Lo schema è conosciuto e qualcuno, in Occidente, ha sperato potesse funzionare anche con la guerra in Ucraina: il poliziotto cattivo scaccia quello ancora più cattivo. «È curioso notare come in molti abbiano guardato alla marcia di Prigozhin e dei mercenari della Wagner come la vera controffensiva ucraina», spiega alla Verità Toni Capuozzo, giornalista e storico inviato di guerra. «Forse speravano in un eventuale successo dell’operazione, con la conseguente destituzione di Putin, per risparmiarsi la fatica di capire quale piega prenderà questo conflitto, quanti altri soldi e munizioni dovremmo inviare a Kiev prima di mettere la parola fine alla guerra».
Capuozzo, una potenziale instabilità a Mosca è stata scongiurata. Putin ne esce tutt’altro che indebolito?
«Ha avuto ragione di un pronunciamento militare, di ispirazione sudamericana, in poche ore e in maniera pulita, senza spargere sangue e con l’esilio del capo dei ribelli. La descrizione di un Putin indebolito fa comodo a una certa opinione pubblica occidentale, che preferisce nascondere sotto al tappeto la polvere di una controffensiva che non ha ancora portato i frutti sperati. Fino a qualche settimana fa, c’era chi parlava di “Armata Rotta”. Nonostante il supporto di circa 40 Paesi, l’Ucraina si è ripresa appena 114 chilometri quadrati di terra, la Russia e gli indipendentisti ne controllano circa 100.000. Putin è sicuramente più forte all’interno del suo Paese e il bagno di folla in Daghestan, al netto della propaganda, lo testimonia».
Il capo della Wagner, Yevgeny Prigozhin, è stato spedito in esilio in Bielorussia mentre i suoi nemici sono ancora al loro posto, a cominciare dal ministro della Difesa, Shoigu. Che cosa è stata la «Marcia della Giustizia»?
«Un gesto disperato di Prigozhin, una corsa contro il tempo per evitare che la Wagner gli venisse sottratta».
È stato previsto l’inquadramento dei mercenari nei ranghi dell’esercito regolare: fine dei ricchi bottini di guerra?
«Non sappiamo su quali appoggi potesse contare Prigozhin o se sia stato a sua volta tradito, lo leggeremo tra qualche anno nelle memorie di qualcuno. Attenendosi ai fatti, l’esilio per uno che l’ha combinata così grossa è quasi una medaglia. C’è chi ha fatto una fine peggiore per molto meno».
«Il tradimento non può essere perdonato», diceva Putin in una vecchia intervista.
«La Russia non è mai stata una democrazia, come la intendiamo noi. I russi odiano l’instabilità e i vuoti di potere. Sentono il bisogno di essere guidati da una figura forte, a volte fino al terrore, come è stato con Ivan il Terribile o lo stesso Stalin. Putin è riuscito a dimostrarsi una sorta di zar al di sopra delle parti: da un lato c’era Prigozhin, dall’altro Shoigu e Gerasimov. Per il momento, credo che Putin abbia dato prova di saggezza: prendere una decisione diversa dall’esilio per Prigozhin e i suoi sarebbe stato impopolare, restano pur sempre i vincitori di Bakmuth e sono stati applauditi a Rostov».
Secondo il capo dell’intelligence militare di Kiev, i servizi russi avrebbero avuto l’incarico di liquidare il leader della Wagner. È un «morto che cammina», come qualcuno lo ha definito, o la sua presenza in Bielorussia potrà tornare utile?
«I prossimi mesi, o anni, ci diranno se arriverà una vendetta lunga, ma ritengo che possa tornare utile a Mosca».
Per quali ragioni?
«Innanzitutto perché si trova al di fuori della Russia ed è una spina in meno nel fianco di Putin. E poi perché può fungere da spauracchio, una sorta di calamita per le forze militari ucraine».
Non a caso i comandi militari hanno deciso di rafforzare il fronte settentrionale del Paese, ai confini con la Bielorussia.
