2025-04-29
«Salviamo dall’oblio il soldato Europe, sfuggito all’inferno con una jazz band»
Jason Moran @Clay Patrick McBride
Il pianista texano Jason Moran omaggia il genio degli Harlem Hellfighters. Spedito al fronte nel 1918, cambiò il sound al Vecchio continente.Un soldato di nome Europe. Se lo scopre Ursula von der Leyen è capace di fiondarsi pure lei domani sera al Lingotto per il finale esplosivo del Torino Jazz Festival, aperto il 23 aprile dai Fearless five del veterano Enrico Rava (eroe dei due e più mondi del jazz, premiato dal Comune sabaudo con una targa al valore). All’aeroporto di Caselle sta per sbarcare infatti il pianista texano Jason Moran con un progetto - in esclusiva per questa sponda dell’Atlantico - dedicato a un padre del jazz, oggi praticamente dimenticato. Il suo nome era Europe, James Europe. Non si tratta però di uno 007 di stanza a Bruxelles. Il nostro eroe era nato in Alabama, nel 1881, ed era approdato prima a Washington Dc e poi a New York. Imponendosi come compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra nero nella Harlem degli anni Dieci del Novecento. Che c’azzeccano quindi le trincee, i cannoni e quel Vecchio continente che il «Martin Luther King della musica» portava nel cognome, come se una tappa decisiva della sua vita fosse già stata stabilita dal destino? Assolutamente nulla, almeno fino alla chiamata alle armi dello Zio Sam per l’«inutile strage» (copyright Benedetto XV), chiamata anche prima guerra mondiale. Ma è dal primo gennaio 1918 che inizia un’altra storia. Quel giorno gli Harlem Hellfighters sbarcano in Francia e la foltissima banda militare diretta da James Reese Europe attacca una versione sincopata della Marsigliese. I soldati transalpini si guardano increduli, prima di esultare: i rinforzi contro i tedeschi sono arrivati. E la buona notizia ha il suono inedito del jazz.«Europe è una figura dagli straordinari meriti culturali e sociali», ci spiega Stefano Zenni, massimo esperto della materia (la sua Storia del jazz, ampliata e aggiornata, è in uscita per Quodlibet), ma soprattutto direttore artistico del Tjf che ha voluto a tutti i costi sotto la Mole questa produzione originale come gran finale. «Collaborando con i ballerini bianchi Vernon e Irene Castle rese popolare il fox trot in tutto il mondo. Anche grazie alla sua geniale intuizione di suonare più lentamente The Memphis blues di William Christopher Handy, rendendola ballabile. Non solo, fondò il Clef club, vero e proprio circolo e sindacato per la tutela dei musicisti afroamericani, portando per la prima volta la musica dei neri alla Carnegie hall, in un concerto trionfale con una formazione di ben 125 elementi. Ad Harlem creò scuole e band, innalzando il livello artistico dei musicisti e dando un’occasione ai giovani. Ma soprattutto trovò una sintesi originalissima tra ragtime, musica da banda e il primo blues a stampa. La sua missione in Europa, forzata dal reclutamento che lo aveva trasformato in un soldato-musicista, sparse questo nuovo sound per tutto il continente».Mister Moran, lei è noto per la sua capacità di interpretare il suono del presente, lasciandosi ispirare anche dall’hip hop e dall’elettronica, senza dimenticare le colonne portanti del jazz del passato, come Duke Ellington e Fats Waller. Com’è tornato alla musica di James Reese Europe?«Si è deciso tutto un pomeriggio di una quindicina di anni fa. Randy Weston (pianista newyorchese scomparso nel 2018, ndr) mi invitò a casa sua a Brooklyn. Mi fece sedere e iniziò a parlarmi di quanto fosse importante nella storia questo incredibile musicista. Un racconto che si trasformò in una sorta di appassionata lezione accademica di tre o quattro ore. Un evento inaspettato che mi colpì perché il nostro è un ambiente di poche parole. Posso essere sincero?».Certo.«Fino ad allora avevo sentito nominare gli Harlem Hellfighters una sola volta, da Jaki Byard (uno dei maestri di Moran alla Manhattan school of music, insieme ad Andrew Hill e a Richard Abrams, ndr)».E cosa l’ha colpita quando ha recuperato i dischi di questa formazione?