2023-12-20
«Serve buon senso, basta con gli obblighi»
Francesco Vaia (Imagoeconomica)
Il direttore della prevenzione al ministero della Salute Francesco Vaia: «Reparti e pronto soccorso non sono affatto saturi, le restrizioni del passato non torneranno. I tamponi ai pazienti sono utili per capire da cosa sono affetti e offrire loro la cura più adeguata». «Questo è un momento in cui c’è bisogno di fare un po’ di chiarezza e di non spaventare le persone». Sono parole di Francesco Vaia, medico celebre e autorevole già al vertice dello Spallanzani, attualmente direttore generale della Prevenzione al ministero della Salute. Con lui abbiamo parlato degli allarmi sul ritorno del Covid che negli ultimi tempi proliferano sui giornali e in televisione.Professore, da qualche giorno sta tornando a salire la tensione riguardo al virus. Abbiamo letto anche di una circolare del ministero della Salute che ripristina i tamponi per chi accede alle strutture sanitarie. In alcune Regioni sono tornate pure le mascherine… La sensazione è che si torni un po’ a battere sugli sgradevoli tasti della paura…«Partiamo anzitutto dai numeri. Spesso si comunicano variazioni percentuali, ma questo può essere fuorviante. Faccio un esempio: se dico che i casi sono aumentati del 50% questo è vero sia se sono passati da 10.000 a 15.000 sia se sono aumentati da 100.000 a 150.000. Ma nel primo caso abbiamo 5.000 casi in più nel secondo 50.000. Se guardiamo ai numeri assoluti - e soprattutto a quelli più rilevanti come il numero dei ricoveri di persone con un tampone positivo - vediamo come siamo a livelli chiaramente più bassi rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e ovviamente non paragonabili a quelli delle fasi critiche della pandemia».E qual è la situazione delle strutture sanitarie?«Gli ospedali e i pronto soccorso non sono affatto saturati dalle persone positive al tampone che attualmente, ultimi dati della settimana scorsa, occupano poco più del il 10% dei posti letto in area medica e circa il 2,7 di quelli delle terapie intensive. La sensazione è che il virus del Covid si stia progressivamente inserendo tra i virus respiratori che circolano nella stagione invernale. L’ultimo rapporto del sistema Respivirnet ci dice che - in un campione di pazienti con malattia respiratoria acuta assistiti dai medici di medicina generale - il 12,5% era positivo per virus influenzali, il 14,1% per Sars-CoV-2 il 9,8% per virus respiratorio sinciziale e più della metà per altri virus».In un’altra conversazione che abbiamo avuto lei ha citato gli «strilloni del Covid». In effetti queste figure stanno tornando a imperversare. Giorni fa il presidente di una importante società di medicina invitava a mantenere le distanze dai nonni durante le feste di Natale, e non è il solo. Non le pare esagerato?«Come sapete, abbiamo eliminato l’obbligo dell’isolamento e l’obbligo del vaccino, perché puntiamo molto sulla responsabilità. Perché l’obbligo non funziona. Mi fa sorridere quando si dice che il ministero della Salute fa poco per la vaccinazione perché i tassi di vaccinazione sono inferiori rispetto agli anni precedenti: si tratta di un falso storico, perché se io sono obbligato a fare il vaccino perché c’è il green pass, perché altrimenti non posso prendere il treno e non posso andare al cinema e mi è vietata la socialità, è evidente che i livelli di copertura vaccinale crescono. In un determinato periodo questo poteva avere un senso, ma nel lungo periodo si è rivelato controproducente, come emerge dalla diffusa «stanchezza vaccinale» tra i cittadini. Per questo oggi abbiamo fatto un’altra scelta, che è la scelta della responsabilità».Ovvero?«Abbiamo detto con chiarezza chi oggi dobbiamo proteggere, perché il soggetto che rischia la malattia seria la rischia con il Covid come con l’influenza, come peraltro con qualsiasi virus o batterio respiratorio». Allora qual è l’identikit della persona a rischio, secondo lei?«È la persona molto anziana, la persona che ha altre comorbidità, che ha patologie croniche e cronico-degenerative, la persona che ha un rischio effettivo perché oncologica, perché immunodepressa. Per questa persona è opportuno utilizzare gli strumenti che abbiamo oggi, che sono più innovativi. Il Covid è stato una sorta di spartiacque tra l’oscurantismo e l’innovazione, che è stata prevalentemente un’innovazione farmacologica. Quando io vedo le persone per strada da sole con la mascherina sorrido e poi mi dico: le abbiamo spaventate!».Direi proprio di sì…«Naturalmente se ci troviamo con persone che rischiano, che sono fragili, che sono ricoverate in reparti ad alta intensità di cure, che sono anziane, eccetera, e io sono raffreddato o ho sintomi, il buonsenso deve dirmi che devo proteggere questa persona».Appunto, basta il buonsenso. Non servono i presidenti delle società di medicina pronti a dire che non dobbiamo abbracciare i nonni… «Infatti, non ne abbiamo bisogno e forse non c’è neanche bisogno che lo dica Vaia. Questo lo dice il buonsenso, perché se sono una persona di buon senso e sono raffreddato o malato, se ho febbre, non esco di casa. Anche se c’è un qualsiasi tipo di sintomatologia simil-influenzale evito di contagiare gli altri e se devo proprio incontrare qualcuno utilizzo la mascherina. Ma da qui a pensare di mettere la mascherina agli italiani francamente…».Insomma il suo messaggio è: se non state bene ve ne state in casa finché non finiscono i sintomi.