2023-06-12
«L’aggressione dei pm alla Lega mette a rischio la democrazia»
Stefano Bruno Galli (Imagoeconomica)
L’ex assessore Stefano Bruno Galli, indagato per la vicenda dei 49 milioni e poi archiviato: «Il flop di quella inchiesta e il caso Metropol sono inquietanti. Vogliono distruggerci come fecero col Psi».«Un’ossessione. Inutile e dannosa». La caccia ai presunti fondi per finanziare le attività della Lega si è risolta in un buco nell’acqua: «Il flop dell’inchiesta sui 49 milioni e le trame del Metropol si sono rivelate una bufala clamorosa, con dei risvolti preoccupanti per gli equilibri democratici», si sfoga con La Verità Stefano Bruno Galli, ex assessore all’Autonomia e cultura della Regione Lombardia e professore di storia delle Dottrine politiche alla Statale di Milano, finito anche lui nel mirino delle Procure e recentemente archiviato per «infondatezza della notizia di reato».Galli, partiamo dalla vicenda del Metropol e dalle indagini sulla mai avvenuta compravendita di prodotti petroliferi, che avrebbe dovuto portare nelle casse della Lega 65 milioni di dollari, in vista delle elezioni europee del 2019. L’archiviazione dell’inchiesta e le successive rivelazioni della Verità consentono di ribaltare la prospettiva della storia: niente corruzione internazionale né finanziamento illecito, semmai una macchinazione per colpire Matteo Salvini, all’epoca vicepremier e ministro dell’Interno. «La cosa più inquietante che resta del caso Metropol è la fitta rete di relazioni tra gruppi editoriali, professionisti e certe correnti della magistratura che hanno la volontà esplicita di mestare nel torbido, per mettere in cattiva luce i partiti di destra e in pericolo gli equilibri della nostra democrazia».Per quale motivo vede questo rischio?«Penso ci sia una sorta di guerra in corso, questo dicono le evidenze. Prima la caccia ai 49 milioni, che finirà in una bolla di sapone. Poi i fondi russi, su cui hanno costruito aggressive campagne mediatiche, ma di cui non ci sono tracce. Infine la vicenda che mi riguarda, con le perquisizioni a mio carico ad aprire le edizioni dei telegiornali e poi il silenzio assordante ad accompagnare l’archiviazione. Siamo di fronte a un’aggressione politico-giudiziaria ai danni della Lega, non c’è dubbio».Quale sarebbe l’obiettivo?«Dopo l’ascesa delle elezioni regionali e politiche del 2018, culminata con le europee del 2019 (con il partito al 34%), hanno messo la Lega nel mirino. Ho la sensazione che vogliano farla passare come il Partito socialista della Seconda Repubblica».Un capro espiatorio?«Negli anni di Tangentopoli, il Partito socialista è stato raccontato come il “motore della corruzione”. Allo stesso modo, credo ci sia un analogo tentativo nei confronti della Lega. Il Partito socialista, per contare, ha dovuto adeguarsi a certi metodi che erano largamente praticati dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista. Nelle dinamiche della seconda Repubblica, si vuole far passare la Lega come il nuovo centro della corruzione». Lei ritiene che il partito all’epoca possa aver scontato i rapporti con la Russia di Putin, malvisti dagli alleati occidentali dell’Italia?«C’è stata sicuramente la volontà di mettere in difficoltà chi per primo ha aperto a Putin e all’influenza che la Russia poteva avere sullo scenario politico europeo e internazionale. Dialogare con la Russia è politicamente scorretto e con Putin non si può parlare, per molti era fin troppo scomodo. A mio modo di vedere, ciò però non giustifica l’ossessione di delegittimare la Lega nel momento della sua massima crescita. Per fortuna, le verità giudiziarie hanno detto altro in questi anni». Salvini auspica una controinchiesta sul Metropol: «Spero che giornalisti e politici complici di questa enorme messa in scena paghino per l’errore commesso», ha detto. Cosa pensa al riguardo?«Lo spera Salvini e lo speriamo tutti. L’Italia è il Paese in cui nessuno paga per gli errori commessi. Quando politica, giornalismo e magistratura decidono di mettere nel mirino un partito al 34%, per dimostrare un certo teorema, incidono inevitabilmente sugli equilibri democratici, alterandoli».Diversi deputati leghisti chiedono le scuse di Marco Damilano, all’epoca direttore de L’Espresso, il settimanale che raccontò il caso. Qual è la sua posizione?«È il direttore che dà la linea a un giornale. Mi sembra doveroso che risponda delle proprie azioni e delle proprie responsabilità». Lo vorrebbe fuori dalla Rai, dove conduce il programma Il cavallo e la torre?