova che ricorda come «questo virus, per ragioni che ancora non conosciamo, si diffonde senza creare malattia finché raggiunge una massa critica di persone che si infettano e a quel punto esplode con tutta la sua violenza».
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Riduci
La cura studiata da Astrazeneca e Oxford è ancora solo un miraggio, potrebbe non funzionare o addirittura rafforzare il virus. E se tutto va bene le prime dosi dovrebbero arrivare all'inizio del 2021, cioè dopo la «seconda ondata» che forse nemmeno ci sarà.Alberto Zangrillo: «Se chi muore d'infarto risulta positivo, viene contato come vittima da Covid».Lo speciale contiene due articoli.È già tutto apparecchiato per il vaccino contro il Covid-19. Peccato che al banchetto più importante e succulento - in termini di potenziali guadagni - del nuovo millennio manchi proprio l'ospite principale, per l'appunto il vaccino. Memorabile lo scambio andato in scena sabato sui social tra il premier Giuseppe Conte e la controversa cantante Myley Cyrus, artista nota più per le sue performance ai confini della pornografia che per i testi dei suoi brani. «Insieme ce la possiamo fare», ha twittato Giuseppi. Poche ore prima, era stato il ministro della Salute, Roberto Speranza, a dare il lieto annuncio. «Insieme ai ministri della Salute di Germania, Francia e Olanda, dopo aver lanciato nei giorni scorsi l'alleanza per il vaccino», così Speranza su Facebook, «ho sottoscritto un contratto con Astrazeneca per l'approvvigionamento fino a 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea». Ma come spesso accade, non è tutto oro quello che luccica.Primo problema. Al netto di tutti questi discorsi, il vaccino promesso da Astrazeneca rappresenta ancora un miraggio. Condotta in collaborazione con l'Università di Oxford, la ricerca si trova ancora nella fase sperimentale. Lo scorso aprile sono partiti i trial clinici su 1.110 volontari tra i 18 e 55 anni, mentre la «fase 2» annunciata appena venti giorni fa dovrebbe coinvolgere 10.260 tra adulti e, novità, anche bambini tra i 5 e 12 anni. È notizia del 4 giugno, infine, che l'agenzia di regolamentazione sanitaria brasiliana ha dato il via libera per testare il farmaco su 2.000 volontari. Tecnicamente, dunque, il vaccino ancora non esiste. Eppure, sull'onda dell'entusiasmo, i Paesi si stanno affrettando a farne scorta. Nonostante la strada da fare sia ancora molto lunga, Astrazeneca ha annunciato di avere già avviato la catena produttiva per realizzare 2 miliardi di dosi entro la fine dell'anno. «Dobbiamo averlo pronto per utilizzarlo in tempo una volta che abbiamo i risultati», ha affermato l'ad Pascal Soriot, «il nostro programma attuale è di avere i dati entro la fine dell'estate, entro agosto, così a settembre dovremmo sapere se abbiamo un vaccino efficace o meno». Un ragionamento che, almeno sul piano commerciale, non fa una piega.Secondo problema. Come ammesso dallo stesso numero uno di Astrazeneca, esiste il rischio concreto che a fine anno l'azienda si ritrovi con i magazzini pieni di un vaccino che non funziona. E per l'Italia di aver puntato sul cavallo sbagliato. Per il momento, rimane la macchia sui risultati della «fase 1». Come rileva William A. Haseltine, ex professore alla Harvard medical school, i macachi vaccinati e poi infettati con il coronavirus hanno effettivamente contratto solo un raffreddore (anziché la polmonite tipicamente causata dal Covid), ma l'alta carica virale ha fatto sì che rimanessero infetti. C'è poi il pericolo che si verifichi il cosiddetto Ade (Antibody-dependent enhancement), un fenomeno a seguito del quale gli anticorpi prodotti dal vaccino non solo non proteggono dall'infezione, ma addirittura facilitano l'ingresso del virus all'interno delle cellule. Accorciare troppo i tempi della sperimentazione, in altre parole, rappresenta un rischio. Certo, ci sono anche altri candidati, ma è su quello di Oxford che il nostro governo sembra aver riposto le maggiori speranze. E infatti Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute, si è portato già avanti. «Verrà dato al personale sanitario, alle categorie a rischio, per età o patologie, e a militari e forze dell'ordine. Poi piano piano toccherà anche agli altri», ha spiegato nell'intervista pubblicata domenica su Repubblica, «andranno organizzati servizi sanitari, centri vaccinali e medici di famiglia, per coprire più rapidamente possibile la popolazione». Ricapitolando: ancora non esiste un vaccino, non abbiamo nessuna garanzia circa la sua efficacia, ma da Lungotevere Ripa già pianificano di vaccinarci in massa.Terzo problema. Anche se le cose dovessero mettersi per il verso giusto, non è