«Ciò distrarrà i soldati dalla controffensiva. Probabilmente, Prigozhin può tornare utile anche al presidente bielorusso Lukashenko, contro l’opposizione interna. Si profila uno scenario simile a quello che si è consolidato prima dell’ammutinamento: ci sarà un mercanteggiamento perché la Wagner continui a fare il lavoro svolto finora per conto di Mosca, in vari teatri di guerra».
Si sono fatti diversi paragoni con il passato, dalla marcia su Roma alla rivoluzione del 1917: la «la Marcia per la Giustizia» può essere avvicinata a qualcosa di simile?
«Innanzitutto eviterei la parola golpe, che presuppone la presa di possesso dei palazzi del potere, in questo caso il Cremlino. Pensare di prendere Mosca con un numero esiguo di soldati - si è parlato di 25.000 uomini - mi sembra velleitario. Preferirei usare il termine pronunciamento: i militari fanno sentire il tintinnio delle armi per ottenere qualcosa. A buon intenditor poche parole. Fare delle assonanze mi sembra complicato: se Mussolini si fosse fermato a Firenze, probabilmente la storia d’Italia del secolo scorso sarebbe stata un po’ diversa. Ho trovato paradossale anche il riferimento di Putin alla Rivoluzione d’Ottobre, che ha funzionato solo perché i russi hanno timore del caos: è bastata la rievocazione della rivoluzione, della guerra civile tra l’Armata Rossa e le Guardie Bianche per sopire gli entusiasmi nei confronti dei mercenari ammutinati che avanzavano verso la capitale».
A proposito di caos, sembra che gli Stati Uniti fossero a conoscenza dei piani della Wagner e avrebbero fatto pressioni sull’Ucraina per evitare di sfruttare il momento: un Paese con quasi 6.000 testate nucleari che precipita nell’incertezza non è uno scenario auspicabile.
«L’intelligence americana ha una visione della marcia di Prigozhin e dell’andamento della guerra molto divergente da quella della Casa Bianca. Non a caso, hanno temuto come una iattura la caduta di Putin. Sanno benissimo che non ha senso parlare di una vittoria della guerra da parte dell’Ucraina e che sarebbe auspicabile un arrangiamento pragmatico. E non perché sono dei putiniani, ma perché sono consapevoli che gli investimenti politici ed economici che sono stati fatti per questo conflitto rischiano di rivelarsi fallimentari».
Qual è stato l’errore commesso dall’Occidente?
«Non aver trattato la guerra in Ucraina per quello che è, cioè un conflitto regionale. Si è diffusa l’idea che l’Ucraina sia la trincea della democrazia in Europa, che Kiev combatta anche per noi. E se non dovessero vincere, la democrazia europea fallirebbe? Negli Stati Uniti, dove hanno investito miliardi di dollari sull’Ucraina, il tema è molto sentito e mette a dura prova la leadership presidenziale».
Insomma, sembra che non ci sia un piano B.
«Questo è il problema che ci trasciniamo dietro da tempo. Le analisi sul fallito piano di Prigozhin o le preoccupazioni per un ipotetico sabotaggio della centrale nucleare di Zaporizhzhia sono un diversivo per non affrontare il punto principale: la controffensiva ucraina è destinata a vincere e a ricacciare i russi indietro in tempi ragionevoli oppure no? E se ciò non avvenisse, che cosa faranno? Continueranno a inviare armi e soldi a oltranza?».
Questo è il dilemma di tutti i governi, compreso quello di Giorgia Meloni. Un piano B presuppone la disponibilità a concedere qualcosa all’avversario: chi sarebbe disposto ad accettare?
