La tratta dei bambini «è un problema globale e vogliamo che ogni Paese del mondo sia a conoscenza di questa terribile realtà. Per questo il film Sound of freedom», in Italia Il canto della libertà, «è così importante per il nostro movimento internazionale che sta cercando di eradicare il traffico di bambini nel mondo. Sono grato a Giorgia Meloni, prima donna a capo del governo italiano e attualmente presidente del G7, per aver firmato un accordo di impegno a combattere la tratta dei minori. La ringrazio molto per la disponibilità». Così, Eduardo Verástegui, attore e produttore, insieme a Mel Gibson, del film diretto da Alejandro Monteverde, in esclusiva alla Verità commenta l’importante risultato politico istituzionale, raggiunto in questi giorni, frutto di una pellicola che è un caso cinematografico. Interpretato da Jim Caviezel (Gesù in The passion di Mel Gibson) distribuito dalla media company Angel Studios, il film, costato meno di 15 milioni di euro, ne ha incassati 259 in America, battendo, la scorsa estate, blockbuster come Indiana Jones e Mission impossible. Arrivato in Italia a febbraio, grazie alla distribuzione strategica della Dominus production di Federica Picchi Roncali, Il canto della libertà è stato un successo fin dall’esordio: subito al secondo posto al botteghino, è stato il film più visto nelle sale, soprattutto dai giovani. Il segreto di questo successo? «Hollywood non credeva in questo film, ma le persone sì e l’hanno postato e condiviso in milioni di video sui social, YouTube e su Instagram», spiega il produttore messicano. «Abbiamo lavorato con un marketing dal basso, puntando sul valore della pellicola. Dopo il rifiuto di Hollywood, per quattro anni abbiamo mostrato il film a un sacco di celebrità, politici e ambasciatori. Ma non è stata una perdita di tempo perché tutte quelle persone sono tornate a vedere il film nelle sale e hanno passato parola, anche sui social. Si è creato un movimento che si è ampliato in autonomia. Questo modello di marketing è stato disegnato dall’alto: noi non potevamo immaginarlo, abbiamo semplicemente seguito il percorso», sottolinea il produttore noto anche per il suo forte impegno prolife. «Ho investito otto anni della mia vita e di lavoro per le due ore del film, ma ne è valsa la pena perché serve a far conoscere il fenomeno», afferma Verástegui. «Questo però non basta. Deve cambiare qualcosa. Il film è un primo passo a cui ne devono seguire altri a livello politico e legislativo per tutelare i più piccoli, proteggerli dallo sfruttamento sessuale. Per questo ho iniziato, da ogni singolo stato messicano, ad associare, a ogni uscita del film, una campagna contro il traffico dei minori firmando con ogni governatore un accordo di impegno per porre fine alla tratta. Poi siamo passati negli altri paesi del Sud America: Salvador, Argentina, Guatemala, Costa Rica e così via». Quindi, l’Europa. «Ho scritto al capo del governo italiano, Giorgia Meloni, che mi ha accolto. La lotta alla tratta deve diventare una priorità in ogni stato del mondo. L’Italia è il primo paese in Europa, poi seguiranno gli altri. I figli di Dio non sono in vendita», sottolinea il produttore messicano, citando la frase (biblica) al centro della pellicola. Sound of freedom è la storia vera di Tim Ballard, ex agente che, dopo aver arrestato 288 pedofili sul suolo americano, decide di cercare un bambino, anzi una coppia di fratelli. Ballard, nella vita reale, sostiene di aver salvato 123 persone, di cui 55 bambini, durante una sola missione. Ogni anno nel mondo scompaiono dai 7 ai 10 milioni di bambini, decine di migliaia ogni giorno: un business che vale più di 150 miliardi di dollari l’anno. Anche in Italia il fenomeno è drammatico. Secondo il ministero dell’Interno, nel 2022 i minori scomparsi sono stati in totale 17.130 di cui 13.002 stranieri e 4.128 italiani. Di questi ultimi circa il 26% - ovvero 1.073 - non sono stati più ritrovati.
