
Il capo di Azione Carlo Calenda: «Campania apice del trasformismo: la sinistra si crede così superiore da divenire immorale. D’Alema in Cina? Sui “poveri comunisti” aveva ragione il Cav»..Carlo Calenda, leader di Azione, cosa ha pensato quando ha visto l’immagine di Massimo D’Alema alla «parata della vittoria» di Xi Jinping?«C’è qualcosa di repellente nel fatto che un ex presidente del Consiglio vada ad omaggiare una serie di dittatori, mediamente piuttosto efferati, come i leader di Corea del Nord, Russia e Cina». Non bisogna avere rapporti con la Cina? «Certo che bisogna parlare con la Cina: ma quella era una parata bellica contro l’Occidente, mica una visita di Stato. E poi in questa vicenda c’è anche un aspetto culturale che merita di essere approfondito». Quale? «Ricordo quando anni fa D’Alema disse: “Abbiamo vinto noi (comunisti) perché la Cina dominerà il mondo”. Il suo è una sorta di revanscismo anticapitalista, che ogni tanto rispunta fuori. Peccato che D’Alema ha sempre mostrato un grande fascino per il denaro e per gli affari». Non solo innamoramento cinese, ma anche incoerenza politica?«D’Alema nella sua carriera è stato coerente solo con il proprio ego. Oggi dalla Cina parla di pace, e nello stesso tempo fa l’intermediario per le armi con il Sud America». Però ha ancora un’indiscussa autorevolezza nel centrosinistra. «Bisogna riconoscere che D’Alema conta ancora molto, nei rapporti tra Partito democratico e Movimento 5 stelle. E forse è solo la punta dell’iceberg: il punto è che c’è un pezzo di sinistra, ancora oggi, profondamente antioccidentale. Quelli che, come diceva Berlusconi, alla fine rimangono dei poveri comunisti». Qualcuno pensa che il vero partito filo-Cina, in Italia, siano i 5 stelle. «Giuseppe Conte in realtà non ha alcuna impronta valoriale: un giorno è filo-Cina, un altro filo-Trump, un altro ancora filo-Putin, a seconda della convenienza. Certamente il legame tra Cina e 5 stelle è fortissimo: avevano un viceministro al Commercio estero che faceva esplicitamente gli interessi di Pechino». Non sono più i tempi per avere indecisioni sul posizionamento italiano sul piano internazionale? «Certo che no. Quando si concluse l’esperienza dell’unità nazionale, De Gasperi escluse i comunisti dal governo, poiché considerati quinta colonna dell’Urss. Quella scelta ha collocato l’Italia nell’ambito occidentale, determinandone la prosperità. Oggi stiamo vivendo una stagione simile, in cui non si possono avere tentennamenti. Su questo piano, la sinistra odierna sta avendo atteggiamenti pericolosi. C’è da fare una scelta di campo, e stanno scegliendo il campo sbagliato». Matteo Ricci ha detto che il problema non è D’Alema in Cina, ma l’Europa assediata dai sovranisti. «Ricci ha una duttilità politica assoluta. Non è mai stato un riformista: è stato solo ciò che occorreva essere per avere una poltrona garantita. E per avere la poltrona di candidato governatore delle Marche, doveva dire esattamente questo: il problema non è D’Alema in Cina, il problema sono semmai i termovalorizzatori. Esattamente come ha fatto Giani in Toscana, si fa imporre accordi con i 5 stelle che contraddicono tutta la loro storia». Non è una politica lungimirante, elezioni a parte?«No, salvano la poltrona scavandosi la fossa. Questa sinistra non sarà più una sinistra di governo. Non può esserlo, se lo slogan principe è “requisiamo le case sfitte”. Peggio: questa sinistra rappresenterà la sconfitta della storia del Partito democratico, che pure qualche cultura di governo ce l’ha, con Gori, Delbono, Decaro. Si fa presto a dire “vogliamo un altro Pd” e nel frattempo ingoiare tutto». Quando ha realizzato che lei e il Partito democratico eravate incompatibili?«Nel 2018 entro nel Pd per contrastare i 5 stelle. Quando cade il governo gialloverde, io tutto mi immagino fuorché un governo Pd-Conte. Quando però ho visto l’incubo materializzarsi, ho lasciato il Pd pensando che metà del partito si sarebbe rifiutata di prestarsi a questo trasformismo. Invece non s’è mossa una virgola, perché la sinistra si crede così tanto superiore moralmente, da diventare immorale. E tutto con una nonchalance sconcertante. Loro digeriscono tutto, convinti di essere gli eroi che ci difendono dai “fascisti”». In Campania siamo al cortocircuito. Reggerà l’asse Schlein-Fico-De Luca?«La Campania è l’apice del trasformismo. Schlein ha ceduto su tutti i fronti, forse perché il suo unico obiettivo è diventare la candidata premier di una coalizione “fritto misto”. Ma alla fine Giuseppe Conte la travolgerà politicamente, perché è più abile di lei. Al di là di questo, rendiamoci conto che negli ultimi dieci anni alle regionali ha votato mediamente il 45% degli aventi diritto, l’elettorato di opinione non esiste più, è solo una questione di truppe cammellate e di voto organizzato».Quindi?