«È il momento di iniziare a discutere se la Crimea può restare russa e quale sarà il destino di Mariupol, per esempio. Una cosa è arrivare ai negoziati per senso di responsabilità, per evitare una guerra fino all’ultimo ucraino che può trasformarsi in un conflitto globale o, peggio ancora, nucleare. Altra cosa è arrivare ai negoziati perché non si è riusciti a vincere. Se la linea da seguire è “Nothing about Ukraine without Ukraine” (Non si fa nulla sull’Ucraina senza il consenso dell’Ucraina), allora l’Occidente dovrà essere disposto a leccare le ferite di Zelensky, con una pioggia di soldi per una ricostruzione costosissima, e soprattutto a fare i conti con il sentimento della vittoria mutilata e della sovranità mai realizzata. Avremo dei territori occupati, modello mediorentale, nel cuore dell’Europa».
Una delle idee sul tavolo è trasformare l’Ucraina in un «porcospino», sul modello di Israele e Taiwan: Kiev rinuncia a porzioni di territorio in cambio della fornitura di armi da parte occidentale, in modo da scoraggiare eventuali nuove aggressioni russe. Possibile?
«Vorrebbe dire combattere una guerra a bassa intensità, con incursioni di ribelli russi, attentati e ricerca di collaborazionisti da una parte e dall’altra parte. Gli aculei del “porcospino” non si rizzerebbero in modo solo virtuale: significherebbe ritrovarsi con un contingente internazionale, composto curiosamente da asiatici e africani perché gli europei sono coinvolti. L’Europa finirebbe per essere trattata come una dei litiganti in causa e la presenza di caschi blu tra i due fronti sarebbe il tradimento della sua natura originaria».
«Un’ossessione. Inutile e dannosa». La caccia ai presunti fondi per finanziare le attività della Lega si è risolta in un buco nell’acqua: «Il flop dell’inchiesta sui 49 milioni e le trame del Metropol si sono rivelate una bufala clamorosa, con dei risvolti preoccupanti per gli equilibri democratici», si sfoga con La Verità Stefano Bruno Galli, ex assessore all’Autonomia e cultura della Regione Lombardia e professore di storia delle Dottrine politiche alla Statale di Milano, finito anche lui nel mirino delle Procure e recentemente archiviato per «infondatezza della notizia di reato».
Galli, partiamo dalla vicenda del Metropol e dalle indagini sulla mai avvenuta compravendita di prodotti petroliferi, che avrebbe dovuto portare nelle casse della Lega 65 milioni di dollari, in vista delle elezioni europee del 2019. L’archiviazione dell’inchiesta e le successive rivelazioni della Verità consentono di ribaltare la prospettiva della storia: niente corruzione internazionale né finanziamento illecito, semmai una macchinazione per colpire Matteo Salvini, all’epoca vicepremier e ministro dell’Interno.
«La cosa più inquietante che resta del caso Metropol è la fitta rete di relazioni tra gruppi editoriali, professionisti e certe correnti della magistratura che hanno la volontà esplicita di mestare nel torbido, per mettere in cattiva luce i partiti di destra e in pericolo gli equilibri della nostra democrazia».
Per quale motivo vede questo rischio?
«Penso ci sia una sorta di guerra in corso, questo dicono le evidenze. Prima la caccia ai 49 milioni, che finirà in una bolla di sapone. Poi i fondi russi, su cui hanno costruito aggressive campagne mediatiche, ma di cui non ci sono tracce. Infine la vicenda che mi riguarda, con le perquisizioni a mio carico ad aprire le edizioni dei telegiornali e poi il silenzio assordante ad accompagnare l’archiviazione. Siamo di fronte a un’aggressione politico-giudiziaria ai danni della Lega, non c’è dubbio».
Quale sarebbe l’obiettivo?
«Dopo l’ascesa delle elezioni regionali e politiche del 2018, culminata con le europee del 2019 (con il partito al 34%), hanno messo la Lega nel mirino. Ho la sensazione che vogliano farla passare come il Partito socialista della Seconda Repubblica».
Un capro espiatorio?