Proprio in linea con uno dei messaggi più forti della pellicola - Adesso lo sai, non è solo un film. Non puoi voltare la faccia da un’altra parte - il prossimo 25 maggio, Giornata internazionale dei bambini scomparsi, la Dominus production ha organizzato proiezioni di Sound of freedom nelle migliori sale cinema italiane. Intanto Verástegui continua la promozione dell’ultima sua produzione, Cabrini, la storia della santa Francesca Cabrini, patrona degli emigranti, interpretata dall’italiana Cristiana Dell’Anna. Il film, uscito l’8 marzo Oltreoceano, è ai primi posti del box office. «La testimonianza parla. I film possono far riflettere e trasmettere valori», ribadisce il produttore. «Con Cabrini, la proposta di valori è diversa da quella di Barbie, ma il mondo ha bisogno di sacro. Non è una scelta facile. Del resto, da quando ho promesso a Dio e ai miei genitori di non usare più il mio talento per fare qualcosa che possa offendere la mia fede, la mia famiglia o il mio essere latinoamericano, ho finito per non lavorare per quattro anni: mi arrivavano solo proposte opposte a quello che avevo promesso. Poi ho aperto una società di produzione e ho imparato a fidarmi di Dio. Dopo quattro anni impegnativi, è arrivato Bella, il primo film, quindi Little boy, poi Sound of freedom e ora Cabrini. È una sfida continua», riflette. Il prossimo passo potrebbe essere politico. «Il movimento nel 2025 diventerà un partito conservatore messicano», annuncia Verástegui pronto a scommettere su un altro successo, sotto altri riflettori, ma con lo stesso impegno.
L’accesso alle cure palliative «è una condizione necessaria, doverosa e obbligatoria che deve essere posta prima di ogni altra questione. Si parla molto di morte medicalmente assistita di questi tempi, con la proposta di legge di iniziativa popolare (dell’Associazione Coscioni, ndr) in regioni come il Veneto e l’Emilia Romagna. Stiamo su piani diversi. Dobbiamo fare in modo che non ci sia nessuno che scelga di morire perché mancano le cure palliative. Questa sarebbe una sconfitta». È razionale e profondamente umano, Gino Gobber, medico e presidente della Sicp, la Società italiana cure palliative. Cita la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). «Le cure palliative costituiscono una serie di interventi terapeutici e assistenziali finalizzati alla cura attiva e totale di malati la cui malattia di base non risponde più ai trattamenti specifici. L’obiettivo è la migliore qualità di vita possibile per malati e famiglie, per la vita che rimane da vivere. Sono un obbligo di legge».
Intende che è un diritto?
«La normativa italiana è chiarissima. Le Regioni e le Aziende sanitarie (Asl) devono erogare le cure palliative secondo la Legge 38/2010 e, secondo la 106/2021, si devono dotare di tali cure entro il 2025. La legge di bilancio 2022 ci dà un po’ di più tempo, fino al 2028 per arrivare alla copertura del 90%. Quando tutto questo sarà attuato, avremo comunque persone che potranno chiedere il suicidio assistito o l’eutanasia, ma questa è una questione etica, morale, religiosa. Siamo su piani diversi: le palliative rientrano nel diritto alla salute, sono un obbligo di legge e sono un diritto degli esseri umani».
Le palliative non sono quindi solo per i pazienti con cancro terminale?
«Sono indicate quando la malattia non è più guaribile e in progressione, ma resta curabile per tutto il tempo che serve. Il mondo scientifico ha visto che anticipando le palliative, si hanno risultati importanti. La società di medicina generale, per esempio, sta introducendo strumenti per individuare in anticipo le persone che ne avranno bisogno. Il palliativista non dovrebbe lavorare solo con l’oncologo, ma anche con il cardiologo, il nefrologo il neurologo. Nel caso della sclerosi laterale amiotrofica, malattia neurodegenerativa, il palliativista sarebbe indicato fin dalla diagnosi. La presa in carico congiunta, quando una condizione è evidente che non può puntare alla guarigione o alla cronicizzazione, è un diritto di tutte le persone. L’unico fattore discriminante è la volontà del paziente».
La sedazione profonda è parte di queste cure o è una forma di eutanasia?
