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Parla il professor Francesco Vaia e smonta la campagna ansiogena sul monkeypox. E fornisce qualche indicazione anche sulla commissione covid.
Parla il professor Francesco Vaia e smonta la campagna ansiogena sul monkeypox. E fornisce qualche indicazione anche sulla commissione covid.
Il professor Francesco Vaia è direttore generale della Prevenzione sanitaria del ministero della Salute. Era a capo dello Spallanzani quando, nel 2022, si iniziò a parlare di vaiolo delle scimmie e la struttura romana fu chiamata a occuparsene dalle autorità italiane. Lo abbiamo intervistato per il nuovo episodio di TV Verità, che sarà disponibile sulla nostra piattaforma online a partire da stamattina alle 10. Di seguito pubblichiamo un estratto della conversazione.
Professore, cominciamo dal grande tormentone estivo: il vaiolo delle scimmie. Ci risiamo con l’emergenza sanitaria mondiale? Ce n’era bisogno?
«C’è qualche collega che mi chiama il direttore della rassicurazione, allora vorrei rassicurare. Quello che accade nel mondo, per carità, ci interessa, ci deve interessare, ci deve riguardare... Però in questo caso stiamo parlando di una malattia che prevalentemente, localizzata in Africa, in modo particolare nel Congo. L’Oms ha una visione mondiale, quindi sta guardando cosa sta succedendo in Africa, ma io guardo dall’Italia».
E dall’Italia che si vede?
«Guardi, nel 2022 ero il direttore generale dello Spallanzani, abbiamo guidato benissimo la campagna contro il monkeypox, che si chiama così anche se le scimmiette, poverine, non c’entrano niente con questa malattia, che come sappiamo tutti è trasmessa prevalentemente dai roditori. Questa malattia si è diffusa prevalentemente in paesi poveri, dove ahimè anche l’Hiv è molto diffuso e quindi è alto il tasso di depressione immunitaria. In Italia secondo me non c’è alcun allarme secondo me: siamo pronti ad affrontare qualsiasi cosa. Abbiamo anche i vaccini per le persone che potrebbero averne bisogno».
E quali sarebbero?
«Sono quelle che possono essere più esposte: gli immunodepressi, le donne che vendono sesso e coloro che praticano il sesso non protetto con numerosi partner. Questa è la dimensione del caso, guardando dal versante italiano».
Lei prima ha citato i suoi colleghi che, mi viene da dire, sono una parte del problema. Molti di loro sono subito corsi a dare ragione all’Oms, sembra non vedessero l’ora di tornare sotto i riflettori per una nuova emergenza. Eppure il Covid avrebbe dovuto insegnare almeno la prudenza.
«Assolutamente sì. Per questo vorrei tornare su quel che accennavo prima a proposito del monkeypox. Ricordavo che due anni fa, dallo Spallanzani, abbiamo guidato la campagna contro il virus facendo quel che serviva. E quel che serve, oggi, non è alzare i toni o correre a somministrare o inoculare vaccini a tutti. Occorre piuttosto osservare. Due anni fa, senza drammatizzare, abbiamo fatto il nostro dovere. Non è successo nulla in Italia. Abbiamo fatto le campagne che andavano fatte da un punto di vista della prevenzione. Abbiamo attenzionato una serie di persone che potevano essere più esposte... Abbiamo fatto quello che serviva».
Lo avete fatto senza particolari drammi. Eppure adesso si parla di un caso di monkeypox in Svezia ed esplode di nuovo l’ansia.
«Non si può prendere un caso in Svezia e dire che c’è un allarme in Europa. Diverso è dire che dobbiamo stare attenti sempre e comunque, perché quello che accade in Africa o in Sud America in un mondo globalizzato ci interessa. Ma perché fare allarmismi? Dobbiamo fare prevenzione ma non allarmare».
Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore dell’Oms, ha già invitato via social tutti i Paesi a rafforzare la sorveglianza, sta già utilizzando toni ansiogeni. Lo vogliamo dire che l’Oms è parte molto rilevante del problema?
«Guardi, chiunque abbia un po’ di buonsenso non può non notare che l’Oms ha commesso un sacco di errori negli ultimi anni. C’è poi un altro tema, che in parte mi riguarda perché il presidente Giorgia Meloni, e di questo ancora la ringrazio, tempo fa mi aveva indicato come rappresentante del nostro Paese all’Oms. Secondo me in quel luogo la nostra voce autorevole manca. Non parlo tanto della mia voce: diciamo di una voce del nostro Paese all’interno. Se ci fosse, forse un po’ di cose cambierebbero».
Di certo dovrebbe cambiare questa tendenza a terrorizzare le masse.
«Il primo errore che fa Tedros è quello di non dire con chiarezza: abbiamo un problema circoscritto, e noi Stati membri osserviamo, con lucidità e tranquillità. Poi mi viene da ripensare al Covid, attorno al quale si sono combattute tante battaglie geopolitiche ed economiche, e io ho visto l’Oms schierata in queste battaglie. E questo è stato un gravissimo errore. L’Oms deve essere libera. Non deve dare assolutamente la sensazione di avere interessi particolari. Per come è oggi, l’Oms a mio giudizio va sicuramente rivista e strutturata, e sarebbe importante che il nostro Paese e il nostro governo si interessassero a fondo della questione».
Un tempo l’Oms non aveva questa ossessione del controllo sanitario che in qualche modo è anche politico.
«In effetti questo è abbastanza spaventoso, perché poi abbiamo visto che danni abbia prodotto con il Covid, anche e soprattutto per le persone comuni. Però io guardo a noi, all’Italia: dobbiamo avere una linea retta, dobbiamo essere coerenti. Rispetto all’Oms, abbiamo detto che siamo contrari alla predisposizione di un piano pandemico globale. Abbiamo detto che siamo contrari ai joint procurement europei, che impediranno le contrattazioni tra Stati e aziende sanitarie. Se noi come Paese abbiamo capito queste cose e abbiamo preso una posizione, forse un’azione un po’ più incisiva da parte nostra dentro l’Oms sarebbe necessaria. È necessaria. Dobbiamo occuparci con molta attenzione di questo organismo che è internazionale, ma che pretende di governare gli Stati. Questo è il vero problema. Perché se noi non siamo autorevoli, gli altri ci soverchiano. Abbiamo le capacità per non essere soverchiati: usiamole».
Nel libro «ricomparso» il neo dem suggerisce «una discussione seria sulle lezioni della pandemia». È proprio quello che invochiamo da tempo. Peccato che lui e i suoi sodali facciano esattamente il contrario: insabbiano.
Sfogliando con grande attenzione Perché guariremo - il libro che Roberto Speranza ha dato alle stampe nel 2020 per Feltrinelli, salvo poi censurarselo da solo e ora ripubblicato dall’editore Solferino con capitoli integrativi - troviamo un passaggio persino condivisibile. Sono poche righe verso la fine in cui l’ex ministro della Salute afferma quanto segue: «È un vero peccato», scrive, «che, anche fuori dall’emergenza, non si riesca a impostare una discussione seria sul significato e sulle lezioni degli anni terribili della pandemia. Dovremmo istituire gruppi di studio che possano approfondire e analizzare punti di forza e di debolezza del nostro Servizio sanitario nazionale fuori da ogni polemica strumentale. Questo sarebbe degno di un grande Paese com'è l’Italia e sarebbe un modo assai migliore di impiegare il tempo prezioso dei parlamentari: per il bene di tutti».