«De Luca odia Manfredi, che sostiene Fico, che odia De Luca. Impapocchiano un accordo inguardabile, visto che De Luca impazzirà a vedere Fico che taglia nastri al suo posto. Vinceranno, ma durerà poco. Certamente non arriveranno, con questi metodi, al governo del Paese».Eppure, Matteo Renzi, sulle alleanze, aderisce a una lettura diversa dalla sua. «Matteo Renzi aderisce a una sola lettura, che sono gli affari suoi. All’inizio della legislatura ha cercato di farsi accettare nel centrodestra, poi voleva fare il grande centro, poi si è buttato a sinistra: forse domani si rigetterà a destra, non lo so. I suoi sono ragionamenti esclusivamente di interesse personale: ci sono cascato anche io, ora continuano a cascarci gli altri». Antonio Decaro ha sciolto la riserva e si candiderà in Puglia. Come finirà? «Decaro, che stimo e sostengo, se lo stanno cucinando a fuoco lento. Emiliano lo vuole politicamente morto, Vendola resta in campo, il Pd lo ha obbligato a una candidatura in condizioni molto difficili. Così Schlein lo ha eliminato come possibile avversario». Antonio Tajani le ha teso la mano, per trovare punti di contatto. Immagina qualche accordo con il centrodestra, magari in Campania?«Premessa: io sono anti-regionalista. Il regionalismo è la disgrazia nazionale, le Regioni sono ridotte a centri di potere, vanno depotenziate. Serve una clausola che garantisca allo Stato la supremazia sulle questioni cruciali, come ad esempio le infrastrutture strategiche. Se occorre un gasdotto lo Stato deve avere il diritto di imporsi». Detto questo?«Io dialogo con tutti i leader, non ho pregiudizi, non faccio questioni ideologiche, e non prendo in giro gli elettori facendo gli accordi con i grillini. In Campania il nome giusto è quello del riformista Giosy Romano, e non mi spiego come mai il centrodestra non l’abbia ancora scelto». Sì, ma in prospettiva, come si posizionerà?«In prospettiva, Azione rimane al centro, un partito riformatore e liberale, come avviene in tanti Paesi europei. Indipendente dalla destra e dalla sinistra. Questo non mi impedirà di abbracciare le battaglie giuste del governo, volta per volta, come ad esempio la separazione delle carriere». Comunque, con la sinistra ha chiuso?«Con questa sinistra ho chiuso da un pezzo. Potevo avere il sostegno del Pd per fare il sindaco di Roma a patto di aprire sul piano nazionale con i 5 stelle e ho detto di no. Alle ultime elezioni, l’accordo con Letta prevedeva una valanga di posti per Azione, ma bisognava aprire a Fratoianni e Bonelli: abbiamo rifiutato. Non perdiamo la nostra reputazione per il campo largo: restiamo indipendenti, e poi gli elettori decideranno». A Milano intanto si scende in piazza per il Leoncavallo. Giusto sgomberare?«Chiunque agisce fuori dalla legalità - vale per il Leoncavallo come per CasaPound - non può essere tollerato. La prima funzione dello Stato è garantire la sicurezza dei cittadini, e oggi c’è un lassismo e un aumento della micro-criminalità che terrorizza i piccoli centri. I Cpr non dovremmo costruirli in Albania, ma in ogni regione». E sul centro sociale?«Non conosco così bene il Leoncavallo, non so se ha una valenza culturale: magari bisogna chiedere a Salvini. Però, se il Leoncavallo non è stato regolarizzato, allora non era un centro culturale, e allora andava sgomberato. Punto. Quello che non può accadere è tollerare l’illegalità. Perché l’Italia non ha un problema di democrazia: il rischio, semmai, è quello dell’anarchia».
Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio europeo (Ansa)
I burocrati dell’Unione pianificano la ricostruzione del palazzo Lipsius. Per rispettare le norme energetiche scritte da loro.
Ansa
La Casa Bianca, dopo aver disdetto il summit a Budapest, apre uno spiraglio: «Non è escluso completamente». Ma The Donald usa il pugno duro e mette nella lista nera i colossi Rosneft e Lukoil. Il Cremlino: «Atto ostile».
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Sganciato il 19° pacchetto, focalizzato sul Gnl. La replica: «Autodistruttivo». Sui beni il Belgio chiede chiarezza.
2025-10-24
«Giustizia»: La voce chiara e forte di chi si sta mettendo in gioco per un sistema giudiziario migliore e più giusto
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Giustizia affronta il dibattito sulle grandi trasformazioni del diritto, della società e delle istituzioni. Un progetto editoriale che sceglie l’analisi al posto del clamore e il dialogo come metodo.
Perché la giustizia non è solo materia giuridica, ma coscienza civile: è la misura della democrazia e la bussola che orienta il Paese.
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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