«Negli anni di Tangentopoli, il Partito socialista è stato raccontato come il “motore della corruzione”. Allo stesso modo, credo ci sia un analogo tentativo nei confronti della Lega. Il Partito socialista, per contare, ha dovuto adeguarsi a certi metodi che erano largamente praticati dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista. Nelle dinamiche della seconda Repubblica, si vuole far passare la Lega come il nuovo centro della corruzione».
Lei ritiene che il partito all’epoca possa aver scontato i rapporti con la Russia di Putin, malvisti dagli alleati occidentali dell’Italia?
«C’è stata sicuramente la volontà di mettere in difficoltà chi per primo ha aperto a Putin e all’influenza che la Russia poteva avere sullo scenario politico europeo e internazionale. Dialogare con la Russia è politicamente scorretto e con Putin non si può parlare, per molti era fin troppo scomodo. A mio modo di vedere, ciò però non giustifica l’ossessione di delegittimare la Lega nel momento della sua massima crescita. Per fortuna, le verità giudiziarie hanno detto altro in questi anni».
Salvini auspica una controinchiesta sul Metropol: «Spero che giornalisti e politici complici di questa enorme messa in scena paghino per l’errore commesso», ha detto. Cosa pensa al riguardo?
«Lo spera Salvini e lo speriamo tutti. L’Italia è il Paese in cui nessuno paga per gli errori commessi. Quando politica, giornalismo e magistratura decidono di mettere nel mirino un partito al 34%, per dimostrare un certo teorema, incidono inevitabilmente sugli equilibri democratici, alterandoli».
Diversi deputati leghisti chiedono le scuse di Marco Damilano, all’epoca direttore de L’Espresso, il settimanale che raccontò il caso. Qual è la sua posizione?
«È il direttore che dà la linea a un giornale. Mi sembra doveroso che risponda delle proprie azioni e delle proprie responsabilità».
Lo vorrebbe fuori dalla Rai, dove conduce il programma Il cavallo e la torre?
«Credo sia giusto che una persona paghi per aver costruito qualcosa in maniera artificiosa, con il solo scopo di ridicolizzare e mettere alla gogna un’azione politica. È giunto il momento che paghino anche i magistrati e i giornalisti, quando sbagliano. Si chiama principio di responsabilità».
Veniamo al procedimento giudiziario che la riguarda. Nel dicembre del 2019, la Guardia di Finanza perquisisce la sua abitazione e l’ufficio dove lavorava a Palazzo Lombardia. Nell’ambito dell’inchiesta sui 49 milioni, la Procura di Genova ipotizza il reato di riciclaggio per via di 500.000 euro transitati nel 2013 sui conti dell’Associazione Maroni Presidente e poi restituiti alla Lega.
«Quei soldi servivano per la lista civica che sosteneva la candidatura di Maroni alla presidenza della Lombardia, dal momento che quell’anno non poteva giocarsi l’elezione sotto la bandiera della Lega né sotto il cappello del centrodestra. Due anni dopo le elezioni del 2013, le ultime coperte dai rimborsi elettorali, l’associazione che presiedevo riceve circa 800.000 euro e restituisce i soldi alla Lega. Ho chiesto alla Commissione trasparenza dei bilanci dei partiti politici quale fosse la procedura più corretta per rendere il denaro: il risultato è che mi sono ritrovato la GdF alle 6 del mattino in casa, con un avviso di garanzia».
Gli atti di questa inchiesta sono stati trasferiti da Genova a Milano e infine a Monza. Il capo di imputazione è cambiato: dal riciclaggio iniziale si è passati all’appropriazione indebita e alla truffa aggravata ai danni dello Stato.
«Senza che io, né tantomeno il mio avvocato avessimo mai comunicazioni in merito. Quando andava bene, erano i giornali a informarci. Sono stati quattro anni di silenzio tombale e di tormenti».
Si è dato una spiegazione?