Siamo totalmente d’accordo. Sarebbe ora, quattro anni dopo l’esplosione del Covid, di mettere nero su bianco alcune verità, così che si possa creare una memoria condivisa della pandemia vagamente credibile e si riesca finalmente a cancellare alcuni fantasmi del passato. Potremmo, alla luce delle ultime risultanze scientifiche, chiarire che le mascherine obbligatorie non servono o sono addirittura dannose, che i lockdown hanno prodotto effetti disastrosi, che il green pass è stata una vessazione inutile e feroce, che i vaccini hanno effetti avversi e chi li ha subiti merita un risarcimento e via di questo passo.
Di tutto questo dovrebbero occuparsi anche gli scienziati, magari prendendo in considerazione i dati che la Commissione scientifica indipendente di Alberto Donzelli e altri raccoglie da anni. Si potrebbero riunire luminari di ogni orientamento e convinzione, a partire dall’autorevole Francesco Vaia, e si potrebbe aprire - forti delle certezze accumulate - addirittura a figure come Matteo Bassetti. Del resto le evidenze sul Covid sono talmente tante che non si deve aver timore di nulla. Dunque Speranza lancia una proposta interessante.
Ci sono tuttavia almeno due elementi lievemente contraddittori nel suo discorso che svelano la sua cattiva fede. Speranza, da ministro, avrebbe dovuto provvedere a organizzare un accurato riesame dei provvedimenti presi sul Covid. Ne aveva il potere e la possibilità, e soprattutto ne avrebbe avuto il dovere, visto che i piani pandemici prevedono che sia svolta una regolare riflessione sulle azioni istituzionali. Solo che i piani pandemici non erano aggiornati né operativi, anche se Speranza si è sempre rifiutato di ammetterlo, e soprattutto i governi di Conte e Draghi non hanno mai avuto la volontà di sottoporre al vaglio delle critica le proprie decisioni, per timore di dover ammettere fallimenti.
Al contrario, entrambi gli esecutivi hanno fatto di tutto per silenziare le contestazioni e reprimere il dissenso e Speranza è stato il primo a rifiutarsi addirittura di rispondere a domande vere nel corso di interviste vere. Ergo, che venga ora a chiedere un confronto serio è ridicolo, oltre che offensivo.
Ma c’è di più. Se il caro Roberto volesse davvero un confronto aperto e responsabile, avrebbe a disposizione una ottima occasione, ovvero la commissione di inchiesta sul Covid. Lui e i suoi compagni del Pd potrebbero mostrarsi felici di collaborare alla creazione di tale organismo, potrebbero offrire un contributo costruttivo o financo migliorativo. Invece che fanno? Lo sappiamo: dal primo giorno brigano per ostacolare il processo. Non lo diciamo noi, beninteso: lo hanno detto e rivendicato loro. E lo rivendica lo stesso Speranza.
«Il 6 luglio 2023», scrive nel libro, «viene approvata alla Camera l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del virus Sars-CoV-2, e sulle misure adottate per affrontarla. L’ha proposta un deputato di Fratelli d’Italia noto alle cronache per una fotografia in cui sfoggia una fascia nazista con la svastica. La Commissione ha un unico evidente scopo: colpire i governi Conte 2 e Draghi, e in modo particolare provare a far male ad alcuni avversari politici, a partire proprio da me e da Giuseppe Conte. Credo molto nelle istituzioni e nel Parlamento», continua Speranza, «e sono sinceramente amareggiato nello scrivere parole così dure, ma questa è la pura e semplice verità. Lo dimostrano alcune scelte altrimenti inspiegabili, prima fra tutte quella di escludere dal perimetro del lavoro della Commissione le competenze delle Regioni. Come è noto a tutti, e a maggior ragione dovrebbe essere noto a chi è eletto in Parlamento, alle Regioni sono affidate dalla Costituzione funzioni essenziali in materia di sanità. Infatti, anche durante la pandemia, il ruolo delle Regioni nella gestione dell’emergenza è stato molto significativo. Eppure, magicamente, questa commissione potrà occuparsi di ciò che è avvenuto a Pechino o in Nuova Zelanda, ma non di ciò che è accaduto a Milano, a Napoli o a Palermo».