«Appena ho fatto partire Russian rag, da un album inciso da quei soldati subito dopo il rientro in patria dal fronte, il suono mi ha letteralmente mandato ko. Non sembra di ascoltare una band, la sensazione è più quella di una montagna che ti cade sulla testa» (ride). «Potenza allo stato puro! L’abilità di James Reese Europe come direttore e orchestratore poi è strabiliante. Un’evidenza dalla quale nasce una domanda senza risposta».Ovvero?«Com’è possibile che Europe sia stato dimenticato? È da non crederci, George Gershwin era un suo estimatore. Non solo, c’è uno scatto che ritrae Duke Ellington mentre depone una corona di fiori sulla tomba del tenente compositore. Non è un’occasione fortuita. Ellington ci va appositamente, portandosi il fotografo. Vuole far sapere a tutti che senza Europe la sua musica non sarebbe la stessa. E per il mondo in quel momento lui è già una celebrità: è il “Duca”! Non so se mi spiego…».Restando in tema, ho letto in una sua vecchia intervista che lei sente chiaramente l’influenza di James Reese Europe anche nella musica di Thelonious Monk. Potrebbe farmi un esempio?«Uno dei primi brani che eseguiremo domani sera a Torino è Ballin’ the jack. A livello melodico siamo nello stesso pianeta di Monk. Non risolve mai nel modo che sarebbe lecito aspettarsi. Ti porta sempre altrove. Ma nella musica di James Europe io sento anche quello che accadrà più avanti nei musical di Broadway o addirittura nel pop moderno. Diciamo che ha iniziato a cucire un tessuto che poi in tanti hanno indossato comodamente».Prima accennavo al suo talento nel restare al passo con i tempi, rimanendo attaccato alle radici. Forse l’esempio perfetto in questo senso è la colonna sonora che lei ha composto per un videogame ispirato alle avventure del direttore degli Harlem Hellfighters.«La proposta dei creatori di Valiant Hearts (Cuori valorosi, ndr) mi ha preso alla sprovvista. Ci ho pensato un po’ e poi sono arrivato alla conclusione che, accettando, la storia di questo grande personaggio avrebbe potuto viaggiare su una frequenza diversa, raggiungendo i più giovani». Il triste finale purtroppo va svelato. Dopo essersi distinto in battaglia, insieme a tutto il valoroso 369° Reggimento di fanteria - che era stato assegnato all’esercito francese a causa della segregazione razziale -, James Europe rientrò in patria da eroe. Nel 1919 però venne assassinato a Boston da uno dei suoi batteristi, al termine di un banale litigio.«Ha vissuto solo 38 anni eppure ci ha insegnato cosa vuol dire combattere per diventare parte di una comunità. Dal punto di vista musicale, la sua reinvenzione dell’inno nazionale francese ci potrebbe bastare come esempio. Oggi si direbbe che l’ha “remixato”. Ma non è forse il pane quotidiano dei jazzisti del nostro tempo? È molto diverso da John Coltrane che reinventa un brano da musical come My favorite things e lo porta in un’altra dimensione? I grandi musicisti sono quelli che sanno raccontare una storia vecchia rendendola nuova».È questa la sintesi del suo approccio alla tradizione? Ri-creazione e non revival?«C’è chi è molto più bravo di me a riproporre la musica del passato esattamente com’era. Non è il mio miglior talento» (ride). «Io mi ispiro ai lavoratori delle vigne che provano degli innesti - il nuovo sull’antico - sperando di generare qualcosa di nuovo e di buono».Non è che ce l’ha con il trombettista Wynton Marsalis?«Nel far rivivere ciò che nessuno esegue più, lui è uno specialista. Ma può farlo solo perché è un musicista straordinario, circondato da colleghi alla sua altezza. Ho grandissimo rispetto per lui. Per cui le rispondo così: sono importanti sia i musei con le reliquie, sia quelli contemporanei. E non lo dico perché penso o decido in base ai gusti del pubblico».E a chi pensa?«Agli spiriti dei musicisti del passato. Quando si raccoglie la loro eredità bisogna essere sinceri perché ci ascoltano. Dico sul serio. E un giorno anche a me toccherà attraversare quella soglia».Come se la immagina?«Non ne ho idea, ma spero a quel punto di ricevere l’abbraccio di qualcuno che mi dica: “Grazie per aver pronunciato il mio nome”».
Abdel Fattah Al-Sisi e Donald Trump (Ansa)