2024-02-12
Salvatore Attanasio: «Sull’omicidio di Luca in Congo troppi silenzi da Stato e Ue»
Luca Attanasio (Ansa). Nel riquado, il padre Salvatore
Il padre dell’ambasciatore ucciso in Africa: «L’attentato è stato un attacco politico contro l’Italia, spero che domani i giudici non riconoscano l’immunità agli imputati».Si terrà domani la sesta udienza preliminare del processo per gli omicidi di Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo, avvenuti il 22 febbraio del 2021. Il gup dovrà pronunciarsi sull’immunità richiesta dagli avvocati dei due imputati (e avvallata anche dai funzionari degli Affari giuridici del ministero degli Esteri nell’udienza di gennaio), Rocco Leone e Mansour Lurugu Rwagaza, due funzionari del Pam (il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite). La Procura di Roma, in particolare, si è opposta al recepimento del documento dei funzionari della Farnesina in cui, in estrema sintesi, si dice che in questi casi prevarrebbe la consuetudine internazionale a riconoscere l’immunità ai funzionari dell’Onu. L’accusa, per Leone e Rwagaza, è di omicidio colposo: secondo la Procura di Roma, avrebbero omesso «per negligenza, imprudenza e imperizia ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica» dei partecipanti del convoglio su cui viaggiava, nel Nord-Est del Paese, l’ambasciatore italiano assalito a pochi chilometri da Goma. Lì alcuni uomini armati bloccarono il convoglio, privo di scorta, e, dopo aver giustiziato l’autista Milambo, presero con sé il diplomatico e il militare. Una volta penetrati nella boscaglia, i due italiani sono stati uccisi in circostanze mai chiarite. Un processo sbrigativo in Congo ha condannato all’ergastolo cinque banditi per l’agguato, senza spiegare movente ed esatta dinamica dei fatti. Salvatore Attanasio, il padre di Luca, spiega alla Verità che cosa si aspetta dall’udienza di domani. E fa un bilancio di questi ormai tre anni passati dalla morte del figlio.Partiamo dalla fine, anzi partiamo dal futuro: il 13 febbraio si terrà la sesta udienza preliminare del processo per gli omicidi di Luca, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milanbo: che cosa si aspetta?«Francamente ci aspettiamo che la magistratura decida secondo la nostra giurisprudenza. È tutto nelle mani del giudice: se deciderà di riconoscere l’immunità, il processo non si aprirà neanche. Se, invece, dovesse decidere per il giudizio delle persone indagate, allora partirà un nuovo percorso che spero possa portare alla verità. Non so se sono ottimista riguardo all’udienza, posso solo dire che ho estrema fiducia nella nostra giustizia che, anche se lenta, arriva. Se il processo dovesse finire, non finisce certamente la nostra battaglia. La guerra è lunga». Membri del governo e delle istituzioni hanno sempre detto: l’Italia vuole verità e giustizia per Luca. È così?«Sì, almeno all’inizio di questa vicenda, quando abbiamo avuto la sensazione che le istituzioni fossero al nostro fianco. Ho personalmente incontrato tanti vertici delle istituzioni e di tutti i governi che ci sono stati: tutti si sono sempre espressi in modo favorevole, nel senso che ci avevano assicurato la volontà di ricercare la verità. Poi però, stranamente, quando è iniziato il processo, purtroppo, lo Stato ha deciso di non presentarsi come parte civile. Ci aspettavamo una presenza più incisiva e concreta dello Stato. Ritengo questo comportamento un pessimo messaggio che lo Stato dà: io penso che abbia il dovere di difendere i suoi cittadini. E se non lo fa per un suo ambasciatore e un suo carabiniere, un normale cittadino che cosa deve pensare? Nessun diplomatico si può sentire tranquillo a questo punto, tanto se lo ammazzano può arrivare a pensare, guardando a questa storia, che tutto passa in cavalleria. Tu Stato devi batterti per un tuo uomo, non arretrare. Io non ce l’ho con nessuno in particolare, vorrei che per correttezza qualcuno mi spiegasse che cosa c’è di razionale dietro questo silenzio che ha avvolto la vicenda». La decisione dello Stato di non costituirsi parte civile è una ferita ancora aperta.«Non l’abbiamo capita, questa decisione, ci ha lasciato un po’ di amarezza. Ci è sempre stato garantito che si voleva arrivare fino in fondo nella ricerca della verità ma se uno si defila dal processo, è ben difficile che ci si possa arrivare. Anche la nostra famiglia è uscita dal processo, abbiamo accettato il risarcimento proposto dal Pam. Però io dico che un conto è la famiglia, un conto è lo Stato che non deve costituirsi per un risarcimento, ma per un dovere morale. Stiamo parlando di un servitore dello Stato, il carabiniere Iacovacci, e di un rappresentate dello Stato, mio figlio Luca, entrambi caduti in servizio. Quindi per noi è inspiegabile anche perché nessuno ha motivato questa decisione, c’è stato solo silenzio. La costituzione di parte civile non è un obbligo, ovviamente, per un’istituzione, ma lo si è fatto