«L’unica spiegazione che mi sono dato riguarda la scadenza dei termini per le indagini sui 49 milioni, prevista per i primi mesi del 2020. Evidentemente, hanno preso il bilancio della Lega e hanno visto i 500.000 euro che dovevamo restituire, ai quali ho aggiunto 30.000 euro come erogazione liberale per le europee del 2019».
Perché lo ha fatto?
«La lista Maroni non c’era alle Europee, per ovvie ragioni. Ma i rapporti di parentela con la Lega erano innegabili. E uno degli obiettivi statutari dell’Associazione Maroni Presidente era proprio il sostegno alle realtà partitiche che più rappresentassero i nostri ideali. Ci sembrava una cosa naturale, evidentemente non era così per chi doveva trovare a tutti i costi i famosi 49 milioni».
Il decreto di archiviazione è stato firmato lo scorso marzo: il gip del Tribunale di Monza parla di «infondatezza della notizia di reato».
«Circa quattro mesi dopo la richiesta di archiviazione, firmata dal pm all’inizio di dicembre 2022. Guarda caso, mi viene comunicata un mese dopo le elezioni regionali in Lombardia».
Lei ora è tornato a insegnare in Università. Pensa che la coincidenza di date possa aver inciso sulla sua mancata elezione?
«No. Avevo già deciso di tornare in Università dopo le elezioni di settembre, tanto da comunicarlo al mio rettore. Ho sempre inteso l’attività al servizio delle istituzioni come un capitolo temporaneo. Il mio lavoro è un altro: sono un professore e ho deciso di tornare a casa. Detto questo, a colpire sono le date e la coltre di silenzio assordante di oltre quattro anni che ha avvolto questo procedimento giudiziario, dopo l’enorme risalto mediatico che è stato dato alle perquisizioni del 2019. Se l’archiviazione fosse arrivata da Genova o da Milano non sarebbe passato tutto sotto silenzio: sarebbe stata la dimostrazione di un altro buco nell’acqua, dopo i 49 milioni».
Restiamo sulle coincidenze temporali. L’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema e altre sette persone risultano indagate per corruzione internazionale per una presunta tangente promessa a esponenti del governo colombiano con l’obiettivo di facilitare una compravendita di navi e aerei militari. Le prime perquisizioni sono arrivate la scorsa settimana, a un anno di distanza dagli articoli de La Verità, che ha sollevato il caso pubblicando gli audio di D’Alema. La sorprende questa cautela?
«Che la sinistra venga spesso trattata con i guanti bianchi è fuori discussione. Non mi stupisce che la vicenda di D’Alema sia rimasta sotto traccia per tutti questi mesi. Mi preoccupa semmai la visione ideologica che ispira certi gruppi della magistratura. Questo conferma un preciso indirizzo politico messo in atto attraverso le azioni giudiziarie. La magistratura dovrebbe essere imparziale, altrimenti si configura come un oggettivo pericolo per gli equilibri democratici».
Un Paese disorientato dal «piagnucolio di adulti infantilizzati, che pensano di poter fare tutto quello che vogliono, anche vendere a pezzi il corpo femminile». Ci tiene a sgombrare il campo dalle ambiguità, Marina Terragni, giornalista e scrittrice che da anni si batte per la tutela dei diritti delle donne: «In Italia non esistono bambini di serie A e di serie B, i diritti di tutti i piccoli vengono tutelati e protetti, nonostante un certo universo mediatico e politico stia tentando di convincerci del contrario».
Terragni, c’è il rischio che questa tendenza prenda piede?
«Il rischio c’è e mi preoccupa. Hai voglia a spiegare che l’interruzione delle trascrizioni in Italia dei certificati di nascita esteri non limita in alcun modo i diritti dei figli di coppie omogenitoriali, la cui filiazione può avvenire con l’adozione in casi particolari. Ci sarà sempre il tentativo di mistificare il tema per provare a spostare l’attenzione dal problema principale, cioè la pratica dell’utero in affitto».
I bambini, gli unici a non avere voce in questa storia, sarebbero una sorta di scudo?
