«Prolungare la vita non è economicistico». Quando ieri ho letto questa frase in un titolo di un importante giornale italiano, ho capito che l’orrore che stiamo annunciando e temendo da anni ormai è realtà. E che non solo viene accettato e praticato (cosa di cui eravamo ben consci, purtroppo) ma viene rivendicato. Esibito. Sbandierato.
Prolungare la vita non è economicistico. Cioè non conviene. Da un punto di vista monetario, s’intende. Perché curare un malato? Non conviene. Perché assistere un anziano sofferente? Non conviene. Perché accudire un disabile? Non conviene. Perché spendere tempo e risorse per aiutare chi non è più produttivo? Non conviene. Ecco spiegate le ragioni per cui, oggi, va forte l’eutanasia. Bisogna accelerare la morte perché prolungare la vita non conviene. Costa troppo.
Così, con una sbadata riga di giornale, siamo arrivati alla rivendicazione dell’orrore, della selezione della specie, del nazismo genetico, dell’eliminazione dei deboli. Finora la verità era stata pudicamente nascosta sotto la coltre dei «diritti»: il diritto di morire, il diritto di scegliere, il diritto di non soffrire. Diritti che solo cuori crudeli e impietosi potrebbero negare. E che, infatti, non vengono negati (nel silenzio) da nessun medico e da nessun ospedale.
Ma quello che sta succedendo ora è mostruoso perché si usa il sacrosanto «diritto di non soffrire» per far passare, invece, un altro principio, orrendo, quello secondo cui «prolungare la vita non è economicistico». Il principio, insomma, per cui la vita viene valutata sulla base del bilancio della Asl. Se curarti costa troppo, muori.
La frase dell’orrore era stampata ieri a pagina 9 del Tempo, il quotidiano dell’ottimo Tommaso Cerno. In una pagina dedicata al fine vita si sono confrontate, come spesso avviene, due opinioni divergenti: quella di Carlo Giovanardi, contrario all’eutanasia, e quella di Mario Riccio, il medico del caso di Piergiorgio Welby, sostenitore dell’eutanasia. L’intervista, piuttosto confusa per la verità, verte proprio sui temi monetari della questione etica. E viene riassunta nell’occhiello con quella frase («Prolungare la vita non è economicistico») che, per la prima volta, fa cadere il tabù, mostra il re nudo, svela limpidamente il pensiero che sta dietro alla battaglia per l’eutanasia. Non è una battaglia per i diritti. È una battaglia per i conti pubblici.
A rendere il tutto ancor più paradossale c’è il fatto che il dottor Riccio, per giustificare il suo pensiero, accusa i Pro vita di essere al soldo di Big Pharma. «Non è che a contrastare il fine vita ci siano anche gli interessi delle grandi multinazionali della farmaceutica?», chiede l’intervistatore. «Credo proprio di sì», risponde Riccio. Il quale, probabilmente, se si trovasse davanti un bagnino che salva un turista dall’annegamento, lo accuserebbe di essere al soldo delle grandi catene alberghiere. E se si trovasse davanti una guida del soccorso alpino che salva un escursionista in montagna, lo accuserebbe di essere al soldo di Invicta. Del resto, quos Deus perdere vult, dementat prius: Dio acceca coloro che vuole perdere. E qui ci stiamo perdendo davvero.
Il dottor Mario Riccio, infatti, quello che definiva il vaccino contro il Covid un «dovere etico», quello che in ospedale teorizzava di lasciar morire i non vaccinati, quello che era super d’accordo nell’iniettare sostanze sperimentali nel corpo di persone sane, quello che non ha mai speso una parola contro l’invasione di farmaci inutili, adesso scopre che Big Pharma guadagna con le medicine che salvano la vita. Cioè: l’unica colpa di Big Pharma sarebbe quella di allungare l’esistenza di qualche persona. Mi faccia capire, dottor Riccio: i farmaci vanno bene quando sono inutili o, peggio, dannosi, quando vengono iniettati a persone sane e le fanno ammalare e, invece, non vanno bene quando si tratta di salvare la pelle alle persone? Solo allora lei scopre che i farmaci costano troppo?