affatto detto che il vaccino arrivi per tempo. La consegna delle dosi prenotate, infatti, dovrebbe verificarsi tra fine di quest'anno e i primi mesi del 2021. Rimarrebbe fuori, dunque, la minacciata e temutissima seconda ondata prevista per quest'autunno. Sulla quale nemmeno gli esperti mettono ormai la mano sul fuoco. «Non credo arrivi», si è lasciato sfuggire Walter Ricciardi sempre su Repubblica, «magari avremo tante piccole ondine». Sulla stessa linea il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri, intervenuto ieri su Radio1: «Una seconda ondata sembra non esserci». E sul vaccino «è prematuro pensare di poterlo già avere a settembre, ma potrebbe arrivare per fine anno o inizio 2021». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speranza-esalta-un-vaccino-zeppo-di-dubbi-2646174468.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="zangrillo-decessi-sovrastimati-le-cause-di-morte-sono-anche-altre" data-post-id="2646174468" data-published-at="1592249728" data-use-pagination="False"> Zangrillo: «Decessi sovrastimati, le cause di morte sono anche altre» I decessi per Covid-19 «ora sono sovrastimati», secondo Alberto Zangrillo, direttore della terapia intensiva dell'ospedale San Raffaele di Milano. Domenica sera, dal pulpito di La7, a Non è l'Arena, il professore ha sollevato la questione delle persone che nelle ultime settimane muoiono con il Covid e che, come tali, vengono contate, mentre i motivi del decesso sono altri. A sostegno della sua dichiarazione, il primario del San Raffaele, ha portato l'esempio di quanto può accadere in un ospedale in questi giorni. «Quando entra una persona colpita da infarto del miocardio», ha spiegato Zangrillo, «viene effettuato un tampone per determinare se sia positivo o meno al Covid, ma nel frattempo la situazione clinica precipita, per cui entra in emodinamica, entra in sala operatoria di cardiochirurgia, ma dopo due giorni muore». Se questa persona nel frattempo è risultata positiva la tampone, la sua morte viene comunicata alla Protezione civile che la inserisce nelle morti causate dall'infezione. Invece, secondo il professore «è morta con il Covid, ma è morta di tutt'altro». Secondo Zangrillo, «probabilmente c'è stata una prima fase in cui i decessi erano sottostimati», mentre adesso «forse, sono sovrastimati». Anche sulla seconda ondata epidemica attesa in autunno, il clinico ha avuto parole rassicuranti, «primo perché bisogna vedere se arriva, secondo perché sappiamo curare i malati, terzo perché c'è una collaborazione in atto tra gli istituti ospedalieri, il territorio e le istituzioni regionali che sono in grado di fronteggiare il problema, quarto perché sappiamo molto di più su questo virus». Nel riportare la sua osservazione, il professore si è affrettato a dire di non voler «minimizzare», riconoscendo che «il virus esiste» ma ribadendo che «è a livello subclinico». Zangrillo è tornato così su un concetto che, due settimane fa, ha sollevato un polverone di polemiche. Su Rai3, a Mezz'ora in più, il primario aveva dichiarato che il Covid-19 «dal punto di vista clinico non esiste più», sostenendo che i tamponi eseguiti nei dieci giorni precedenti avevano «una carica virale dal punto di vista quantitativo assolutamente infinitesimale» rispetto a quelli eseguiti a marzo. Nella bufera mediatica che è seguita, a stretto giro, è arrivata la replica del ministero della Salute che ha giudicato il messaggio «sbagliato, che rischia di confondere gli italiani». Ha definito «pericolose» tali dichiarazioni Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità. In difesa di Zangrillo si è schierato il virologo Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta, confermando che i dati sulla più bassa carica virale sono «molto solidi e in corso di pubblicazione». Sostegno è arrivato anche dell'infettivologo Matteo Bassetti, dell'ospedale San Martino di Genova che, in un post su Facebook, ha spiegato come «la malattia da Sars-Cov-2 è oggi molto diversa da quella vista a marzo» ribadendo quanto da lui osservato da mesi, cioè che «il virus ha perso forza». Non è campata in aria la tesi di Zangrillo nemmeno per Sergio Harari, pneumologo e professore di Clinica medica all'Università di Milano. Più cauto sull'aspetto clinico è Andrea Crisanti, direttore di Microbiologia e Virologia dell'Ospedale-Università di Padova che ricorda come «questo virus, per ragioni che ancora non conosciamo, si diffonde senza creare malattia finché raggiunge una massa critica di persone che si infettano e a quel punto esplode con tutta la sua violenza».
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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