2024-06-25
Sondaggione svela il flop dell’elettrica: chi l’ha comprata adesso si è pentito
Report McKinsey: l’auto a batteria piace solo al 18% dei guidatori. Negli Usa il costo del green traina la rivolta anti Biden dei giovani.Nel Regno Unito la leader dei Verdi Carla Denyer, attivista «queer», ha ammesso di non aver installato le tanto lodate pompe di calore. «Però ho già vari preventivi».Lo speciale contiene due articoli.La società di consulenza McKinsey ha diffuso un rapporto sul gradimento dell’auto elettrica da parte dei consumatori e non mancano le sorprese. L’indagine, condotta con 200 domande a 30.000 utenti regolari di automobili in 15 Paesi (tra cui Usa, Cina, Italia, Giappone, Francia), contiene risultati clamorosi. Il primo dato che salta all’occhio è che il 29% di chi oggi ha un’auto elettrica vorrebbe tornare a un veicolo con motore a combustione interna tradizionale. Il secondo dato è che solo il 18% di chi non ha un’auto elettrica la vorrebbe, mentre un 20% gradirebbe una ibrida plug in (auto destinata a scomparire). Il 18% del febbraio di quest’anno si confronta con il 14% registrato nel precedente sondaggio nel dicembre 2021. Dunque, i passi avanti nel gradimento del pubblico in due anni sono stati davvero pochi. Il 21% di chi non ha un’auto elettrica non la vuole proprio, mentre il 41% di chi non ha oggi un’auto elettrica comprerà la prossima automobile scegliendola ancora tra quelle con motore a combustione interna tradizionale. Tra chi non vuole un veicolo a batteria, le motivazioni sono in massima parte il prezzo, i tempi di ricarica e l’autonomia di una carica.Il rapporto mostra anche un altro dato interessante, poiché traccia l’identikit dell’acquirente tipo di un veicolo a batteria. Gli acquirenti che considerano di comprare un’auto elettrica hanno un reddito disponibile più alto del 47% rispetto a chi è scettico. L’acquirente tipo di auto elettrica risiede in città (al 51% contro il 20% degli scettici, che per il 47% vivono in zone suburbane e per il 34% in aree rurali), ha un’età media più giovane (42 anni contro i 50,8 di chi non vuole un’auto elettrica), è più incline alla tecnologia e ha la possibilità di ricaricare l’auto a batteria a casa (per ben l’84 % dei casi, contro il 49% di chi non vuole l’auto elettrica). Dunque, siamo di fronte al prototipo del consumatore che tanto piace alla gente che piace: benestante, urbano, relativamente giovane, tecnologico e con la colonnina privata di ricarica. Quello che vediamo nelle pubblicità in tv sfrecciare silenzioso e soddisfatto tra grattacieli di vetro e acciaio green in inesistenti pulitissime città, insomma.Un’indagine, questa di McKinsey, che certo sarà utile alle case automobilistiche per migliorare il proprio marketing, ma al contempo in poche pagine dice sulla vicenda del Green deal molto più di un trattato di sociologia.È molto interessante osservare il dettaglio relativo a quel 29% (medio) di proprietari di auto elettrica che non vedono l’ora di tornare al vecchio motore a scoppio o diesel. A livello di Stati, in Australia questa percentuale è del 49%, negli Usa del 46%. Il 35% di chi vorrebbe tornare al motore a combustione interna lo fa per carenza di infrastrutture di ricarica, il 24% per i costi di mantenimento e di esercizio troppo alti. Le aspettative sull’autonomia andate deluse, l’ansia da ricarica e l’impossibilità di ricarica casalinga sono un ostacolo arduo da superare per i veicoli a batteria. Peraltro, in Germania il 28% di chi non vuole un’auto elettrica lo fa semplicemente perché ama guidare le auto con motore a benzina o diesel. E questo, ci sia consentito, appare il motivo migliore di tutti: le libere scelte personali.Che la metà di chi negli Usa oggi ha un’auto elettrica voglia tornare all’auto a benzina è un segnale che né l’industria né la politica possono ignorare. «Non me lo aspettavo», ha dichiarato a un periodico americano di settore Philipp Kampshoff, leader del Center for future mobility della società di consulenza. «Ho pensato: “Una volta acquirente di veicoli elettrici, resterò sempre un acquirente di veicoli elettrici”». Invece, a quanto pare, no.Oltre che le difficoltà tecniche, la questione del ritorno alla benzina riguarda anche lo sforzo economico: assicurare un’auto elettrica costa di più, il costo di una ricarica elettrica è salito a dismisura sino ad annullare il vantaggio rispetto al prezzo della benzina (stando a uno studio Anderson economic group del febbraio scorso), i costi di manutenzione sono più alti e allacciare alla rete elettrica la colonnina di ricarica domestica costa qualche migliaio di dollari. In più, il valore di un’auto elettrica scende rapidamente, sia per il degrado della batteria (la parte più costosa del veicolo) sia perché il mercato dell’usato mostra già un eccesso di offerta: in un anno un’auto elettrica perde almeno il 30% del suo valore iniziale. Un disastro.L’argomento auto elettrica è essenzialmente politico, e negli Stati Uniti Joe Biden rischia di subire il contraccolpo della spinta data dalla sua amministrazione verso la mobilità elettrica. Se si osserva il dato americano si trova infatti un altro interessante paradosso: il 57% dei giovani americani possessori di auto elettrica vorrebbe tornare all’auto a benzina. Giovani che prima sono stati incantati dalla novità e poi non riescono a sopportarne gli oneri, evidentemente. Gli stessi giovani che non possono permettersi di comprare una casa: i prezzi delle abitazioni negli Usa sono al record storico. Non è un caso se dai sondaggi emerge che il 60% degli under 35 non approva l’operato di Biden, che è più gradito tra gli anziani. Vedremo a novembre quanto i giovani delusi peseranno alle urne.