
Il timore di non esserci più è il prezzo che dobbiamo pagare per dire: «Io sono». E ciò che ci spinge a difendere chi amiamo. Quando perdiamo qualcuno, tanto più è forte la sofferenza tanto più impareremo ad apprezzare il «miracolo» della vita.Dal punto di vista biochimico si parla di morte quando il nostro organismo non riesce più a mantenere la propria auto-organizzazione e il livello di entropia raggiunge livelli irreversibili. La vecchiaia e la morte sono obbligatori solo tra gli organismi costituiti da più cellule. Tra quelli costituiti da una cellula sola, non lo sono. Se nessuno aggiunge penicillina al brodo di cultura e c'è cibo a sufficienza, amebe e batteri, organismi monocellulari, sono immortali. Un batterio si riproduce scindendosi in due batteri, che si riproducono scindendosi in quattro batteri che si riproducono scindendosi in otto, e si arriva così a miliardi di batteri senza che ci sia un solo cadavere e senza che nessuno abbia le rughe, o gli necessitino gli occhiali. Tutti gli organismi sono geneticamente identici, allegramente coetanei e indistinguibili l'uno dall'altro. Quando abbiamo smesso di essere amebe abbiamo guadagnato la pluricellularità, abbiamo guadagnato anche la vecchiaia e la morte. Abbiamo guadagnato la coscienza, il pensiero, la sessualità, l'amore, il dolore, la gioia, la paura, la speranza, la disperazione e la possibilità di avere figli, che sono delle curiose creature che prima o poi ti fanno un sorriso sdentato, dopo di che mettono i denti e alla fine ti chiamano papà o mamma. c'è qualcun altro?La morte è stato il prezzo che abbiamo pagato per dire «io sono». E la paura della morte è il prezzo che abbiamo pagato per dire «io sono perché penso». Come diceva il signore del letto 22 dell'Istituto di Patologia chirurgica delle Molinette: «Quando paghiamo caro qualcosa che non ha prezzo, abbiamo in ogni caso fatto un affare».Il piccolo scalatore sta facendo una solitaria. Improvvisamente una delle sue corde si rompe e lui scivola malamente su una parete verticale. Riesce all'ultimo momento ad aggrapparsi a uno spuntone di roccia e resta lì a penzolare su un baratro di centinaia di metri, senza poter fare nessun movimento se non continuare a restare appeso. Gli viene in mente che forse c'è qualcun altro che sta facendo una scalata. Comincia regolarmente, ogni cinque minuti, a chiedere: «C'è qualcuno?». La sua voce si perde tra le cime innevate. Il piccolo scalatore continua ostinatamente, sempre più roco per la fatica e la disperazione. Finalmente una voce riempie le montagne. «Sì, ci sono io che sono Dio. Lasciati andare. Questa sera sarai con me in Paradiso». Cala la sera. Le prime stelle cominciano a brillare. A questo punto si sente la vocina dello scalatore che domanda: «Per favore, c'è qualcun altro?».La paura della morte è sempre molto forte, anche nelle persone che non nutrono nessun dubbio sul «dopo». La paura della morte ci è stata messa dentro da Madre Natura e dalle regole dell'evoluzione, per salvarci la vita. È una paura congenita, che abbiamo stampata nel patrimonio genetico. Senza questa paura, la stragrande maggioranza di noi non arriverebbe all'età adulta e ci saremmo estinti. Alcuni ne sono meno dotati di altri e sono quelli che guidano di notte a fari spenti per vedere che cosa si prova. Analogamente i bambini hanno paura dell'estraneo, del buio e del mare. Se così non fosse i bambini si avventurerebbero in braccio a sconosciuti, nel buio della notte e tra le onde, e molti di loro perirebbero.Il fatto che i bambini ne abbiano una terribile e fisiologica paura non vuol dire che gli sconosciuti siano tutti aggressivi, che il buio nasconda sempre mostri e che sbattere i piedini nelle onde non sia piacevole. Il fatto che noi ne abbiamo paura, cioè che abbiamo l'istinto a