Si capisce. I farmaci che salvano la vita costano troppo perché, per lei, «prolungare la vita non è economicistico». Ecco la drammatica verità che salta fuori in tutta la sua glaciale evidenza. I medici, del resto, lo sanno benissimo e da un pezzo: il progresso della tecnica e della scienza fa sì che ci siano sempre più cure disponibili ma troppo care per darle a tutti e sempre più persone che si possono mantenere in vita e più a lungo, ma a costi sempre più alti. E, quindi, che fare? Semplice: eliminare i più deboli. I meno produttivi. Ieri è arrivata la notizia del primo suicidio assistito in Lombardia, il sesto in Italia: una cinquantenne, affetta da sclerosi multipla, paralizzata e bisognosa di assistenza continuativa, ha ottenuto di procedere con l’autosomministrazione del farmaco letale. Accanto a lei, nel momento del trapasso, c’era il dottor Mario Riccio. Proprio lui. Il medico del caso Welby. Quello che ha rotto il velo dell’ipocrisia sbattendoci in faccia la cruda realtà: prolungare la vita di una cinquantenne bisognosa di assistenza continua non è economicistico. Non conviene. Costa troppo. Lo sapevamo, ma ora non ci sono più dubbi. Almeno, però, smettetela con la menata dei diritti…
Ormai anche in Italia nelle facoltà di sociologia, per esempio quello di Sassari o quella di Torino, c’è la cattedra dei cosiddetti Genders studies, dove tizi e soprattutto tizie percepiscono lo stesso stipendio di un docente di Anatomia umana oppure Diritto privato per insegnare impalpabili scempiaggini contrarie alla biologia e a qualsiasi forma di buonsenso.
Ci sono storie atroci e dolenti di giovani donne che mostrano il torace con le cicatrici della mastectomia bilaterale, l’amputazione delle mammelle, fatta perché come molte ragazzine a loro è scappato di dire «Vorrei essere un maschio». I bambini hanno come prevalente l’emisfero destro, non hanno il senso della realtà. «Vorrei essere un maschio» ha lo stesso peso di «vorrei volare come Superman». Nessuno butta un bambino dalla finestra se afferma di voler volare, ma sono amputate le mammelle a ragazzine, sfigurate dall’acne e dalla calvizie per il testosterone. «Come hanno potuto gli adulti farmi questo?», domanda una di loro.
Il film Olivia, che mostra la meraviglia della vita prenatale, è violentemente boicottato. Con la potenza di un pugno sul tavolo a far saltare un brutto castello di carte orrende è arrivata l’affermazione del presidente Donald Trump che, come scritto su qualsiasi libro di biologia, e come già noto alla buonanima di Noè, siamo maschi o femmine. E a questo punto è fondamentale la risposta alla domanda: perché siamo maschi o femmine? Per completarci, per amarci gli uni con gli altri, per far nascere i bambini e per amarli. In un’epoca di negazione di logica e di odio presentato come benemerenza civica, è fondamentale il libro «Siamo fatti per amare» di Rachele Sagramoso, ostetrica, scrittrice, blogger, moglie e madre di sette figli (editore: D’Ettoris gennaio, 2025). Il libro parla di fisiologia, quindi di realtà e logica, e anche di amore perché la fisiologia spiega la logica della creazione e la creazione rappresenta l’amore di Dio. Nasciamo maschi e femmine per diventare padri e madri. Una volta rinnegato questo, si passa automaticamente non solo alla beatificazione dell’aborto e alla vendita di bambini, ma anche all’intercambiabilità dei sessi. Essere donna è ridotto allo stereotipo femminile, trucco e tacchi, eventualmente mastoplastica, travestimento che anche un uomo può esibire.
Il libro difende il diritto del neonato alla vicinanza del corpo della madre, quel corpo che lo ha contenuto per nove mesi (sette nel mio caso), e di cui lui ha un bisogno totale. «Il diritto del neonato al suo spazio», è un concetto altrettanto folle del «diritto del bambino a una vita sessuale». Allontanare il neonato dalla madre è un’aggressione a entrambi. In tutta la storia dell’umanità i neonati sono sempre stati vicino alla mamma, con le uniche poche eccezione degli sfortunati figli dei ricchi che stavano con la balia. Il lettone di papà e mamma è per il bimbo il paradigma della sicurezza. La mamma è fornita di mammelle e il neonato ha bisogno di mammelle. Tenere mammelle e neonato nello stesso posto, nella stessa stanza o magari nello stesso letto, semplifica la vita. Il neonato piange perché è disperato. La mamma non è vicino a lui. Il neonato piange perché è terrorizzato. Non distingue i mobili della cucina dal Cervino: non è in grado di capire che non ci sono predatori. Nasce con un’unica competenza: un pianto disperato che attiri la mamma, il corpo che lo ha contenuto, da cui non deve essere allontanato.