in situazioni in cui c’era una minor implicazione statale. Nel processo che si è svolto in Congo, lo Stato italiano si è costituito come parte civile. Ci aspettavamo che anche per quello italiano facesse altrettanto. Governo e istituzioni si sono fatti sempre sentire prima, dopo la decisione di uscire dal processo nessuno ha più voluto avere rapporti con noi. Il nostro avvocato aveva anche suggerito: se non vuole partecipare ufficialmente come parte civile, almeno mandi uno dell’avvocatura dello Stato a presenziare alle udienze, per far vedere che lo Stato c’è. Ma anche di fronte a questa possibilità c’è stato solo un silenzio assordante. Se non ci forniscono una spiegazione, è naturale che nascono mille dubbi. Uno si chiede ininterrottamente: perché? In Congo siamo stati anche noi familiari parte civile nel processo contro gli autori dell’omicidio ma poi ci siamo ritirati perché era stata ipotizzata la condanna a morte dei cinque accusati. Non eravamo d’accordo con questa linea e quindi ci siamo ritirati».È arrivato a dare una risposta a quel suo perché? «No, ma mi aspetto che prima o poi qualcuno ci dia una spiegazione (in questo senso, nei giorni scorsi il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato all’unanimità una mozione che chiede al presidente del consiglio Giorgia Meloni e al ministro degli Esteri, Antonio Tajani, di prendere posizioni più coraggiose sulla vicenda dell’uccisione dell’ambasciatore, ndr). Quello che è certo è che noi non ci fermeremo nella ricerca della verità». Perché, secondo lei, i funzionari del ministero degli Esteri si sono pronunciati in favore dell’immunità dei due funzionari del Pam, l’Agenzia legata alle Mazioni Unite? È la ragion di Stato?«Hanno espresso un’opinione e, secondo il nostro avvocato, anche in maniera non cristallina, non univoca. Riteniamo, dunque, che ci sia spazio per il giudice per una valutazione corretta della vicenda. E voglio sottolineare anche un’altra istituzione che ha fatto calare il silenzio su questa vicenda: l’Unione europea. Luca era sì un rappresentante dello Stato, ma lo era contemporaneamente anche dell’Europa. Per situazioni meno gravi di questa, all’Europarlamento ci si agita. Per l’omicidio di un ambasciatore e della sua scorta cala un velo di silenzio. Penso che questo silenzio serva per far cadere la morte di Luca nell’oblio».Il vostro avvocato, l’avvocato Curcio, e anche voi, non credete all’ipotesi dell’agguato scattato per caso a opera di banditi locali. Escludete anche l’ipotesi del rapimento andato male. Ritenete che l’obiettivo di quel blitz fosse proprio Luca. L’avvocato Curcio ha anche spesso parlato di omicidio volontario, palesando enormi interessi politici ed economici non sempre trasparenti. Cosa vi porta a pensare che questa sia la pista da seguire?«Ci sono gli atti dell’indagine che ci fanno indirizzare verso questa strada. Si capisce benissimo che ci sono tanti elementi che non tornano. Basta porsi una semplice domanda: chi è il rapitore che uccide il suo ostaggio, che è la sua fonte di guadagno? Nessuno. Mezz’ora prima nello stesso punto era passato un convoglio identico e non gli è successo niente. Eppure gli assalitori erano lì da due giorni. È evidente che stavano aspettando il convoglio di mio figlio. Perché? Bella domanda, stiamo cercando di capire il movente e i mandanti. La storiella del tentato rapimento non sta in piedi ma è una storia che fa comodo a tutti». In una lettera di un anno fa circa gli amici di Luca e voi famigliari avete scritto che «si tende a relegare l’accaduto nell’ambito dei fatti di cronaca, ma l’omicidio di un ambasciatore è un fatto politico». Perché crede che stia avvenendo questo calo di attenzione sulla vicenda?«L’omicidio di un ambasciatore non è cronaca, non lo può essere. Luca non si trovava in una pizzeria o a fare una gita. Era lì, in quel luogo, in rappresentanza dello Stato italiano. E, quindi, come fa a essere un fatto di cronaca? È stato compiuto un attacco allo Stato, la sua morte la ritengo un grave atto politico. L’impressione che abbiamo è che il bersaglio fosse proprio lui».Tra pochi giorni saranno passati tre anni dalla morte di suo figlio. In un recente incontro con gli studenti a Como lo ha definito «un ragazzo dell’oratorio che aveva il sogno di diventare ambasciatore stando sempre dalla parte dei più fragili». È questa la sua eredità più grande?«Luca era una persona empatica e ottimista, dava sempre una seconda possibilità a chi sbagliava. Ed era una figura amata dallo stesso popolo congolese, Lui ha fatto molto non solo per gli italiani e i missionari, ma soprattutto per la gente locale e per i bimbi di strada. Penso che meriti un po’ più di rispetto. Era una persona incorruttibile, tutto d’un pezzo. Non voleva nei nella sua ambasciata, voleva che funzionasse tutto in modo limpido e trasparente. Se non è un patriota lui, chi altri lo dovrebbe essere?».
Beatrice Venezi (Imagoeconomica)