Strabiliante. Dopo aver dato del nazista a Galeazzo Bignami (che a differenza di lui non ha mai discriminato nessuno) Speranza cincischia sulle Regioni, ben sapendo che a livello regionale sono state organizzate commissioni di inchiesta e ci sono state indagini giudiziarie e soprattutto sapendo che tutte le misure restrittive dell’era Covid sono state orchestrate dai governi. Insomma, si aggrappa a ogni giustificazione pur di giustificare il rifiuto del confronto.
Non pago, nel libro insiste con le lagne. «Un altro punto che vale la pena evidenziare riguarda i vaccini anti Covid», scrive. «Nel mondo sono state somministrate oltre 13 miliardi di dosi. Eppure, tra i compiti della Commissione, ci sarà anche quello di verificare gli atti autorizzativi dell’Ema, l’agenzia europea dei medicinali. Un chiaro messaggio per ingraziarsi il mondo no vax. Sarà notevole vedere deputati e senatori cimentarsi con studi e ricerche di scienziati, tecnici ed esperti, tra i più bravi a livello internazionale, su farmaci che sono stati tra i più utilizzati nell’intero pianeta».
Interessante. Quindi i politici non sono in grado di capire gli studi? E allora sulla base di che cosa hanno parlato durante il Covid? O forse Speranza è in grado di comprendere gli studi in virtù del suo passato di assessore a Potenza? Per altro, volendo, capire gli studi non è difficile: basta applicarsi, ma capiamo che Roberto non si senta all’altezza. Purtroppo ci si sentiva quando toglieva il lavoro e la dignità a una fetta di italiani.
Attenti però, perché le sue doglianze non sono terminate. «È evidente», prosegue il nostro eroe, «che questa commissione non è uno strumento di chiarezza per dissipare le menzogne e i dubbi che hanno fatto male alla nostra convivenza. È un tentativo di schierare un plotone di esecuzione meramente politico. Per servire becere finalità di natura partitica, si prova a fare del Parlamento un vero e proprio tribunale politico che costruisca una verità di comodo, alternativa rispetto a quella dei fatti che è emersa in modo chiarissimo anche dai procedimenti giudiziari».
Le prova tutte, Speranza. Si nasconde dietro le uscite di Mattarella sulla commissione Covid, piange per le inchieste che lo hanno coinvolto, grida alla persecuzione. Ma se, come ripete mille volte nel suo libro, ha fatto sempre tutto bene, di che cosa dovrebbe aver timore? Di qualche domanda a cui rispondere in Parlamento? E se davvero brama una analisi onesta della gestione pandemica, perché da mesi e mesi evita ogni riflessione e si sottrae a ogni confronto? Forse teme di non uscirne poi così bene?
Non ci stupisce, per carità, il fatto che un politico cerchi di evitare la pubblica demolizione. E non ci sorprende nemmeno che Speranza abbia scelto il silenzio. Ma almeno che lo scegliesse fino in fondo. Vuole tacere? Ottimo, ma lo faccia sempre, evitando di parlare per incensarsi. Forse la scelta più giusta l’aveva fatta nel 2020, quando ritirò per vergogna il suo libro dagli scaffali.
«Questo è un momento in cui c’è bisogno di fare un po’ di chiarezza e di non spaventare le persone». Sono parole di Francesco Vaia, medico celebre e autorevole già al vertice dello Spallanzani, attualmente direttore generale della Prevenzione al ministero della Salute. Con lui abbiamo parlato degli allarmi sul ritorno del Covid che negli ultimi tempi proliferano sui giornali e in televisione.