Importantissima nel libro l’ostetricia. Con uno stile estremamente potente che mischia teoria, ricordi e testimonianze racconta la storia della violenza ostetrica, di come mal pratica e scortesia, se non aggressività, possano rendere il parto un incubo, oltre che più pericoloso. Se la mamma è messa in ulteriore stress sia lei che il piccolo condividono gli stessi ormoni da stress che non fanno bene a nessuno dei due. È possibile ipotizzare che tra i numerosi motivi di una natalità sempre più bassa ci sia il desiderio di non ripetere un’esperienza disastrosa. Ho avuto la fortuna di un parto facile e molto ben seguito in un ambiente sereno e competente all’Ospedale di Moncalieri ed ero convinta che le brutte storie fossero scomparse da decenni. Non è così.
Fino alla metà dell’Ottocento, le donne partorivano con le ostetriche, solo quelle più ricche potevano permettersi l’assistenza di un medico. In entrambi i casi c’erano poche garanzie, tuttavia esisteva una grande differenza: i medici facevano le autopsie e poi, senza lavarsi le mani, visitavano le partorienti che, a causa della mancanza di igiene, morivano di febbre puerperale, mentre le donne che venivano assistite nei conventi di suore o in casa dalle ostetriche, sopravvivevano. Il dottor Grantly Dick Read fu uno dei primi ginecologi a evidenziare gli aspetti positivi delle donne che potevano partorire seguendo il ritmo del proprio corpo, cioè con un parto naturale. Già negli anni Trenta scrisse che una donna assistita con freddezza e distacco poi mette al mondo meno figli di quelli che vorrebbe. Fu contrastato dai movimenti femministi perché affermò che le donne sono fatte per essere madri, sempre che gli sia fatto piacere essere madri. Oggi la formazione delle ostetriche è estremamente medicalizzata. A partire dagli anni Sessanta, la donna viene vista come un mezzo per portare al «progresso, si assiste quindi alla creazione di veri e propri «partifici», reparti dove il parto era gestito come un prodotto in serie, e alla diffusione dell’allattamento artificiale dato che le donne dovevano poter tornare a lavorare il prima possibile. Alla fine degli anni Settanta, con la chiusura delle condotte ostetriche, le ostetriche entrarono come ausiliare negli ospedali dove la responsabilità era del medico. Secondo Rachele Sagramoso, da questi presupposti discende il problema dell’assistenza alla gravidanza ipermedicalizzata e ipoempatica. Bisogna attendere la fine degli anni Ottanta per vedere sorgere i primi movimenti desiderosi di restituire un equilibrio all’assistenza alla nascita, fino ad arrivare agli anni Novanta con la promozione dell’allattamento al seno e l’assistenza alla nascita, ma la violenza ostetrica continua a esistere. L’autrice sottolinea il silenzio del mondo cattolico sull’argomento e come questo si sia fatto sottrarre il termine «violenza ostetrica» dal movimento femminista. L’assistenza al parto e l’allattamento non sono contemplati come diritti riproduttivi, a differenza dell’aborto e l’uso degli anticoncezionali. Nel libro si sottolinea l’importanza fondamentale per le donne di essere assistite in maniera gentile al parto, in modo da avere un ricordo positivo di quella nascita. Il diritto riproduttivo delle donne è conoscere la loro fertilità, riconoscere il loro bambino come essere umano che va protetto, un diritto riproduttivo delle donne è essere trattate con cortesia quando mettono al mondo un essere umano. Se l’operatore sanitario che assiste una donna in travaglio ha a cuore quella donna e il suo bambino, il suo approccio sarà differente. Uno dei mezzi per cercare di ridurre la violenza ostetrica è aumentare la consapevolezza e la competenza delle donne, perché nel momento in cui una donna delega la sua salute e quella di suo figlio agli operatori sanitari, questi si sentono investiti di una responsabilità così grande che li porta a decidere loro e la donna deve stare zitta e obbedire, mentre una comunicazione alla pari libera l’operatore sanitario da un peso. Le donne gravide sono diventate pazienti da quando i parti si sono spostati negli ospedali, adesso gli ospedali sono diventati aziende, quindi l’autrice si chiede perché non vengano fatti dei questionari di gradimento a tutte le donne e non vengano dati incentivi economici agli operatori che sono risultati più empatici. Se vogliamo che le donne mettano al mondo i bambini, deve essere bello partorire. E può essere bello, lo posso testimoniare.