«Sì, assolutamente. Ma chi è la persona che sta male e va a scuola o al lavoro? Se sta male o è sintomatica non esce, resta a casa. Ma la persona che non è sintomatica, che non sta male, perché deve stare a casa?».Già…«Quello che volevo sottolineare è che bisogna dare un’altra chiave di lettura a questo paese: non si può dire che i cittadini italiani sono maturi se fanno certe cose e arrogarsi il diritto di dire che non sono maturi quando non fanno quello che gli viene detto. I cittadini vengono da tre anni e mezzo di una dura battaglia che ormai è alle nostre spalle. Adesso bisogna cercare di non farla tornare più, ma non con strumenti antichi. Il fascione, che poi è il progenitore della mascherina, esisteva già ai tempi della peste, come anche l’isolamento. Tra l’altro dobbiamo ricordare che alcuni paesi, come la Cina, che hanno utilizzato misure restrittive anche oltre il tempo dei lockdown, non hanno poi ottenuto grandi risultati. Certe misure vanno utilizzate in determinati momenti e poi bisogna superarle. Noi le abbiamo superate e io non credo francamente che torneremo indietro».Torniamo alla circolare del ministero sui tamponi. «Va bene, torniamoci. Abbiamo semplicemente ribadito alle Regioni che è opportuno, soprattutto nell’ambito dei presidi ospedalieri, definire esattamente da cosa sia affetta la persona che arriva. Se io ho una sintomatologia respiratoria non è detto che abbia il Covid, o magari scopro per caso di avere anche il Covid, ma avevo comunque un’altra malattia, un altro virus o un batterio. Questo è opportuno anche per rendere appropriata la terapia, perché parliamo tanto, e giustamente, di lotta all’antibiotico-resistenza e quindi bisogna lavorare in quella direzione. In base alla nostra circolare, chi viene in ospedale non deve necessariamente fare il tampone. Se vai in pronto soccorso e hai sintomi respiratori, allora fai il tampone, altrimenti non devi farlo».Sembra però che anche fuori dagli ospedali ci siano ancora adesso persone con sintomi che il più delle volte sono quelli di un raffreddore o di un’influenza le quali corrono a farsi il tampone per vedere se è Covid. Ma che senso ha?«Anni fa - ero ancora il direttore dello Spallanzani - dissi che bisognava fare anche in Italia come avveniva negli Stati Uniti, in cui si faceva autonomamente il tampone, magari a casa, e poi sulla base del senso di responsabilità si comunicava l’eventuale positività alle persone frequentate nei due giorni precedenti o nei tre giorni successivi rispetto all’insorgenza della sintomatologia, quando cioè si può essere maggiormente contagiosi. Si aiutava il contact tracing da cittadini, senza alcun obbligo. Non si faceva il tampone solamente per contarsi: si faceva il tampone solamente quando la persona era sintomatica o per motivi medico legali. I Cdc americani dicevano allora che solamente in quei cinque giorni si poteva essere contagiosi, dopodiché si usciva da casa. Noi ci abbiamo messo tanto tempo, poi finalmente abbiamo detto no all’isolamento. È impensabile ora tornare indietro. Francamente non c’è bisogno di allarmismo, ma di attenzione, come sempre. È giusto trascorrere queste vacanze in serenità». Che senso ha allora insistere ancora così tanto sul vaccino e sugli open day? Dobbiamo arrivare alla ventesima dose?«Le spiego il senso: le persone fragili è opportuno che si proteggano con il vaccino. Allora se c’è stata una difficoltà oggettiva nell’offerta vaccinale, dobbiamo superarla. L’open day non va visto come una imposizione, ma come un’offerta di prossimità. Se io voglio e scelgo di sottopormi alla vaccinazione devo essere in grado di poterla fare subito, senza perdere tempo. Quindi l’open day è una offerta che la Regione dà al cittadino che si vuole vaccinare. Questa è una logica diversa da quella di prima: non deve richiamare il passato. Deve esserci, ribadisco, una sanità di prossimità: io istituzione devo essere sempre più vicino al cittadino. Chi vuole deve poter fare il vaccino».Certo. L’importante è anche che chi non vuole non sia obbligato a farlo.