«È un provvedimento terapeutico reversibile non particolarmente drammatico. La sedazione profonda con farmaci si effettua in presenza di un sintomo refrattario, cioè estremamente doloroso, non sopportabile dal paziente, e che non si può curare senza compromettere la sua coscienza per due motivi: non ci sono armi terapeutiche oppure ci vuole troppo tempo perché i farmaci siano efficaci per vincere il sintomo. Rispetto a eutanasia e morte assistita, con la sedazione profonda l’obiettivo è togliere il sintomo, non dare la morte. Il paziente può morire, ma non si vuole provocarne la morte, l’obiettivo non è il decesso, ma il controllo del sintomo. È infatti reversibile: una volta smaltito il farmaco, il paziente si sveglia e può stare meglio. È una pratica ammessa anche dalla Pontificia accademia per la vita. È un atto sanitario. È un atto compassionevole, appropriato, proporzionato e deliberato da un professionista preparato, una volta ottenuto il consenso».
Ma potrebbe anticipare la morte?
«La sedazione profonda e, in generale, le cure palliative, non sono fatte né per anticipare né per posticipare la morte. Molto spesso immagino che il paziente, in comfort, potrebbe restare sulla terra più a lungo, magari non è vero, ma il nostro fine è controllare il sintomo. Siamo in linea con il codice deontologico, penale, civile, con le buone pratiche cliniche e con il diritto di essere curati: è nei Lea, i livelli essenziali di assistenza. Come ha chiarito Papa Pio XII, non proprio un progressista, se l’obiettivo è togliere il dolore, che questo anticipi o ritardi la morte è un’altra cosa».
Per l’accesso a queste cure ci vorrebbero le reti. A che punto siamo?
«Nel Dm77 del Pnrr, che ha l’ambizione di riorganizzare l’assistenza territoriale, il paragrafo sulle cure palliative è vicino a quello dell’assistenza domiciliare. Se vogliamo che la sanità territoriale funzioni, il modello è quello delle palliative perché lavorano in rete, in equipe organizzate sulla presa in carico complessiva, non sulla singola prestazione, poi ci sono le diverse competenze e il terzo settore. È il modello per la presa in carico delle persone complesse che hanno bisogno di cure fuori dell’ospedale. Come Sicp abbiamo fatto una fotografia della situazione e costruito uno standard di personale. Abbiamo visto che ci sono Regioni e Asl che hanno realizzato le reti territoriali indipendentemente dal fatto che siano ricche o povere, al Nord o al Sud. Ciò significa che si può fare ovunque».
E con gli Hospice?
«Siamo messi bene, ma è un modello basato sull’oncologia. Bisogna cambiare standard. Il Dm 77 infatti prevede 8-10 posti letto ogni 100.000 abitanti. Quatto Regioni lo hanno già fatto, altre si stanno adeguando. Il vero buco però è l’assistenza domiciliare: siamo molto lontani. È una questione di organizzazione e di carenza di risorse umane. Adesso abbiamo la possibilità delle risorse dal Pnrr: è un’occasione straordinaria. Adesso o mai più».
Difficile il disgelo sull’inverno demografico anche sul versante della procreazione medicalmente assistita (Pma). Segnali poco rasserenanti arrivano dalla recente relazione - non impeccabile per la carenza di vari dati - del ministero della Salute sull’applicazione della legge 40/2004 che regola le procedure della Pma.
Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2021, segnalano la nascita di 11.722 bambini, ma la percentuale delle 64.473 coppie trattate (età media della donna 36,7 anni) che hanno avuto «un figlio in braccio» è del 16,9%. A fronte di questi risultati resta sempre elevato il numero di embrioni sacrificati (138.376) e crioconservati (61.769). A vent’anni dalla legge 40 sono quasi 900.000 le coppie trattate, 156.508 i bambini nati e quasi 2 milioni (1.870.451) gli embrioni sacrificati. Nei freezer sono attualmente conservarti quasi 170.000 embrioni che, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno un futuro già segnato.
In una sintesi diffusa da Aigoc (Associazione italiana ginecologi ostetrici cattolici), Angelo Francesco Filardo osserva una «ricerca affannosa del prelievo di un numero maggiore di ovociti, in particolare nelle donne con età più avanzata», con risvolti importanti anche per la salute. Il numero degli ovociti prelevati è in crescita, quasi 8 alla volta, ma circa il 25% viene scartato. Del 70% che viene inseminato, intorno al 30% non viene fecondato. Degli embrioni che si formano, il 50% è trasferibile ma alla fine, spiega Filardo, «solo il 38,69%, cioè 38.188, sono stati trasferiti nell’utero delle proprie madri», il resto, più del 60%, «è finito nei freezer».