Si scrive tecnodestra, si legge tecnobestia. È il nuovo mostro evocato quotidianamente dall’ufficio stampa e propaganda della sinistra ideologica, e concentra in sé la reazione e il progresso, il fascismo e il capitalismo, in una centrifuga di cavoli a merenda. L’unico riferimento concreto è Elon Musk ma la categoria è usata per indicare l’intera destra occidentale, a partire da quella meloniana e per svelarne il male oscuro. In realtà, non ci sono legami tra la tecnica e la destra di governo. Non vedo tecnocapitalisti al fianco di Meloni, non scorgo strategie governative e linee di questo tipo. L’unico segno, simbolico, è di tipo artistico: la mostra sul futurismo, che fu un tentativo di mettere insieme arte, tecnologia e politica. Ma non mi sembra di ravvisare tendenze di questo tipo nella politica presente né - che so - seguaci di Ernst Jünger e di altri «modernisti reazionari» alla guida del Paese e della sua «modernizzazione». C’è solo Musk, diventato la bestia nera del pianeta. È superfluo aggiungere che se le stesse cose annunciate da Musk alla destra di Trump le avesse pronunciate alla sinistra dei dem, sarebbero salutate come progresso per l’umanità e per il pianeta. Ma non perdiamoci nella polemica miserella e risaliamo al tema vero, il rapporto tra tecnologia e politica.
Non so i regimi autoritari e totalitari asiatici ma a Occidente la politica è in pauroso ritardo sull’accelerazione inquietante della tecnologia, non sta al suo passo, non vede le sue rapide implicazioni. Mentre il Nobel Geoffrey Hinton, uno dei padri dell’Intelligenza artificiale, denuncia che la velocità con cui si sviluppa l’Ia rischia di provocare nel giro di 30 anni l’estinzione dell’umanità, alla politica non sembra che la cosa la riguardi; non se ne prende cura. Oggi il rischio principale del mondo proviene dalla tecnologia e dal suo mancato controllo, anche nel senso degli errori; e la politica è disattenta, sguarnita, indifesa. Il suo problema è armare l’Ucraina e non occuparsi di questa vera emergenza globale.
Naturalmente il modo di occuparsi della tecnica non è solo quello di metterle un freno e imporre dei limiti, che già sarebbe una santa cosa. Ma di governarla, pilotarla, promuoverla quando è il caso, filtrarla e orientarla in altri, e in alcuni sviluppi fermarla. E invece non ci sono cabine di regia. Musk è il primo tecnocapitalista e impresario del futuro che se ne occupa. E non solo: non vende fuffa ideologico-utopistica, è un imprenditore concreto, che potrebbe dare risposte più efficaci dei tanti piagnoni planetari sul clima e la terra in pericolo.
Dall’altra parte, però, Musk non è solo un ardimentoso navigatore dello spazio, dell’auto elettrica e di progetti per migliorare l’umanità. È anche un pericoloso cultore della libertà di modificare l’uomo tramite la tecnologia per renderlo più longevo, bionico, tecno-mutante, fin dentro il cervello. Coltiva il sogno di un’immortalità o amortalità dell’uomo - o meglio di alcuni uomini, intrepidi e ricchi, che possono permetterselo, magari come avanguardia dell’umanità - e non si affida a nessun credo religioso o spirituale ma all’uso della tecnica e all’individualismo capitalista. Sfida i limiti della condizione umana, i limiti della natura e del suo ordine, è percorso dalla malattia del mondo moderno che Nietzsche sintetizzò in una formula: la volontà di potenza. A questo scopo nel suo impero dispone di due strumenti, Neuralink e Openai: la prima si occupa di neurotecnologie e d’immissione di chip correttivi nel cervello; la seconda, invece, vuol dirigere l’Intelligenza artificiale ed espanderne i confini. Stabiliti i mezzi, bisogna rendere palesi gli scopi, cioè le motivazioni di fondo. Se servono a espandere la volontà di potenza o a inseguire il sogno d’immortalità, rientrano in quel titanismo prometeico-faustiano che si affaccia nella storia dell’umanità e che può produrre benefici e malefici, ma espandendosi all’infinito, non rispondendo a nulla se non alla volontà di potenza dell’Io assoluto, genera catastrofi senza ritorno. Se vogliamo sintetizzare in una parola il pericolo in questione, chiamiamolo transumanesimo. Termine coniato da Teilhard de Chardin alla fine degli anni Quaranta, ripreso da Julian Huxley, ispirato a Pico della Mirandola, si pone il traguardo di trascendere la natura umana. Il programma di base era già stato descritto quattro secoli fa da Bacone ne La Nuova Atlantide: prolungare la vita, tardare la vecchiaia, restituire la giovinezza, curare malattie e dolore, modificare la statura, il peso, le capacità intellettuali; trasformare i corpi, potenziare i piaceri, inventare nuovi materiali, usare i trapianti, accelerare o rallentare il tempo. Scienza, magia e stregoneria si mescolano, così come legittime aspirazioni umane e benefici rimedi lasciano il campo a una radicale negazione dei limiti umani e naturali, e a una sostituzione del divino, poi dell’umano, infine del vivente. Oggi il più seguito profeta di questi scenari è Yuval Noah Harari, che vuol sostituire l’homo sapiens con l’homo deus, alla ricerca dell’immortalità e della felicità.