Professore, da qualche giorno sta tornando a salire la tensione riguardo al virus. Abbiamo letto anche di una circolare del ministero della Salute che ripristina i tamponi per chi accede alle strutture sanitarie. In alcune Regioni sono tornate pure le mascherine… La sensazione è che si torni un po’ a battere sugli sgradevoli tasti della paura…
«Partiamo anzitutto dai numeri. Spesso si comunicano variazioni percentuali, ma questo può essere fuorviante. Faccio un esempio: se dico che i casi sono aumentati del 50% questo è vero sia se sono passati da 10.000 a 15.000 sia se sono aumentati da 100.000 a 150.000. Ma nel primo caso abbiamo 5.000 casi in più nel secondo 50.000. Se guardiamo ai numeri assoluti - e soprattutto a quelli più rilevanti come il numero dei ricoveri di persone con un tampone positivo - vediamo come siamo a livelli chiaramente più bassi rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e ovviamente non paragonabili a quelli delle fasi critiche della pandemia».
E qual è la situazione delle strutture sanitarie?
«Gli ospedali e i pronto soccorso non sono affatto saturati dalle persone positive al tampone che attualmente, ultimi dati della settimana scorsa, occupano poco più del il 10% dei posti letto in area medica e circa il 2,7 di quelli delle terapie intensive. La sensazione è che il virus del Covid si stia progressivamente inserendo tra i virus respiratori che circolano nella stagione invernale. L’ultimo rapporto del sistema Respivirnet ci dice che - in un campione di pazienti con malattia respiratoria acuta assistiti dai medici di medicina generale - il 12,5% era positivo per virus influenzali, il 14,1% per Sars-CoV-2 il 9,8% per virus respiratorio sinciziale e più della metà per altri virus».
In un’altra conversazione che abbiamo avuto lei ha citato gli «strilloni del Covid». In effetti queste figure stanno tornando a imperversare. Giorni fa il presidente di una importante società di medicina invitava a mantenere le distanze dai nonni durante le feste di Natale, e non è il solo. Non le pare esagerato?
«Come sapete, abbiamo eliminato l’obbligo dell’isolamento e l’obbligo del vaccino, perché puntiamo molto sulla responsabilità. Perché l’obbligo non funziona. Mi fa sorridere quando si dice che il ministero della Salute fa poco per la vaccinazione perché i tassi di vaccinazione sono inferiori rispetto agli anni precedenti: si tratta di un falso storico, perché se io sono obbligato a fare il vaccino perché c’è il green pass, perché altrimenti non posso prendere il treno e non posso andare al cinema e mi è vietata la socialità, è evidente che i livelli di copertura vaccinale crescono. In un determinato periodo questo poteva avere un senso, ma nel lungo periodo si è rivelato controproducente, come emerge dalla diffusa «stanchezza vaccinale» tra i cittadini. Per questo oggi abbiamo fatto un’altra scelta, che è la scelta della responsabilità».
Ovvero?
«Abbiamo detto con chiarezza chi oggi dobbiamo proteggere, perché il soggetto che rischia la malattia seria la rischia con il Covid come con l’influenza, come peraltro con qualsiasi virus o batterio respiratorio».
Allora qual è l’identikit della persona a rischio, secondo lei?
«È la persona molto anziana, la persona che ha altre comorbidità, che ha patologie croniche e cronico-degenerative, la persona che ha un rischio effettivo perché oncologica, perché immunodepressa. Per questa persona è opportuno utilizzare gli strumenti che abbiamo oggi, che sono più innovativi. Il Covid è stato una sorta di spartiacque tra l’oscurantismo e l’innovazione, che è stata prevalentemente un’innovazione farmacologica. Quando io vedo le persone per strada da sole con la mascherina sorrido e poi mi dico: le abbiamo spaventate!».
Direi proprio di sì…
«Naturalmente se ci troviamo con persone che rischiano, che sono fragili, che sono ricoverate in reparti ad alta intensità di cure, che sono anziane, eccetera, e io sono raffreddato o ho sintomi, il buonsenso deve dirmi che devo proteggere questa persona».