«A qualsiasi bambino figlio di un genitore single viene garantito il rispetto dei diritti essenziali. Poco o nulla, invece, si dice rispetto a due diritti fondamentali che ai bambini nati attraverso maternità surrogata vengono sottratti proprio da chi li mette al mondo».
Quali?
«Il diritto di stare con la propria madre, tanto per cominciare».
Spesso, nella maternità surrogata, la gestante non è la madre genetica.
«Dobbiamo assumere il punto di vista del bambino, che sicuramente farà i conti - se mai gli verrà comunicato - con il fatto che la madre gestante e quella genetica sono due persone diverse. Il momento della nascita è fondamentale, ed è in quegli attimi che si realizza la prima privazione di un diritto fondamentale: il bambino viene portato via appena partorito e separato dalla sua matrice, cioè la donna che lo ha messo al mondo e che il neonato riconosce attraverso una serie di segnali chiarissimi, come la voce, il ritmo del cuore, il calore del corpo».
Molte coppie che ricorrono alla maternità surrogata raccontano di rapporti e contatti con la gestante anche dopo la separazione: che effetto le fanno le loro storie?
«Al bambino non interessa nulla di ricevere gli auguri di Natale o, magari, qualche regalo da una signora che vive in Canada. Potrà trovarla una cosa simpatica, ma l’attaccamento è stato ormai impedito, il legame si è spezzato. L’attaccamento terrorizza i committenti».
Qual è il secondo diritto negato?
«La Corte europea dei diritti dell’uomo stabilisce che ognuno di noi ha il diritto di conoscere le proprie origini. Sulla verità non si scherza: non si può raccontare al figlio di madre surrogata la favola della belly mommy, che è stata tanto buona perché ha donato la sua pancia. Queste sono balle, nessuno meglio dei bambini è in grado di percepire le balle e i non detti».
L’utilizzo dell’espressione gestazione per altri, che pone l’accento su un aspetto altruistico, è fuorviante?
«Magari c’è anche una componente altruistica: spesso, le donne sono guidate dall’ideologia di fare del bene e probabilmente c’è bisogno di una narrazione di questo tipo, altrimenti diventa difficile da sostenere psicologicamente. Tuttavia, basterebbe leggere uno di quei contratti per rendersi conto dell’assurdità della pratica: la vita sessuale viene regolamentata, così come l’alimentazione, il diritto di decidere se portare a termine la gravidanza viene precluso».
C’è chi parla di «nuovo colonialismo»: lo ritiene eccessivo?
«Se per colonialismo intendiamo lo sfruttamento di ragazze povere da parte di ricchi occidentali, non vedo perché non potremmo usare questa espressione, anche se durissima da mandare giù. Secondo me, è peggiore il concetto del “dono”, che ho sentito descrivere ad alcuni padri adottivi».
Cioè?
«La madre surrogata che decide di donare un figlio è un’assurdità. Come può sentirsi un bambino di fronte all’idea di non avere alcun valore per la donna che lo mette al mondo? La madre è decisiva per lo sviluppo della nostra personalità».
Entro il 2032, secondo le stime della società di consulenza Global Market Insights, l’industria della maternità surrogata varrà 129 miliardi di dollari.
«Ci stiamo consegnando mani e piedi al business della fecondazione assistita. Non dimentichiamo che sono stati investiti moltissimi soldi per fare ricerche sull’utero artificiale, esattamente come è stato per il cambiamento di genere. Le nostre naturali capacità riproduttive sono messe a repentaglio da una serie di fattori, eppure nessuno sembra preoccuparsene più di tanto».
Il progresso scientifico può indurre al cambiamento dei fondamenti antropologici, come sostiene il fronte femminista?