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sondaggione-svela-flop-elettrica-2668597138.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-leader-dei-verdi-del-regno-unito-va-ancora-a-gas" data-post-id="2668597138" data-published-at="1719289254" data-use-pagination="False"> La leader dei Verdi del Regno Unito va ancora a gas «Con i Verdi al governo non ci sarebbero nuove licenze per il petrolio e il gas. Vogliamo introdurre una tassa sul carbonio per far pagare chi inquina e fornire soldi per investire nella transizione green. I Verdi hanno un piano affinché il Regno Unito raggiunga lo zero netto entro il 2040, al più tardi», ha dichiarato Carla Denyer dal 2021 co-leader dei Verdi assieme ad Adrian Ramsay, durante la marcia Restore Nature Now di sabato scorso a Londra. Peccato che l’attivista abbia appeno ammesso di avere ancora una caldaia a gas. In una delle interviste ai leader politici per le prossime elezioni realizzate dal canale televisivo britannico Itv News, la signora ha rivelato di essere in procinto di sostituirla con una pompa di calore. Progetto che, «come puoi immaginare, ho dovuto mettere in pausa durante la campagna elettorale», ha confidato al giornalista «ma la mia casella di posta elettronica è piena di preventivi». Già due anni fa la Denyer affermava che «le energie rinnovabili, l’isolamento, le pompe di calore» e altre misure di risparmio energetico sono necessarie come parte di un «piano energetico di emergenza». In tutto questo tempo, però, si è tenuta la caldaia a gas. Quando si parla di coerenza, pure gli ambientalisti più scatenati si mostrano in difetto. Il Partito dei Verdi si è impegnato a investire 9 miliardi di sterline nei prossimi cinque anni per l’installazione di pompe di calore e altri sistemi di riscaldamento in tutti gli edifici, e si attiverà perché nelle nuove case i costruttori includano «sistemi di riscaldamento a basse emissioni di carbonio, come le pompe di calore». Eppure, un rapporto del luglio 2022 del Comitato sui cambiamenti climatici ha rilevato che il costo di funzionamento di una pompa di calore (che ha bisogno dell’elettricità) è superiore del 10% rispetto a quello di una caldaia a gas media, pari a 100 sterline in più all’anno. «L’installazione della pompa di calore costa in genere tra 10.000 e 15.000 sterline, rispetto alle 2.000 e 4.000 sterline necessarie per la sostituzione di una caldaia a gas», fa sapere The Thelegraph. Aggiunge: «Lo scorso anno sono state installate meno di 40.000 pompe di calore certificate, una cifra ancora ben lontana dall’obiettivo di 60.000 all’anno che il governo inglese sperava di raggiungere entro il 2028». Il programma governativo di aggiornamento delle caldaie mira a sovvenzionare il costo dell’acquisto, per renderlo più accessibile alle famiglie, ma il Boiler upgrade scheme (Bus) in vigore ormai da due anni ha concesso solo 127 milioni di sterline del fondo di finanziamento di 300 milioni. Le domande di sovvenzioni rimangono molto basse, le pompe di calore sono state criticate perché oltre a essere costose non riescono a riscaldare adeguatamente le proprietà più grandi e più vecchie. La co- leader dei Verdi durante l’intervista ha detto che «tutti gli esperti, le Nazioni Unite e l’Agenzia internazionale per l’energia hanno chiarito che investire nella lotta al cambiamento climatico ora costerà molto meno che affrontarne le conseguenze in seguito». Arrivare allo zero netto è un «investimento nel nostro futuro» che, secondo la Denyer, costerebbe solo l’1% circa del Pil. La signora, intanto, tra le mura domestiche si scalda e fa la doccia grazie alla caldaia tradizionale che vorrebbe far sparire dalle case degli inglesi e del mondo intero. Nominata dalla Women’s engineering society come una delle 50 migliori donne nel campo dell’ingegneria del Regno Unito grazie al suo lavoro sulla mozione per l’emergenza climatica, l’attivista che si definisce «donna queer» occupa il primo posto nella Pink List di Bristol Live delle persone Lgbt+ più influenti a Bristol. Il 20 giugno, in un’intervista al magazine online PinkNews ha dichiarato: «Un’adeguata educazione relazionale e sessuale nelle scuole, compresa l’educazione inclusiva sulle questioni Lgbtq, è un must», un dovere.
