
Lo Stato finanzia le strutture riabilitative, però non verifica l'efficacia delle terapie. Valutazioni? Interrotte dal governo Renzi.«Abbiamo trascorso anni, peregrinando tra i Servizi per le tossicodipendenze e le comunità di recupero, prima di vedere qualche spiraglio di luce, di tornare a fatica alla normalità». A raccontare questa storia è il padre di un ex tossicodipendente, che ha chiesto alla Verità di restare anonimo. «Mio figlio Matteo», ricorda, «è finito in un labirinto di strutture dal quale non riusciva a uscire: dal Sert di Chiavenna a quello di Brescia, dalla comunità di Bergamo a quelle di Verona. Le soluzioni proposte non funzionavano. E l'aspetto peggiore è che nessuno ha mai eseguito un vero controllo, non c'è stata un'analisi sull'efficacia dei trattamenti».In Italia, la tossicodipendenza si fronteggia attraverso un sistema strutturato, uno dei migliori in ambito europeo: la rete di assistenza conta su 570 servizi pubblici (i Sert) e 922 comunità terapeutiche, che vengono per la quasi totalità dei casi finanziati dal sistema sanitario nazionale. I dati dell'ultima relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze parlano di 7.186 operatori dedicati, in parte o in maniera esclusiva, alla cura delle dipendenze. In sostanza, 12 operatori ogni 100.000 residenti. Nel corso del 2017, ultimo anno di riferimento, i soggetti presi in carico dal sistema pubblico sono stati 129.945, mentre quelli in trattamento presso le comunità di recupero poco più di 15.000, in leggero aumento rispetto all'anno precedente. Stabilire a quanto ammonti la spesa nazionale per la cura della tossicodipendenza non è facile: alle domande che La Verità ha posto, il ministero della Salute ha risposto di non avere «un quadro completo». Al Dipartimento per le politiche antidroga (Dpa), in capo alla presidenza del Consiglio dei ministri, il valore aggregato sarà disponibile con la prossima relazione al Parlamento, che verrà pubblicata a giorni. Una delle ultime analisi realizzate parla di una cifra molto vicina a 1,6 miliardi di euro l'anno. Soldi che finiscono nelle casse delle Regioni. «Ogni Regione ha una legislazione propria, non c'è alcuna forma di omogeneità», spiegano i responsabili della comunità di San Patrignano, uno dei centri più avanzanti in Italia. Lungo lo Stivale, in effetti, i numeri sono abbastanza eterogenei: la Regione Veneto, per esempio, fissa la retta giornaliera delle comunità di recupero a un massimo di 87 euro. In Puglia, con il rinnovo del regolamento regionale, le rette residenziali giornaliere potrebbero arrivare fino a 120 euro per i moduli di maggiore complessità. Ogni paziente costa al sistema nazionale fino a 30.000 euro l'anno. In sostanza, 40 euro al giorno, che raddoppiano in caso di comorbilità, cioè la coesistenza di patologie differenti. Soldi con cui le strutture coprono le spese della riabilitazione, dell'accoglienza, del personale. «Il costo è studiato per garantire alla struttura il mantenimento del servizio, eppure l'utilizzo dei fondi non è ottimizzato», spiega Giovanni Serpelloni, professore senior all'Università della Florida ed ex capo del Dipartimento politiche antidroga. «Se investi del denaro pubblico perché non c'è una valutazione finale sull'efficacia dei trattamenti? I ragazzi tornano a essere produttivi? Riescono a reinserirsi in società?». Domande inevase, perché in Italia non esiste nulla sull'outcome, ovvero l'esito del trattamento cui viene sottoposto il tossicodipendente. O meglio, esisteva: l'unico progetto orientato all'efficacia delle cure è fermo dal 2014. Si chiama Outcome comunità, ed è stato messo a punto dal Dipartimento delle politiche antidroga in collaborazione con la facoltà di sociologia dell'Università di Bologna. L'obiettivo era introdurre una valutazione