2020-01-21
Smettere di fare bambini fa aumentare la povertà. Ma per il ministro Bonetti la priorità è l’omofobia
I quotidiani americani raccontano gli effetti disastrosi del crollo demografico sull'economia. Però, chi dovrebbe occuparsene, da noi preferisce i temi Lgbt.Dai Paesi orientali sta giungendo un messaggio forte e chiarissimo: meno figli significa più povertà. Nei giorni scorsi, alcuni dei più importanti quotidiani internazionali si sono occupati di una notizia proveniente dalla Cina: la Repubblica popolare ha fatto registrare il tasso di natalità più basso della sua storia. «Già oggi», ha scritto il Wall Street Journal, «circa un quinto della popolazione della Cina ha più di sessant'anni. Una riduzione della popolazione in età lavorativa può intaccare l'economia attraverso una minore produttività e costi della manodopera più elevati, mentre un numero crescente di anziani fa aumentare i costi dell'assistenza sanitaria. Corea del Sud e Giappone stanno affrontando problemi simili ma su scala molto più piccola». Sulla prima pagina del New York Times, Ross Douthat ha commentato il crollo delle nascite in Cina con toni piuttosto allarmati: «La bassa fertilità», ha scritto, «crea un circolo vizioso per cui una società meno giovane perde dinamismo e crescita, cosa che riduce il supporto economico per gli aspiranti genitori. Il che, a sua volta, riduce il tasso di natalità, e così si riduce la crescita...». Delle disastrose conseguenze delle politiche cinesi sulla natalità tratta un bellissimo libro firmato dalla giornalista sino americana Mei Fong (Figlio unico, Carbonio editore). La Fong, vincitrice del premio Pulitzer, mostra le conseguenze economiche del mostruoso esperimento sociale chiamato appunto «politica del figlio unico». «Le limitazioni imposte da questo piano demografico», spiega la giornalista, «stanno mettendo a repentaglio il suo sviluppo futuro perché, nel giro di poco tempo, la popolazione finirà per essere composta da troppi uomini, da troppi anziani e, con ogni probabilità, per ridursi troppo in termini numerici». Secondo Mei Fong, la Cina non avrebbe potuto «diventare un colosso manifatturiero se non avesse avuto a disposizione tanta manodopera a basso costo nata durante il boom demografico degli anni Sessanta-Settanta del Novecento, prima ancora che la politica del figlio unico venisse concepita». Le autorità cinesi non hanno considerato una regola di buon senso: più figli uguale più ricchezza. Oggi, invece, «la grande armata dei lavoratori cinesi sta progressivamente invecchiando. Entro il 2050, in Cina una persona su quattro avrà più di 65 anni. E la politica del figlio unico ha notevolmente ridotto la popolazione attiva che deve sostenere e sostentare questo esercito di anziani di domani». È stato però il già citato Ross Douthat a spiegare che la denatalità nasce prima di tutto da ragioni culturali. Il commentatore del New York Times ha citato le dichiarazioni di una giovane donna cinese che ammette: «Siamo tutti bambini, e ad essere onesti anche un po' egoisti. Come posso crescere un bambino se sono un bambino anche io?». Il problema culturale o cui Douthat fa cenno è lo stesso che investe la società occidentale e soprattutto quella italiana. Dalle nostre parti, tuttavia, si tende a spiegare tutto con motivazioni economiche, mentre in realtà il nodo della natalità andrebbe affrontato anche e soprattutto con strumenti culturali e politici. Il precedente governo, proprio per questo motivo, aveva istituito il ministero della Famiglia. Ovvio, creare un ministero non basta se poi non lo si dota dei fondi necessari, però il segnale politico era piuttosto forte: Lorenzo Fontana prima e Alessandra Locatelli poi hanno insistito parecchio sulla lotta alla denatalità che da tempo affligge il nostro Paese. Quindi l'esecutivo è cambiato, ed è arrivata la renziana Elena Bonetti. La quale dovrebbe occuparsi di famiglia, oltre che di pari opportunità. Ma pare proprio che il suo principale interesse riguardi le questioni di genere e le tematiche Lgbt. Quando partecipa a convegni sulla famiglia, per esempio, si concentra soprattutto sulla condizione femminile, e il tema delle nascite finisce inevitabilmente in secondo piano. Per il resto, il ministro sembra molto interessato a compiacere l'elettorato arcobaleno. Una decina di giorni fa, per esempio, ha concesso una lunga intervista a Linkiesta per parlare dell'«assegno universale» che intende offrire a chi mette al mondo figli. Il cronista le ha domandato: «Quindi ne beneficeranno anche i figli delle coppie di persone dello stesso sesso?». Risposta: «È un assegno che si rivolge ai bambini, quindi indistintamente a tutti i nuovi nati. Nella domanda di richiesta all'Inps ci sarà il riferimento del nucleo familiare in cui quel bambino vive». Il ministro ha una grande passione pure per la legge bavaglio contro l'omofobia. «Come ministro per le Pari opportunità e la Famiglia sarò accanto al percorso parlamentare per questa battaglia di civiltà necessaria», ha detto pochi giorni fa, ribadendo un concetto che sostiene da mesi. Persino quotidiani liberal come il New York Times si rendono conto che la natalità è un bene da preservare, ma la sinistra italiana da quest'orecchio non vuole sentirci. I progressisti si divertono a inseguire l'arcobaleno, convinti come gli sciocchi di trovare la proverbiale pentola d'oro. E intanto il Paese si spegne.