Appunto, basta il buonsenso. Non servono i presidenti delle società di medicina pronti a dire che non dobbiamo abbracciare i nonni…
«Infatti, non ne abbiamo bisogno e forse non c’è neanche bisogno che lo dica Vaia. Questo lo dice il buonsenso, perché se sono una persona di buon senso e sono raffreddato o malato, se ho febbre, non esco di casa. Anche se c’è un qualsiasi tipo di sintomatologia simil-influenzale evito di contagiare gli altri e se devo proprio incontrare qualcuno utilizzo la mascherina. Ma da qui a pensare di mettere la mascherina agli italiani francamente…».
Insomma il suo messaggio è: se non state bene ve ne state in casa finché non finiscono i sintomi.
«Sì, assolutamente. Ma chi è la persona che sta male e va a scuola o al lavoro? Se sta male o è sintomatica non esce, resta a casa. Ma la persona che non è sintomatica, che non sta male, perché deve stare a casa?».
Già…
«Quello che volevo sottolineare è che bisogna dare un’altra chiave di lettura a questo paese: non si può dire che i cittadini italiani sono maturi se fanno certe cose e arrogarsi il diritto di dire che non sono maturi quando non fanno quello che gli viene detto. I cittadini vengono da tre anni e mezzo di una dura battaglia che ormai è alle nostre spalle. Adesso bisogna cercare di non farla tornare più, ma non con strumenti antichi. Il fascione, che poi è il progenitore della mascherina, esisteva già ai tempi della peste, come anche l’isolamento. Tra l’altro dobbiamo ricordare che alcuni paesi, come la Cina, che hanno utilizzato misure restrittive anche oltre il tempo dei lockdown, non hanno poi ottenuto grandi risultati. Certe misure vanno utilizzate in determinati momenti e poi bisogna superarle. Noi le abbiamo superate e io non credo francamente che torneremo indietro».
Torniamo alla circolare del ministero sui tamponi.
«Va bene, torniamoci. Abbiamo semplicemente ribadito alle Regioni che è opportuno, soprattutto nell’ambito dei presidi ospedalieri, definire esattamente da cosa sia affetta la persona che arriva. Se io ho una sintomatologia respiratoria non è detto che abbia il Covid, o magari scopro per caso di avere anche il Covid, ma avevo comunque un’altra malattia, un altro virus o un batterio. Questo è opportuno anche per rendere appropriata la terapia, perché parliamo tanto, e giustamente, di lotta all’antibiotico-resistenza e quindi bisogna lavorare in quella direzione. In base alla nostra circolare, chi viene in ospedale non deve necessariamente fare il tampone. Se vai in pronto soccorso e hai sintomi respiratori, allora fai il tampone, altrimenti non devi farlo».
Sembra però che anche fuori dagli ospedali ci siano ancora adesso persone con sintomi che il più delle volte sono quelli di un raffreddore o di un’influenza le quali corrono a farsi il tampone per vedere se è Covid. Ma che senso ha?
«Anni fa - ero ancora il direttore dello Spallanzani - dissi che bisognava fare anche in Italia come avveniva negli Stati Uniti, in cui si faceva autonomamente il tampone, magari a casa, e poi sulla base del senso di responsabilità si comunicava l’eventuale positività alle persone frequentate nei due giorni precedenti o nei tre giorni successivi rispetto all’insorgenza della sintomatologia, quando cioè si può essere maggiormente contagiosi. Si aiutava il contact tracing da cittadini, senza alcun obbligo. Non si faceva il tampone solamente per contarsi: si faceva il tampone solamente quando la persona era sintomatica o per motivi medico legali. I Cdc americani dicevano allora che solamente in quei cinque giorni si poteva essere contagiosi, dopodiché si usciva da casa. Noi ci abbiamo messo tanto tempo, poi finalmente abbiamo detto no all’isolamento. È impensabile ora tornare indietro. Francamente non c’è bisogno di allarmismo, ma di attenzione, come sempre. È giusto trascorrere queste vacanze in serenità».