oggettiva a posteriori del lavoro svolto dalle comunità di tossicodipendenza e dai Sert. «Il progetto è stato bloccato sul più bello», ricorda Giovanni Pieretti, all'epoca capo dipartimento alla facoltà di sociologia. «Per la prima volta veniva messo in campo un sistema che avrebbe dato ottimi risultati e, come a volte accade con le eccellenze, siamo stati gli unici a non rendercene conto». Nel 2014, Outcome comunità è stato bloccato e non rifinanziato dal governo Renzi. Valore del progetto? Neanche 300.000 euro. «Era una cifra irrisoria», continua Pieretti, «eppure ci siamo scontrati contro un muro di gomma. Con me ho ancora i primi risultati, ma non credo abbiano mai avuto l'intenzione di usarli: nessuno ci ha dato un riscontro del prodotto che abbiamo consegnato». Più duro il commento del professor Serpelloni che, come capo del Dpa, quel progetto lo ha proposto e seguito fin dall'inizio: «Dal 2014 c'è stata l'apocalisse della lotta alla droga in Italia. Non c'è mai stata la volontà politica di portarlo avanti. Tutti i governi che hanno due anime, una favorevole alla legalizzazione della droga e una contraria, preferiscono non fare, o fare il minimo, per non creare situazioni scomode. Già all'epoca in cui lanciammo il progetto ricordo diverse resistenze, anche da parte delle comunità, che non avevano interesse a farsi valutare. Valutazioni negative avrebbero potuto mettere a rischio i finanziamenti». Il grande buco della tossicodipendenza è anche questo. Il sistema sanitario nazionale e, di conseguenza, le Regioni erogano dei fondi senza alcun tipo di controllo finale sull'efficacia dei trattamenti. Una delle poche comunità a prevedere dei sistemi di valutazione è San Patrignano, che non percepisce soldi pubblici, ma si finanzia attraverso le donazioni dei privati e il denaro che riesce a ricavare dalle proprie attività. In questi mesi, ci spiegano, è in corso il secondo follow up sui tossicodipendenti che hanno fatto un percorso di almeno 3 anni in comunità. Dal primo progetto di valutazione risulta che 72 pazienti su 100 hanno completato la riabilitazione in maniera soddisfacente. Il modello, insomma, esiste. «Si può fare», conferma Serpelloni, «lo abbiamo fatto per quattro anni, ora non mi si venga a dire che è un progetto troppo complesso. Le Regioni devono fare la loro parte, al momento non ho visto alcun sistema regionale che imponga l'outcome». Il controllo, del resto, è un aspetto imprescindibile anche per eliminare alcune zone d'ombra intorno alle comunità.Come è possibile, per esempio, che un centro di recupero per tossicodipendenti diventi una base di spaccio e nessuno se ne renda conto? Eppure, è accaduto nel Lazio, dove il nucleo speciale di polizia valutaria della Gdf, sotto il coordinamento della Dia, ha sgominato un sistema di traffico ben rodato, che gravitava attorno al cortile di una comunità. Da lì, il capo dell'organizzazione, che beneficiava della detenzione terapeutica, riusciva a gestire il giro d'affari, intratteneva i rapporti con i fornitori, decideva la distribuzione degli stupefacenti nelle piazze di spaccio. Semplice, no? «Situazioni fuori legge si possono verificare ovunque e in tutti gli ambiti», ci fanno sapere da San Patrignano. Il rischio zero non esiste, ma il controllo potrebbe aiutare a eliminare situazioni del genere. «È ora di avviare un piano di investimento mirato, serio e continuativo», conclude il professor Serpelloni. «Bisogna lavorare, e molto, sulla riabilitazione e sul controllo: non si può contare solo sulla riduzione del danno. Se ci fermiamo a questo, le persone non saranno riabilitate, rese autonome e continueranno a produrre sofferenza e costi».
Ansa
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(IStock)
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