Antonio Tajani (Ansa)
Alla Triennale di Milano, Azione Contro la Fame ha presentato la Mappa delle emergenze alimentari del mondo, un report che fotografa le crisi più gravi del pianeta. Il ministro Tajani: «Italia in prima linea per garantire il diritto al cibo».
Durante le Giornate Contro la Fame, promosse da Azione Contro la Fame e inaugurate questa mattina alla Triennale di Milano, è stato presentato il report Mappa delle 10 (+3) principali emergenze alimentari globali, un documento che fotografa la drammatica realtà di milioni di persone colpite da fame e malnutrizione in tutto il mondo.
All’evento è intervenuto, con un messaggio, il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha espresso «gratitudine per il lavoro prezioso svolto da Azione Contro la Fame nelle aree più colpite dalle emergenze alimentari». Il ministro ha ricordato come l’Italia sia «in prima linea nell’assistenza umanitaria», citando gli interventi a Gaza, dove dall’inizio del conflitto sono state inviate 2400 tonnellate di aiuti e trasferiti in Italia duecento bambini per ricevere cure mediche.
Tajani ha definito il messaggio «Fermare la fame è possibile» un obiettivo cruciale, sottolineando che l’insicurezza alimentare «ha raggiunto livelli senza precedenti a causa delle guerre, degli eventi meteorologici estremi, della desertificazione e dell’erosione del suolo». Ha inoltre ricordato che l’Italia è il primo Paese europeo ad aver avviato ricerche per creare piante più resistenti alla siccità e a sostenere progetti di rigenerazione agricola nei Paesi desertici. «Nessuna esitazione nello sforzo per costruire un futuro in cui il diritto al cibo sia garantito a tutti», ha concluso.
Il report elaborato da Azione Contro la Fame, che integra i dati dei rapporti SOFI 2025 e GRFC 2025, individua i dieci Paesi con il maggior numero di persone in condizione di insicurezza alimentare acuta: Nigeria, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Bangladesh, Etiopia, Yemen, Afghanistan, Pakistan, Myanmar e Siria. In questi Paesi si concentra oltre il 65% della fame acuta globale, pari a 196 milioni di persone. A questi si aggiungono tre contesti considerati a rischio carestia – Gaza, Sud Sudan e Haiti – dove la situazione raggiunge i livelli massimi di gravità.
Dal documento emergono alcuni elementi comuni: la fame si concentra in un numero limitato di Paesi ma cresce in intensità; le cause principali restano i conflitti armati, le crisi climatiche, gli shock economici e la fragilità istituzionale. A complicare il quadro contribuiscono le difficoltà di accesso umanitario e gli attacchi agli operatori, che ostacolano la distribuzione di aiuti salvavita. Nei tredici contesti analizzati, quasi 30 milioni di bambini soffrono di malnutrizione acuta, di cui 8,5 milioni in forma grave.
«Non è il momento di tagliare i finanziamenti: servono risorse e accesso umanitario per non interrompere gli interventi salvavita», ha dichiarato Simone Garroni, direttore di Azione Contro la Fame Italia.
Il report raccoglie anche storie dal campo, come quella di Zuwaira Shehu, madre nigeriana che ha perso cinque figli per mancanza di cibo e cure, o la testimonianza di un residente sfollato nel nord di Gaza, che racconta la perdita della propria casa e dei propri cari.
Nel mese di novembre 2025, alla Camera dei Deputati, sarà presentato l’Atlante della Fame in Italia, realizzato con Percorsi di Secondo Welfare e Istat, che analizzerà l’insicurezza alimentare nel nostro Paese: oltre 1,5 milioni di persone hanno vissuto momenti di scarsità di risorse e quasi 5 milioni non hanno accesso a un’alimentazione adeguata.
Dal 16 ottobre al 31 dicembre partirà infine una campagna nazionale con testimonial come Miriam Candurro, Germano Lanzoni e Giorgio Pasotti, diffusa sui principali media, per sensibilizzare l’opinione pubblica e sostenere la mobilitazione di aziende, fondazioni e cittadini contro la fame nel mondo.
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Giancarlo Giorgetti (Ansa)