2025-08-31
Schedature Web con la scusa del sessismo
I casi (odiosi) di siti e gruppi con foto rubate di donne ignare diventano il pretesto per chiedere di imporre la registrazione ai social con sistemi come lo Spid. Ma così il controllo può farsi totale. Se ci sono reati, gli inquirenti possono già rintracciare gli autori.L’orribile vicenda del gruppo Facebook «Mia moglie» e del forum Phica.eu non può che suscitare rabbia e disgusto. Occorre essere molto netti nel condannare quello che innanzitutto è un reato, la pubblicazione di immagini senza il consenso di chi vi è ritratto. Così come è ripugnante il contesto sessista e morboso delle foto che, spesso sessualmente esplicite, all’insaputa delle donne ritratte, venivano pubblicate e commentate.I tentativi di far passare queste iniziative come allegre goliardate sono altrettanto se non più ributtanti. L’offesa della dignità delle donne non può essere un divertimento. Non c’è che un modo di commentare questi atti, e cioè una ferma e vibrante condanna. Ridimensionare i fatti significa calpestare una seconda volta le vittime.Detto questo, dal punto di vista giuridico, come ha spiegato la polizia postale in questi giorni, la difficoltà è che questi reati sono perseguibili soltanto se c’è una denuncia della persona che si ritiene lesa. Ci sono sei mesi di tempo per fare querela dal momento in cui si viene a conoscenza del fatto, ma molto spesso, come si è dimostrato in questi due ultimi casi, le persone neppure sanno dell’esistenza di questi gruppi. Bene ha fatto il governo a preannunciare interventi in questo senso. Il ministro alla Famiglia e pari opportunità Eugenia Roccella ha detto: «Assumeremo e potenzieremo iniziative specifiche per il monitoraggio di situazioni di questo tipo, la segnalazione alle autorità competenti a cominciare dalla magistratura e l’individuazione degli strumenti più efficaci per il contrasto di questa barbarie del terzo millennio».Le difficoltà che la polizia postale oggi incontra nello stroncare questi obbrobri online sono legate soprattutto al fatto che le piattaforme e i server su cui si svolgono queste attività frequentemente sono all’estero e spesso sono criptati. Il tema è dunque che la extraterritorialità di queste piattaforme richiede uno sforzo investigativo spesso infruttuoso, oltre che richiedere tempi lunghi e accordi con autorità di altri Paesi. Non è una questione nuova, anzi. L’extraterritorialità di molti servizi sul Web rende inefficaci le leggi nazionali e vanifica l’attività di investigazione e repressione dei reati.Il numero degli iscritti ai due gruppi di cui si parla colpisce per la sua entità, visto che si tratta di decine di migliaia di persone. Alcune prese di posizione di questi giorni, tuttavia, assumono una curvatura preoccupante nel momento in cui si parla di azionare delle «strette» sul Web. Per come sembra orientata la discussione, soprattutto da parte dei progressisti, si sta parlando di schedare gli utenti del Web, né più né meno, per eliminare quello che viene considerato il cavallo di Troia per la commissione di reati, ovvero l’anonimato. Questo rimedio, però, si trasforma in un problema enorme che riguarda la libertà dei cittadini, nel momento in cui una schedatura di massa per l’accesso al Web costituisce una forma estrema di controllo del comportamento dei singoli. Altro che Grande fratello. La tentazione del controllo capillare sulle vite dei singoli assume un rilievo eminentemente politico, sul quale occorre una discussione aperta. Una cosa del genere ci avvicina molto alla polizia del pensiero o a distopie alla Minority report. La «stretta» deve essere destinata al perseguimento efficace dei reati, non alle preferenze dei singoli.Sono i fornitori dei servizi online a dover essere collaborativi e trasparenti quando vi sono indagini: l’attenzione dei legislatori dovrebbe puntare su questo. Schedare gli utenti è come iniziare a costruire una casa dal tetto: è la piattaforma su cui si commettono i reati, semmai, a dover essere soggetta alle giurisdizioni e a rispondere all’autorità giudiziaria per permettere di identificare i colpevoli. Poi, certo, c’è la responsabilità personale, ma già oggi non è impossibile risalire ai singoli, con gli strumenti attuali, se la piattaforma è collaborativa. Il tema è estremamente delicato e il cuore del problema sta qui. Le chat nascoste e i siti dove si commettono nefandezze non sarebbero toccati da un provvedimento di schedatura, essendo in sé sfuggenti. Sarebbe come alzare le tasse per ridurre l’evasione fiscale.Se è così, l’identificazione obbligatoria assume tutt’altra caratteristica, quella di controllo preventivo e di monitoraggio delle attività dei singoli, una mossa ben più che illiberale. Nel frattempo, il segretario del Pd Elly Schlein ha sottolineato il carattere culturale del problema: «Occorre agire sull’educazione sin dalle scuole, rendendo obbligatori i corsi sul rispetto, l’affettività e le differenze in tutti i cicli scolastici». Altro modo sbagliato di intervenire: obbligare bambini e ragazzi ad ascoltare qualche lezioncina sull’affettività (qualunque cosa sia). In classe, meno arcobaleni, più Orazio e Virgilio, semmai. C’è da sperare che «l’individuazione degli strumenti più efficaci per il contrasto di questa barbarie» non si traduca in una banale obbligatorietà dello Spid per accedere al Web o ai social. Il tema è, piuttosto, che questi servizi vivono in un mondo parallelo che tende a non essere riconducibile ai sistemi giuridici nazionali. Il problema cioè non è tanto la presunta anonimità degli utenti, quanto la inafferrabilità dei server. Sono i servizi a rendersi anonimi per non essere rintracciabili. Il ragionamento sul contrasto di questi fenomeni dovrebbe partire da qui.
Benjamin Netanyahu (Ansa)
Andrea Sempio e Luciano Garofano (Ansa)