2022-12-17
Ode a una vita senza tirare indietro la gamba
Sinisa Mihajlovic, 1969-2022 (Getty Images)
Sinisa Mihajlovic aveva un pregio raro nell’ovattato mondo del calcio: difendeva le sue idee, specie quelle scomode come il nazionalismo serbo. Tanti trionfi con Stella Rossa, Lazio e Inter, poi una carriera da allenatore «duro». Si è spento a 53 anni per una leucemia. Non avrebbe gradito la retorica, o i giri di parole, Sinisa Mihajlovic. Uno che ha sempre vissuto e si è sempre comportato in modo diretto. Come i suoi calci di punizione, che si infilavano come saette sotto la traversa a 150 chilometri orari. Mihajlovic non tirava indietro la gamba, da giocatore come da allenatore; ci metteva sempre la faccia e non aveva il dono della diplomazia, anche quando doveva sfoderare il suo discusso nazionalismo serbo. Mihajlovic è morto ieri in una clinica romana a 53 anni, stroncato da una leucemia mieloide acuta, contro la quale ha combattuto dall’estate del 2019, quando dopo i dolori accusati giocando a padel, si sottopose a una serie di esami. Lui che era controllatissimo perché aveva perso il padre per un tumore ai polmoni. L’annuncio della morte del campione serbo è stato dato dalla famiglia con un comunicato: «La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic. Uomo unico professionista straordinario, disponibile e buono con tutti». I familiari proseguono ricordando che Sinisa «coraggiosamente ha lottato contro una orribile malattia» e ringraziano «i medici e le infermiere che lo hanno seguito in questi anni, con amore e rispetto. Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato». E dire che dieci giorni fa, l’ex giocatore di Sampdoria, Lazio e Inter aveva fatto capolino alla presentazione romana dell’autobiografia di Zdenek Zeman. È stata la sua ultima apparizione pubblica, un po’ smagrito, con l’ormai immancabile cappellino di lana sulla testa, ma sempre pronto alla battuta, con i suoi modi da finto duro. In campo era un duro vero e un grande trascinatore, capace di combattere fino all’ultimo secondo dell’ultimo minuto di recupero. La bacheca personale parla per lui. In carriera Mihajlovic ha conquistato una Coppa dei Campioni con la Stella Rossa nel 1990-91, una Coppa delle Coppe e una Coppa Uefa con la Lazio (nel 1998 e nel 1999); ha vinto tre scudetti jugoslavi, uno con il Vojvodina e due con la Stella Rossa, e due scudetti con la Lazio (1999-2000) e con l’Inter (2005-2006); ha vinto quattro Coppe Italia (due con la Lazio e due con l’Inter) e tre Supercoppe italiane. Come giocatore è stato un terzino sinistro (ma ha giocato anche centrale), di grande senso della posizione e forza fisica, con quel sinistro esplosivo che dava il meglio di sé nei tiri dalla distanza. In più, come si dice in gergo, faceva spogliatoio ed era un leader innato. Così non ha stupito nessuno la sua carriera da allenatore, con il soprannome di «Sergente», alla guida di club Sampdoria, Milan e Torino, per poi approdare tre anni fa al Bologna, dove ha vissuto le stagioni migliori, nonostante la malattia. La società rossoblù lo aveva esonerato a settembre, pur con molto dispiacere, dopo che il suo male si era ripresentato in primavera. A Bologna aveva stabilito un legame fortissimo con la città e con la tifoseria, che ne apprezzavano il carattere sanguigno e la capacità di passare la sua grinta ai giocatori. Per molte domeniche, Mihajlovic ha guidato la squadra dall’ospedale, con interminabili videochiamate negli spogliatoi. La malattia l’ha vissuta a viso aperto, con la famiglia attorno a lui e la squadra sempre informata di tutto. Aveva superato anche i rischi del Covid e delle sue difese immunitarie indebolite, e lo scorso anno si era sottoposto a un trapianto di midollo osseo negli Stati Uniti. La scelta di non provare neppure a nascondere la malattia, in questi tre anni, ha fatto di Mihajlovic un nuovo combattente, perennemente sotto i riflettori dei media e dei social della sua famiglia. Prima lottava su ogni pallone in mezzo al campo, poi urlava dalla panchina come un ossesso quando i suoi perdevano una palla stupida, infine ha esibito senza problemi il suo fisico indebolito quando c’è stato da far vedere che non intendeva piegarsi alla malattia. Ovviamente la reazione di ognuno di fronte al male e del tutto personale e legittima, ma non c’è dubbio che in questi lunghi mesi Sinisa sia stato di esempio e di sprone per tanti altri malati. I santini, però, non erano per lui, capace di dire cose scomode senza farsi tanti problemi. Specialmente in politica. Era un serbo convinto della Grande Serbia, riteneva che il suo paese fosse stato aggredito dagli Stati Uniti e dalla Nato con i famosi bombardamenti della primavera 1999. Aveva più di un’amicizia imbarazzante, che naturalmente non rinnegava. Come quella con Zeljko Raznatovic, meglio noto come il Comandante Arkan delle milizie serbe. I due si conobbero quando Mihajlovic giocava nella Stella Rossa e presero a frequentarsi con regolarità. Quando Arkan morì, fece scalpore il necrologio dell’amico Sinisa per il capo delle famose Tigri. A novembre 2020, intervistato da Repubblica, l’ex allenatore del Bologna chiarì la faccenda: «Pubblicai il famoso necrologio che mi ha attirato tante critiche per il mio amico Zeljko, non per il comandante Arkan, capo delle Tigri. Non condividerò mai quel che ha fatto, e ha fatto cose orrende. Ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, di quel che sono stato. Altrimenti sarei un ipocrita». Ecco, in queste parole c’è molto di Mihajlovic e della sua paura di passare, anche per sbaglio, per ipocrita. A marzo 2009, in una chiacchierata col Corriere della Sera, aveva parlato anche dell’ex presidente Slobodan Milosevic, giudicato come criminale di guerra. E la mise giù alla sua maniera: «So dei crimini attribuiti a Milosevic, ma nel momento in cui la Serbia viene attaccata, io difendo il mio popolo e chi lo rappresenta. Ci ho parlato tre o quattro volte, con Milosevic. Aveva una mia maglietta della Stella Rossa di Belgrado e mi diceva: “Sinisa, se tutti i serbi fossero come te ci sarebbero meno problemi in questa terra”». Adesso che Mihajlovic non c’è più, su questa terra restano i problemi. Tra i quali tocca ricordare l’insostenibile inconsistenza furbastra di quei calciatori che sanno sempre dire la banalità giusta.