«Credo sia giusto che una persona paghi per aver costruito qualcosa in maniera artificiosa, con il solo scopo di ridicolizzare e mettere alla gogna un’azione politica. È giunto il momento che paghino anche i magistrati e i giornalisti, quando sbagliano. Si chiama principio di responsabilità». Veniamo al procedimento giudiziario che la riguarda. Nel dicembre del 2019, la Guardia di Finanza perquisisce la sua abitazione e l’ufficio dove lavorava a Palazzo Lombardia. Nell’ambito dell’inchiesta sui 49 milioni, la Procura di Genova ipotizza il reato di riciclaggio per via di 500.000 euro transitati nel 2013 sui conti dell’Associazione Maroni Presidente e poi restituiti alla Lega. «Quei soldi servivano per la lista civica che sosteneva la candidatura di Maroni alla presidenza della Lombardia, dal momento che quell’anno non poteva giocarsi l’elezione sotto la bandiera della Lega né sotto il cappello del centrodestra. Due anni dopo le elezioni del 2013, le ultime coperte dai rimborsi elettorali, l’associazione che presiedevo riceve circa 800.000 euro e restituisce i soldi alla Lega. Ho chiesto alla Commissione trasparenza dei bilanci dei partiti politici quale fosse la procedura più corretta per rendere il denaro: il risultato è che mi sono ritrovato la GdF alle 6 del mattino in casa, con un avviso di garanzia». Gli atti di questa inchiesta sono stati trasferiti da Genova a Milano e infine a Monza. Il capo di imputazione è cambiato: dal riciclaggio iniziale si è passati all’appropriazione indebita e alla truffa aggravata ai danni dello Stato. «Senza che io, né tantomeno il mio avvocato avessimo mai comunicazioni in merito. Quando andava bene, erano i giornali a informarci. Sono stati quattro anni di silenzio tombale e di tormenti». Si è dato una spiegazione?«L’unica spiegazione che mi sono dato riguarda la scadenza dei termini per le indagini sui 49 milioni, prevista per i primi mesi del 2020. Evidentemente, hanno preso il bilancio della Lega e hanno visto i 500.000 euro che dovevamo restituire, ai quali ho aggiunto 30.000 euro come erogazione liberale per le europee del 2019». Perché lo ha fatto?«La lista Maroni non c’era alle Europee, per ovvie ragioni. Ma i rapporti di parentela con la Lega erano innegabili. E uno degli obiettivi statutari dell’Associazione Maroni Presidente era proprio il sostegno alle realtà partitiche che più rappresentassero i nostri ideali. Ci sembrava una cosa naturale, evidentemente non era così per chi doveva trovare a tutti i costi i famosi 49 milioni». Il decreto di archiviazione è stato firmato lo scorso marzo: il gip del Tribunale di Monza parla di «infondatezza della notizia di reato». «Circa quattro mesi dopo la richiesta di archiviazione, firmata dal pm all’inizio di dicembre 2022. Guarda caso, mi viene comunicata un mese dopo le elezioni regionali in Lombardia». Lei ora è tornato a insegnare in Università. Pensa che la coincidenza di date possa aver inciso sulla sua mancata elezione?«No. Avevo già deciso di tornare in Università dopo le elezioni di settembre, tanto da comunicarlo al mio rettore. Ho sempre inteso l’attività al servizio delle istituzioni come un capitolo temporaneo. Il mio lavoro è un altro: sono un professore e ho deciso di tornare a casa. Detto questo, a colpire sono le date e la coltre di silenzio assordante di oltre quattro anni che ha avvolto questo procedimento giudiziario, dopo l’enorme risalto mediatico che è stato dato alle perquisizioni del 2019. Se l’archiviazione fosse arrivata da Genova o da Milano non sarebbe passato tutto sotto silenzio: sarebbe stata la dimostrazione di un altro buco nell’acqua, dopo i 49 milioni». Restiamo sulle coincidenze temporali. L’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema e altre sette persone risultano indagate per corruzione internazionale per una presunta tangente promessa a esponenti del governo colombiano con l’obiettivo di facilitare una compravendita di navi e aerei militari. Le prime perquisizioni sono arrivate la scorsa settimana, a un anno di distanza dagli articoli de La Verità, che ha sollevato il caso pubblicando gli audio di D’Alema. La sorprende questa cautela?«Che la sinistra venga spesso trattata con i guanti bianchi è fuori discussione. Non mi stupisce che la vicenda di D’Alema sia rimasta sotto traccia per tutti questi mesi. Mi preoccupa semmai la visione ideologica che ispira certi gruppi della magistratura. Questo conferma un preciso indirizzo politico messo in atto attraverso le azioni giudiziarie. La magistratura dovrebbe essere imparziale, altrimenti si configura come un oggettivo pericolo per gli equilibri democratici».
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