(Guardia di Finanza)
I Comandi Provinciali della Guardia di finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Torino hanno sviluppato, con il coordinamento della Procura della Repubblica, una vasta e articolata operazione congiunta, chiamata «Chain smoking», nel settore del contrasto al contrabbando dei tabacchi lavorati e della contraffazione, della riduzione in schiavitù, della tratta di persone e dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Le sinergie operative hanno consentito al Nucleo di polizia economico-finanziaria Torino e alla Compagnia Carabinieri di Venaria Reale di individuare sul territorio della città di Torino ed hinterland 5 opifici nascosti, dediti alla produzione illegale di sigarette, e 2 depositi per lo stoccaggio del materiale illecito.
La grande capacità produttiva degli stabilimenti clandestini è dimostrata dai quantitativi di materiali di contrabbando rinvenuti e sottoposti a sequestro: nel complesso più di 230 tonnellate di tabacco lavorato di provenienza extra Ue e circa 22 tonnellate di sigarette, in gran parte già confezionate in pacchetti con i marchi contraffatti di noti brand del settore.
In particolare, i siti produttivi (completi di linee con costosi macchinari, apparati e strumenti tecnologici) e i depositi sequestrati sono stati localizzati nell’area settentrionale del territorio del capoluogo piemontese, nei quartieri di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, olre che nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
I siti erano mimetizzati in aree industriali per dissimulare una normale attività d’impresa, ma con l’adozione di molti accorgimenti per svolgere nel massimo riserbo l’illecita produzione di sigarette che avveniva al loro interno.
I militari hanno rilevato la presenza di sofisticate linee produttive, perfettamente funzionanti, con processi automatizzati ad alta velocità per l’assemblaggio delle sigarette e il confezionamento finale dei pacchetti, partendo dal tabacco trinciato e dal materiale accessorio necessario (filtri, cartine, cartoncini per il packaging, ecc.), anch’esso riportante il marchio contraffatto di noti produttori internazionali autorizzati e presente in grandissime quantità presso i siti (sono stati infatti rinvenuti circa 538 milioni di componenti per la realizzazione e il confezionamento delle sigarette recanti marchi contraffatti).
Gli impianti venivano alimentati con gruppi elettrogeni, allo scopo di non rendere rilevabile, dai picchi di consumo dell’energia elettrica, la presenza di macchinari funzionanti a pieno ritmo.
Le finestre che davano verso l’esterno erano state oscurate mentre negli ambienti più interni, illuminati solo artificialmente, erano stati allestiti alloggiamenti per il personale addetto, proveniente da Paesi dell’Est europeo e impiegato in condizioni di sfruttamento e in spregio alle norme di sicurezza.
Si trattava, in tutta evidenza, di un ambiente lavorativo degradante e vessatorio: i lavoratori venivano di fatto rinchiusi nelle fabbriche senza poter avere alcun contatto con l’esterno e costretti a turni massacranti, senza possibilità di riposo e deprivati di ogni forma di tutela.
Dalle perizie disposte su alcune delle linee di assemblaggio e confezionamento dei pacchetti di sigarette è emersa l’intensa attività produttiva realizzata durante il periodo di operatività clandestina. È stato stimato, infatti, che ognuna di esse abbia potuto agevolmente produrre 48 mila pacchetti di sigarette al giorno, da cui un volume immesso sul mercato illegale valutabile (in via del tutto prudenziale) in almeno 35 milioni di pacchetti (corrispondenti a 700 tonnellate di prodotto). Un quantitativo, questo, che può aver fruttato agli organizzatori dell’illecito traffico guadagni stimati in non meno di € 175 milioni. Ciò con una correlativa evasione di accisa sui tabacchi quantificabile in € 112 milioni circa, oltre a IVA per € 28 milioni.
Va inoltre sottolineato come la sinergia istituzionale, dopo l’effettuazione dei sequestri, si sia estesa all’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Ufficio dei Monopoli di Torino) nonché al Comando Provinciale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di Torino nella fase della gestione del materiale cautelato che, anche grazie alla collaborazione della Città Metropolitana di Torino, è stato già avviato a completa distruzione.
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