2020-12-09
Slitta il Cdm sul Recovery. E le cancellerie europee adesso tampinano il governo
Maggioranza spaccata sul piano per la ripresa. Berlino avvisa: «Basta con i rinvii». Il ministro degli Esteri: «Non discutiamo in pubblico, parliamone nei vertici e in Aula».Il Consiglio dei ministri bruscamente interrotto l'altro ieri pomeriggio, al momento della scoperta della positività al Covid del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, con relativa messa in isolamento dei suoi «vicini di banco» Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede, fino a ieri sera non era ancora formalmente ripreso. Si pensava a una riconvocazione ieri mattina alle 10, poi ieri pomeriggio alle 16, ma alla fine - a meno di incontri in tarda serata - tutto è stato rinviato. Prima della sospensione, a onor del vero, non si era affatto raggiunta un'intesa sulla cosiddetta governance del Recovery plan, cioè sull'architettura burocratica che Giuseppe Conte intenderebbe mettere in piedi, di fatto esautorando sia i partiti alleati sia la tradizionale catena di comando amministrativa che fa capo ai singoli ministri. Di qui la rivolta capeggiata dai renziani. Ieri, intervistata dal Corriere della Sera, Maria Elena Boschi si è presentata come versione etrusca della Sibilla Cumana, lasciando cadere un responso incerto ma minaccioso sulla durata di Conte («Il governo rischia la rottura? Spero di no, ma temo di sì»). Sul fronte anti Conte, vanno segnalati altri due elementi registrati in un retroscena del Corriere: la voce, attribuita a un esponente della segreteria Pd, secondo cui Renzi sarebbe «il nostro centravanti di sfondamento» (il che accredita la tesi secondo cui Italia viva, stavolta, si muoverebbe in pieno accordo con il Pd), e un virgolettato molto esplicito attribuito direttamente a Renzi («Stavolta non posso tornare indietro, non posso perdere la faccia con chi pensa di sostituire le strutture dello Stato con altre strutture»). Guerra aperta, insomma. E Renzi ieri ha rilanciato il pressing in un'intervista rilasciata al Tg2, evocando la rottura con le stesse parole già usate dalla Boschi: «Spero proprio di no ma temo di sì, perché insistere su una misura che sostituisce il governo con una task force, la seduta del Parlamento con una diretta Facebook e che, addirittura, pretende di sostituire i servizi segreti con una fondazione privata voluta dal premier, è una follia. Noi abbiamo mandato a casa Salvini per non dargli i pieni poteri, ma non è che i pieni poteri li diamo a Conte». Morale: «Se le cose rimangono come sono, noi voteremo contro». Più tardi, il capo di Italia viva ha aggiunto: «Alla fine della legge di bilancio, a gennaio, si convoca il Parlamento per una sessione ad hoc, si propongono le idee della maggioranza e si ascoltano quelle dell'opposizione. Alla fine, si decide chi spende i soldi e come». Un chiaro avviso al premier: o ti metti d'accordo con i partiti di maggioranza, oppure rischi lo sfratto. Ieri, a Porta a porta, si è pronunciato Luigi Di Maio: «Non possiamo assolutamente invadere il dibattito pubblico con questioni che possiamo risolvere nei luoghi deputati, come il cdm e il Parlamento». Insomma, laviamo i panni sporchi in casa. Come se l'Aula non fosse, per eccellenza, il teatro del «dibattito pubblico».La controstrategia di Conte si è materializzata in tre modi. Per un verso, come già detto, provando a guadagnare tempo, cioè lasciando decantare la situazione, evitando immediate rese dei conti: intanto, il premier conta di passare indenne l'appuntamento oggi in Aula sul Mes. Per altro verso, facendo trapelare l'intenzione di una decelerazione rispetto ai suoi obiettivi: la nuova struttura organizzativa per il Recovery plan non sarebbe più approvata a tamburo battente attraverso un emendamento alla legge di bilancio, ma sarebbe trasfusa in un apposito decreto legge, che a quel punto poi sarebbe rimesso (in un tempo di 60 giorni) alla possibilità di discussione e modifica in sede di conversione parlamentare. La terza mossa di Conte è stata quella di far trapelare la tesi secondo cui sarebbe stata l'Europa, Berlino in testa, a chiedergli di agire così. Secondo La Stampa, Conte starebbe «eseguendo le istruzioni ricevute a Bruxelles dalla Merkel». E sempre secondo il quotidiano torinese, Conte avrebbe mandato in giro il suo capo di gabinetto Alessandro Goracci, di fatto impegnato a fare una sorta di doposcuola ai parlamentari grillini riottosi, per recapitare il messaggio secondo cui il sostegno tedesco nei negoziati sul Recovery fund sarebbe stato legato alla condizione - scrive La Stampa - che il governo giallorosso «non si mettesse di traverso sulle nuove regole sul Mes». E ieri in effetti una frustata da Berlino è arrivata attraverso il ministro degli Affari europei, Michael Roth, e rivolta a tutti i riottosi, reali o potenziali. Il messaggio principale sarà certamente stato indirizzato a Varsavia e a Budapest, come lascia intendere il cenno al tema controverso dello Stato di diritto, ma non c'è dubbio sul fatto che qualcuno a Roma lo abbia messo sotto il naso al resto della maggioranza: «A luglio ci siano trovati d'accordo su un sostanzioso piano di Recovery e tutti i Paesi membri si sono impegnati sullo Stato di diritto come valore essenziale per l'Unione. Sarebbe irresponsabile ritardare ulteriormente questo sostegno essenziale per i nostri cittadini». Insomma, si sovrappongono più piani. Un Conte fragile e paralizzato, sotto attacco dei suoi partner, gioca la carta classica del vincolo esterno: ce lo chiede l'Europa. I suoi alleati lasciano che il premier sia indebolito dalle circostanze e minacciano una resa dei conti dopo Natale e Capodanno, o comunque un minuto dopo l'approvazione della legge di bilancio. Oggi, intanto, il governo la passerà liscia sul Mes. Ieri pomeriggio, infatti, i capigruppo giallorossi hanno rappattumato una qualche intesa sulla risoluzione da mettere ai voti. Pericolo scampato per Conte, anche se non è da escludere che, tra Camera e Senato, entrino in circolo nuove tossine e veleni.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)