evitarla, non vuol dire che una cosa sia cattiva. In alcune persone la paura della morte è una tortura talmente prolungata e feroce, che vi pongono fine con il suicidio. La paura della morte è una conseguenza della nostra capacità di pensiero astratto. È il prezzo pagato per poter dire «io sono perché penso». Possiamo riprendere l'affermazione del già nominato signore del letto 22 dell'Istituto di Patologia Chirurgica dell'ospedale Molinette: «Quando paghiamo caro qualcosa che non ha prezzo, abbiamo in ogni caso fatto un affare». Qualcuno affronta la morte senza paura: molti scienziati, la totalità dei santi, il Dalai Lama, sicuramente il signore del letto numero 14 della sezione 6B dell'ospedale San Luigi Gonzaga, per lo meno la seconda volta che è morto. Aveva una cirrosi epatica da alcolismo, e una tubercolosi gravissima. Era ricoverato in ospedale da circa tre anni: con la tubercolosi poteva succedere. I suoi polmoni erano distrutti, e questo creava una condizione terribile e non risolvibile, che risponde al termine tecnico di dispnea a riposo, e che in parole più povere può essere spiegata come un lentissimo annegamento che si prolunga per settimane. Il suo cuore si fermò una notte in cui io ero di guardia. Nella mia foga di giovane medico, cui il concetto di accanimento terapeutico non era molto chiaro, sono riuscita a fare un'intracardiaca di adrenalina e ho sentito sotto le mie dita il polso ripartire.Tra me e la Signora con la falce, una volta tanto, era uno a zero per me. Il signore del letto numero 14 della sezione 6B dell'ospedale San Luigi Gonzaga riaprì gli occhi, mi fece un meraviglioso sorriso con quello che restava, non molto, della sua dentatura, mi disse di non preoccuparmi, perché dall'altra parte era bellissimo. Dopo di che, visto che dall'altra parte era bellissimo, ci tornò. La mia vittoria con la Signora con la falce alla fine si era limitata a un time out tecnico. Quello che era strano era il sorriso: dove li aveva presi un cervello reduce da un'ipossia (rimasto senza ossigeno) tutta l'energia, la forza, i neurotrasmettitori necessari per quel sorriso?Una delle componenti del dolore che accompagna una perdita è il senso di colpa. Il senso di colpa del sopravvissuto è stato messo a fuoco ascoltando la disperazione dei reduci dei campi di concentramento. È presente e costante in tutti i sopravvissuti di tutte le catastrofi, e spesso è il principale ostacolo alla ripresa di una vita normale.Se amo una persona, se semplicemente appartengo alla sua cerchia, sento come un dovere impedire che muoia. Dal punto di vista della biologia, cioè dell'evoluzione, è una protezione. Colpa e senso di colpa non sono sinonimi. Posso provare un atroce senso di colpa anche se non sono colpevole, se non è stata colpa mia, se non potevo farci niente.Tanto più è forte il mio senso di responsabilità, tanto più forte sarà l'impulso di combattere per salvare quelli che mi sono vicini, tanto sentirò la colpa della mia sconfitta. Il senso di colpa, come tutte le emozioni negative - la paura, la rabbia, il rancore, il dolore per la morte di coloro che amiamo -, ha il compito di preservare la vita: ci spinge a batterci perché nessuno muoia, ci spinge a buttarci in acqua per salvare il bimbo trascinato dalle onde, a rischiare di essere falciati da un'auto in corsa per dare soccorso in un incidente stradale. Un gruppo, una famiglia, una società dove tutti hanno l'impulso di battersi per la salvezza degli altri ha un basso tasso di mortalità, vive meglio e più a lungo, ma è gravata da un alto livello di senso di colpa quando non siamo riusciti a evitare la morte altrui. Quando proviamo un'emozione tendiamo a selezionare tutti i pensieri che hanno lo stesso colore di quell'emozione e a cancellare gli altri. In una vita ci sono milioni