Che senso ha allora insistere ancora così tanto sul vaccino e sugli open day? Dobbiamo arrivare alla ventesima dose?
«Le spiego il senso: le persone fragili è opportuno che si proteggano con il vaccino. Allora se c’è stata una difficoltà oggettiva nell’offerta vaccinale, dobbiamo superarla. L’open day non va visto come una imposizione, ma come un’offerta di prossimità. Se io voglio e scelgo di sottopormi alla vaccinazione devo essere in grado di poterla fare subito, senza perdere tempo. Quindi l’open day è una offerta che la Regione dà al cittadino che si vuole vaccinare. Questa è una logica diversa da quella di prima: non deve richiamare il passato. Deve esserci, ribadisco, una sanità di prossimità: io istituzione devo essere sempre più vicino al cittadino. Chi vuole deve poter fare il vaccino».
Certo. L’importante è anche che chi non vuole non sia obbligato a farlo.
Ci siamo: è quasi metà settembre, l’abbronzatura comincia a farsi sbiadita, le temperature - «ebollizione globale» permettendo - tra poco cominceranno a scendere e tornano anche gel e mascherine a scuola. I protocolli Covid, in spregio al buon senso e anche al senso del ridicolo, paiono ormai diventati un fenomeno stagionale. E a farne le spese sono i più giovani, con tutte le conseguenze in termini di insicurezza e ansia che sono ben documentati dagli esperti. Dalla prossima settimana circa 7 milioni di studenti italiani rimetteranno piede in aula.
La campanella suonerà per la prima volta lunedì 11 settembre in Piemonte, Trentino e Valle d’Aosta; in Lombardia i ragazzi rientreranno in classe il giorno successivo, il 12 settembre. Il 13 settembre sarà il turno degli studenti di Abruzzo, Basilicata, Campania, Friuli Venezia Giulia, Marche, Sicilia, Umbria e Veneto. Il ritorno tra i banchi per gli studenti della Calabria, Liguria, Molise, Puglia e Sardegna è fissato al 14 settembre. Concludono l’inizio dell’anno scolastico l’Emilia Romagna, la Toscana e il Lazio, il 15 settembre.
Per ora dal ministero non giungono disposizioni imperative (in settimana ci sarà un incontro per fare il punto della situazione), ma il fronte del Covid a oltranza preme e lo spettro delle mascherine incombe sull’annata che sta per iniziare. «Evitiamo allarmismi», ammonisce il direttore generale della programmazione del ministero della Salute, Francesco Vaia, «noi adesso abbiamo gli strumenti per la tutela e in questo momento sono sufficienti». Pare tuttavia poco rassicurante il fatto che i presidi già annuncino la distribuzione di mascherine e del gel disinfettante, magari cogliendo l’occasione per liberarsi di scorte troppo ingenti, come fosse una teglia di pasta al forno in più da regalare ai vicini.
«L’indicazione è quella di evitare gli assembramenti degli alunni, soprattutto in questi primi giorni di scuola», annuncia Mario Rusconi dell’Associazione presidi, «in molte scuole poi a chi lo chiederà distribuiremo le mascherine utilizzando le tantissime scorte che ci furono date durante la fase critica della pandemia. Stessa cosa avverrà con il gel».
Al momento comunque non esistono misure restrittive anti Covid nelle scuole e dunque non vi sono indicazioni specifiche sui comportamenti da adottare ma in una circolare il ministero della Salute raccomanda, comunque, di osservare le stesse precauzioni valide per prevenire la trasmissione della gran parte delle infezioni respiratorie: indossare la mascherina, se si è sintomatici, rimanere a casa fino al termine dei sintomi, lavare spesso le mani, evitare il contatto con persone fragili. Tra «se avete la febbre state (come sempre) a casa» e «liberiamoci dei fondi di magazzino della pandemia», tuttavia, c’è una distanza notevole, che sarebbe bene non dover colmare.