La maggioranza dei trasferimenti omologhi, però, avviene con un solo embrione (50,7%), con due nel 44,1% dei casi e con tre o più embrioni nel 5,2%. «Il fatto che la stragrande maggioranza dei trasferimenti (94,8%) sia stata fatta con uno o due embrioni», sottolinea Aigoc, «conferma la bontà del limite dei tre embrioni da produrre, presente nella formulazione originale della legge 40/2004 (annullato dalla Corte costituzionale, ndr). Quello che andava modificato era solo l’obbligo di trasferire tutti gli embrioni prodotti anche in più trasferimenti, invece che in un unico trasferimento, che responsabilizzerebbe la coppia sul numero degli embrioni da produrre ed eviterebbe il crescente numero dei crioconservati».
La ricerca «affannosa» del prelievo di un numero maggiore di ovociti, in particolare nelle over 40, non è esente da rischi. Il primo è l’insuccesso - prevedibile - della stimolazione. Il report chiarisce che 4.480 donne (ovvero l’8,9%) sospende il trattamento ormonale prima del prelievo degli ovociti e in quasi il 6% dei casi il motivo è la mancata risposta.
«Ci sembra», osserva Filardo, «che ai nostri giorni tale causa sia facilmente diagnosticabile con una buona anamnesi prima di iniziare un trattamento inutile, costoso e potenzialmente dannoso; così come anche la risposta eccessiva legata agli alti dosaggi dei farmaci usati (204 casi, lo 0,4%), evitando rischi e delusioni alle coppie», oltre ai costi per il Servizio sanitario. A questi numeri si dovrebbero aggiungere i 1.387 cicli in cui non è stato prelevato alcun ovocita. Colpisce che su 4.480 cicli sospesi prima del prelievo ovocitario, l’11,9% sia avvenuto nelle donne di 40-42 anni e il 15,7% nelle over 43 per rischio Ohss (sindrome da iperstimolazione ovarica). Questa condizione può essere pericolosa per la salute della donna portando a tromboembolia polmonare, insufficienza renale, aritmie cardiache, emorragia da rottura dell’ovaio e danno multiorgano. L’Ohss è la causa del 12% delle interruzioni del trattamento anche dopo il prelievo ovocitario.
«Stupisce, ma non troppo», commenta Filardo, «che nel report siano riportati solo 260 casi (0,52%) di Ohss quando, nella stessa relazione, si cifra come causa di “sopravvenuto rischio di Ohss severa per la paziente” nell’11,4%. Resta, però, il fatto che il valore è in crescita del 10,5% rispetto al 2020». Questi dati «ci farebbero pensare alla necessità di usare in futuro molta più prudenza nelle stimolazioni ovariche», riflette l’esperto, «invece nella relazione ministeriale leggiamo che diventa significativo il prelievo anche di più di 15 ovociti».
Per quanto riguarda la Pma eterologa (gameti esterni alla coppia) non sono disponibili tutti i dati esaminati per la Pma omologa. Sappiamo che è cresciuta rispetto al 2020 e che ci sono stati 1.967 cicli con donazione di seme maschile (94,3% importato) e 10.584 cicli con donazione di ovociti (99,8% importati); 910 con doppia donazione (6,4%), di cui il 98,2% con gameti importati. Sono stati prodotti 45.293 embrioni, ne sono stati trasferiti in utero 14.421 e sono nati 2.063 bambini (21,5% embrioni trasferiti). Dei restanti 30.872 embrioni non abbiamo alcuna notizia.
Nonostante la carenza di dati, emerge un aumento dell’import-export di gameti, ma anche di embrioni (più di 5.000), che coinvolgono Spagna, Polonia e Grecia e alcune Regioni italiane (Lazio, Lombardia, Toscana ed Emilia-Romagna). Si chiama «egg sharing crociata»: una coppia offre i propri ovociti in cambio del liquido seminale e viceversa. Il figlio è come un qualsiasi prodotto.