di cose. Non possono essere ricordate tutte contemporaneamente. A seconda di quali selezioniamo nel racconto che ce ne facciamo, diamo un senso piuttosto che un altro a tutto quello che è successo. Quando ci sentiamo in colpa verso qualcuno, tendiamo a ricordare tutti gli episodi in cui lo abbiamo in qualche maniera maltrattato, non ricordando tutti gli altri. Ricordiamo tutte le volte che ci abbiamo litigato: non è possibile convivere con una persona senza saltuariamente litigarci a sangue. Ricordiamo. In questa maniera il senso di colpa aumenta in maniera esponenziale. L'unica maniera per uscirne è fare qualcosa subito: un funerale faraonico, per il quale si spendono metà dei propri risparmi o ci si indebita.Se ci sentiamo molto in colpa quando qualcuno muore è perché lo abbiamo amato molto e perché abbiamo un alto senso di responsabilità. Quindi ripetiamo, perché è un concetto importante e deve essere chiaro. Tanto più è forte il mio senso di responsabilità, tanto più tenterò di combattere per salvare quelli che mi sono vicini, tanto più sentirò la colpa della mia sconfitta, e per non sentirla sputerò l'anima per preservare la vita di tutti i componenti del mio gruppo, aumentando quindi la sopravvivenza del gruppo. Il senso di colpa è un meccanismo evolutivo. Il senso di colpa è proporzionale al senso di responsabilità. Gli irresponsabili se ne infischiano allegramente. Il senso di colpa, come tutte le emozioni negative - la paura, la rabbia, il rancore, il dolore per la morte di coloro che amiamo - ha il compito di preservare la vita. Il senso di colpa, come tutte le emozioni negative, una volta che impariamo a gestirlo, a disinserirlo anche, quando ricostruiamo che in quel preciso contesto non è razionale, ha il compito di migliorare la vita. Noi cresciamo solo sulle crisi. Questo non vuol dire che tutte le crisi, le sofferenze, si risolvano in una crescita. Molte si incancreniscono. Molte distruggono e basta. Ma è solo con il dolore, per sfuggire al dolore, che noi possiamo trovare la forza di cambiare. Un lutto è la peggiore delle crisi che una famiglia, una persona, può affrontare. Non possiamo scegliere di evitarla. Possiamo scegliere di usarla per crescere, per diventare migliori.Il dolore per la perdita nasce con il riconoscimento. Mamma tartaruga non riconosce la sua prole. Depone le uova su una spiaggia e se ne va per i fatti suoi. Quando le tartarughine nascono, in un numero sterminato, si avviano verso il mare come i soldati di Napoleone nella ritirata dalla Russia. Tra quelle mangiate dagli uccelli, quelle mangiate dalle lucertole e quelle che si perdono tra le dune solo il 15% arriva al mare.Qui le tartarughine residue diventano cibo per i pesci: se tutto va bene una o due si salvano e così la specie continua. Le tartarughine non si distinguono l'una dall'altra, non c'è nessun riconoscimento individuale. Nessuno soffre quando la tartarughina muore, né la sua mamma né qualcuna delle sue decine di sorelle. Il dolore compare con l'alligatore. Mamma alligatore riconosce la sua prole e la difende. Quando separati, mamma alligatore e l'alligatore bimbo esprimono sofferenza ed è la prima emozione che compare nella scala evoluzionistica. Quando uno dei due muore l'altro soffre. Non è possibile sofferenza senza amore. Non è possibile amore senza sofferenza: se amiamo qualcuno la sua assenza è una mancanza, la sua morte una lacerazione. Se soffriamo quando qualcuno muore, è perché lo abbiamo amato, e l'amore è un miracolo. Se stiamo soffrendo per la morte di qualcuno è perché sappiamo che il miracolo dell'amore esiste, e che lo abbiamo avuto. Possiamo scegliere una sofferenza pulita. L'altro, quello che se ne è andato, ci ha lasciato in eredità l'amore per la vita.
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