2022-03-01
Rivoluzioni, stragi, autonomia: i rancori al tavolo della pace
Dalla rivolta arancione, a Euromaidan, al massacro di Odessa. Mosca vede come golpe degli Usa le svolte pro Occidente di Kiev.Fratelli coltelli. È lunga la storia delle tensioni tra ucraini e russi; due popoli gemelli e rivali. Basti pensare alla tragedia della collettivizzazione forzata, voluta da Josif Stalin: l’Holodomor, la carestia del biennio 1932-1933, costò all’Ucraina milioni di morti e il Paese la considera ufficialmente un genocidio. È anche questo antico fardello di sofferenze che le parti, ieri, si sono trascinate al tavolo delle trattative. L’ultimo atto della contesa, culminata nell’invasione delle truppe di Mosca, ha radici nella Rivoluzione arancione del 2004. Un sommovimento che, in Ucraina, portò all’annullamento dell’elezione del presidente Viktor Janukovych - vicino alla Russia, ma non ostile a Ue e Usa, tanto che inviò un contingente in Iraq a sostegno degli americani. Ne scaturirono nuove consultazioni, in cui la spuntò il filoccidentale Viktor Jushenko - sfigurato con la diossina, forse per un piatto avvelenato dagli 007. La rivolta fu un sussulto d’orgoglio patrio e spirito democratico? Oppure - versione del Cremlino - un colpo di mano foraggiato da Washington, per spianare alla Nato la strada verso Est?Le voci sul coinvolgimento americano erano molte. Die Zeit sostenne che a Jushenko fossero giunti almeno 65 milioni di dollari dagli Stati Uniti. Il Guardian citò un intervento del Dipartimento di Stato e di alcune Ong legate ai dem e ai falchi neocon: il National democratic institute, l’International republican institute, Freedom house, organizzazione finanziata da Washington e da Open society di George Soros. Il miliardario ungherese, peraltro, si vantò, con la Cnn, di aver avuto «un ruolo importante negli eventi» di Euromaidan. Ovvero, la seconda rivoluzione pro Occidente, la miccia della crisi in Crimea e della guerra nel Donbass. La protesta, in piazza Indipendenza a Kiev, cominciò a novembre 2013 e sfociò, tre mesi dopo, nella cacciata definitiva di Janukovych. Il leader del Partito delle regioni era tornato al potere in seguito al fiasco economico delle liberalizzazioni di Jushenko e alla presidenza di Julija Tymoshenko, funestata dalle tensioni sul gas moscovita. Costei fu al centro dell’ennesima diatriba con l’Europa: venne arrestata nel 2011 per aver siglato un contratto con Gazprom, considerato inutilmente oneroso per l’Ucraina; trascorsi due anni, la Corte europea dei diritti dell’uomo ne giudicò illegittima la detenzione preventiva. Nel 2014 uscì di prigione. E alle elezioni del 2019, sfidò Volodymyr Zelensky e Petro Poroshenko.Anche su Euromaidan circolano interpretazioni contrapposte. La tesi degli ucraini filoccidentali è che la protesta spontanea contro la sospensione, da parte di Janukovych, dell’accordo di associazione con l’Ue, fosse stata sanguinosamente repressa dalle forze dell’ordine e dai cecchini agli ordini di Mosca. Tuttavia, i manifestanti presidiarono eroicamente la piazza fino a febbraio 2014, allorché, ingaggiati nuovi scontri, costrinsero Janukovich alla fuga. Secondo i filorussi e la cerchia di Vladimir Putin, invece, Euromaidan fu un golpe inteso a riportare l’Ucraina, con il presidente Poroshenko, sotto l’egida di Stati Uniti e Nato, per interposta Bruxelles. Di sicuro, archiviato il voto parlamentare del 2010, che aveva bocciato l’ingresso nell’Alleanza atlantica, da Euromaidan, allo sblocco dell’intesa con l’Europa per il libero scambio, alla presidenza Zelensky, l’adesione di Kiev all’Ue e alla Nato è tornata un argomento caldo. La prospettiva atterrisce Mosca. Vuoi perché lo zar, che nutre mire imperialiste, reputa l’Ucraina il giardino di casa e non ne tollera l’autodeterminazione; vuoi perché teme il dispiegamento, ai confini russi, di uomini e missili avversari, oltre all’importazione delle «rivoluzioni colorate». Bisogna comunque riconoscere che, ad animare l’ondata europeista del 2014, non furono solamente attivisti indipendenti, coordinati dai social. In piazza, a Kiev, c’erano pure le milizie neonaziste di Pravj Sektor, che poco dopo si macchiarono di un brutale massacro nel Donbass. Il 2 maggio 2014, a Odessa, per sfuggire alla lotta con i battaglioni nazionalisti, i dimostranti filorussi si rifugiarono nella Casa dei sindacati. I sostenitori di Euromaidan e le squadracce di estrema destra diedero alle fiamme l’edificio. Nel rogo, morirono 42 persone, inclusa gente estranea ai disordini. I pochi scampati al fuoco vennero linciati. Furono rivenuti i corpi di donne violentate, seviziate e di una ragazza incinta, strangolata con i cavi di un telefono. Il nuovo governo ucraino cercò, vanamente, di scaricare la responsabilità della strage sui filorussi. La barbarie di Odessa fu una delle tante mattanze del conflitto nella regione, inaugurato dall’annessione alla Russia della Crimea, con il controverso referendum indipendentista del marzo 2014, quindi proseguito con la secessione delle autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Lugansk. Quelle che Putin ora dice di dover soccorrere. In otto anni, la guerra ha mietuto 3.400 vittime civili e 5.700 militari. Il destino dell’Ucraina orientale è un grave fattore d’attrito. Zelensky rivendica la sovranità e l’integrità territoriale del suo Paese. Mosca lamenta soprusi e violenze sui russofoni, la cancellazione delle autonomie locali e linguistiche. E conserva la memoria del passato. Nell’ottica del Cremlino, la Crimea, donata da Nikita Krusciov all’Ucraina nel 1954, è russa. E Putin, nel colloquio con Emmanuel Macron, ha chiesto che l’annessione gli sia riconosciuta. D’altro canto, quando proclama l’intento di «denazificare» l’Ucraina, non s’aggrappa soltanto a un pretesto per attaccare. Allude alla vendetta contro le milizie e ha in testa un doloroso precedente storico: sconvolti dalla carestia degli anni Trenta, durante l’occupazione tedesca, fra il 1941 e il 1944, oltre 30.000 ucraini si arruolarono nelle Ss, in funzione anti sovietica.Ai vecchi rancori si sommano le più recenti aspirazioni. Zelensky, eletto altresì per l’impegno alla riconciliazione con Mosca, chiede che la sua nazione non sia ridotta a uno Stato cuscinetto, o a una seconda Bielorussia, eterodiretta dallo zar. Le intenzioni del Cremlino sono composite: coltiva fantasie di dominio e spera di alterare l’architettura securitaria post guerra fredda; ma intanto pensa a una rivalsa per i rivolgimenti degli ultimi 18 anni. E sconta un riflesso difensivo, rispetto all’incubo di ritrovarsi la coalizione occidentale sull’uscio.Il dramma è che c’è poco tempo per ascoltare le ragioni degli altri. Per evitare che l’«operazione speciale» di Putin degeneri in un’ecatombe. Che Kiev si trasformi, atrocemente, nell’Aleppo d’Europa.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)