«Per anni abbiamo cercato di porre l’attenzione su questi temi, che sono di fondamentale importanza perché delineano la società del futuro. Eppure, molto spesso ci siamo sentite rispondere che stavamo sollevando questioni marginali, soprattutto da parte della sinistra. Oggi vediamo un sistema mediatico spaventosamente schierato: ci sono conduttori tv al limite della crisi di nervi, drag queen che servono solo a fare spettacolo, opinionisti e politici che raccontano balle, come la falsa notizia dei 150.000 bambini nati da surrogata in attesa di regolarizzazione in Italia».
Sul riconoscimento dei figli delle coppie omogenitoriali regna il caos: ci sono comuni che riconoscono solo i figli di due mamme, altri che invece aprono alle coppie composte da due uomini, come pensa di fare il sindaco di San Lazzaro, Isabella Conti. Di fatto, è lo sdoganamento dell’utero in affitto?
«Non mi addentro nelle questioni giuridiche, ma c’è un punto che va ribadito: non è stato il governo a interrompere le trascrizioni, ci si è limitati semplicemente al rispetto delle sentenze della magistratura. Per due volte, la Corte di Cassazione ha indicato la strada da seguire in materia. La Corte Costituzionale ha ribadito la condanna della pratica - come espresso dalla legge 40 del 2004, in materia di procreazione assistita - pur evidenziando la necessità di colmare il vuoto legislativo sulla genitorialità che nessun esecutivo, da Conte a Draghi, ha mai proposto di normare».
A proposito, sono state incardinate le proposte di legge sulla maternità surrogata e sono stati sollevati dubbi sulla possibilità di rendere la pratica un reato universale: c’è il rischio di incostituzionalità?
«Secondo me è un po’ azzardato chiamarlo reato universale, perché ci si espone a una lettura propagandistica».
Sarebbe illogico che un tribunale italiano perseguisse come reato un comportamento che invece è legale in altri Stati.
«L’obiettivo del femminismo è che l’utero in affitto sia un reato in tutto il mondo, in modo evitare qualsiasi fraintendimento su questa materia».
Gli italiani, in maggioranza, bocciano la maternità surrogata.
«Non mi stupisce: hanno capito che cos’è la surrogazione. Eppure, sono sicura che un certo universo politico continuerà a fare leva sui diritti dei bambini per provare a legittimare anche una pratica terribile».
Il segretario del Pd, Elly Schlein, evita di prendere una posizione chiara sul tema: perché?
«Obbligati a prendere posizione sull’utero in affitto, tutti manifestano la propria contrarietà. Da Orlando a Bonaccini, passando per molti altri esponenti del Partito democratico, nessuno si sente di fare una battaglia così impopolare e si arroccano sui diritti dei bambini. Scoprire oggi che sono tutti contrari ci lascia di stucco».
Il senatore di Azione-Italia Viva, Ivan Scalfarotto, chiede di riaprire il cantiere della legge sull’omotransfobia. Cosa pensa al riguardo?
«La sua proposta, che ipotizzava una estensione della legge Mancino, andava benissimo. Non parlava di identità di genere, di corsi a scuola sull’affettività e la sessualità. Sarebbe stata un’ottima via di uscita, se solo il Pd avesse voluto mollare il ddl Zan. E invece hanno ripresentato quel testo, con il risultato che hanno chiuso la legislatura senza la legge che volevano così tanto. Non posso dire che una norma sull’omotransfobia sia necessaria in Italia, ma il testo di Scalfarotto sarebbe una soluzione votabile. Se proprio dobbiamo farla, che almeno sia fatta bene, evitando le forzature ideologiche alla Zan, la cui esposizione su questi temi è un errore tattico da parte della sinistra».
Che cosa intende?
«Zan è fortemente divisivo nelle sue posizioni, è incapace di aprire un dialogo. Sarebbe un errore se lui fosse l’estensore di certe leggi, come quella sul matrimonio egualitario. Su certi temi, non c’è bisogno di guerreggiare: in Italia serve una politica che si rimbocchi le maniche e lavori seriamente. Tutti insieme, governo e opposizioni».