In un saggio sul transumanesimo nel volume collettaneo ispirato a Renè Guénon Nel regno della quantità, Mario Della Volta descrive il cammino di questa post ideologia scientista o post religione filosofica: dal golem, creatura artificiale tratta da materia inanimata, all’esaltazione dell’io, «antitesi di ogni cammino spirituale e di ogni via Tradizionale», all’insegna della contraffazione e del predominio dell’artificiale sul naturale.
Due vie si distinguono nel progetto transumanista (a volte contiguo al lungotermismo, di cui scrivemmo mesi fa): quella di un’immortalità corporale, nel senso che gli organi logorati o malati vengono di volta in volta cambiati, in modo da rigenerare il corpo; o quella di un’immortalità «digitale», nel senso di trasferire in altri corpi, in altre macchine, il chip della coscienza, modificata e riprodotta, in modo che l’io resti sempre lo stesso, con la sua autopercezione, ma mutando continuamente i corpi, gli involucri in cui si incarna. Quesiti aggiunti: a chi sarebbe consentita questa immortalità, solo a chi dispone di mezzi economici oltre che tecnici? E cosa sarebbe questa immortalità individuale se tutto il mondo intorno, compreso quello a noi apparteniamo, finisce? Ci toccherà scegliere se essere mutanti transmortali o fedeli alla mortalità? Sono desideri di onnipotenza fuori dall’umano che stridono coi nostri limiti umani e naturali, i nostri sentimenti, la nostra sfera affettiva, il nostro sapere, vivere e amare. Si dovrebbe conoscere prima di trasformare, capire prima di mutare, ma nessuno ci pensa. Torno alla realtà e alla politica e chiedo: chi è al potere si rende conto di questa sfida, sta facendo qualcosa? Come regolarsi con Musk, evitando di dargli via libera o all’opposto demonizzarlo? Sono questi i temi veri, non il teatrino dell’assurdo chiamato tecnodestra.







Il senso della vita è prendersi cura degli altri
Nelle tracce per l’esame di maturità, che quest’anno erano piuttosto azzeccate, è apparsa un po’ a sorpresa una canzone famosa di Franco Battiato, la Cura. Una delle più belle in assoluto, uno splendido manifesto d’amore e di attenzione per la persona amata che oltrepassa i limiti e le condizioni terrene: «Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare»; una sfida epica e metafisica oltre la mortalità, la vecchiaia, la gravità, il buio. La traccia è stata curiosamente affidata ai maturandi del Liceo Artistico. Per uno dei casi strani della vita, all’indomani di quelle tracce, mi è stato assegnato il compito di una lectio all’Università di Grosseto, sull’amore come prendersi cura dell’altro; lezione rivolta agli studenti di scienze infermieristiche. La mia competenza in materia è naturalmente nulla dal punto di vista professionale, tecnico-scientifico: mi avevano chiesto di parlare del mio saggio sull’amore necessario nella chiave del prendersi cura dell’altro. A ben pensarci, è un errore ritenere che curare sia solo una questione professionale, di abilità tecnico-scientifica. Il limite della cura oggi è proprio questo: la sostituzione dell’umanità con la tecnica. Che poi equivale a sostituire il malato con la malattia, concentrandosi sulla diagnosi, la degenza e la terapia, prescindendo dalla persona, dalla sua vita e dalla sua sensibilità affettiva. Curare in questo modo è un curare a metà, e un curare l’effetto (localizzato), trascurando la causa. Il malessere va invece riportato alla sua radice, contraria non solo al benessere ma avversa all’essere, a tutto l’essere. Nella cura è preziosa una visione olistica e non atomistica del paziente.
Viviamo in una società largamente sotto cura, medicalizzata se non ospedalizzata, in cui tutto - dalla nascita alla morte - passa dal nosocomio. E tutto, dall’alimentazione allo sport, dal modo di vivere al modo di pensare, passa sotto la sorveglianza della cura. Un tempo c’erano cose che andavano fatte perché giuste, perché vere, doverose o da farsi per fede e spirito di sacrificio; oggi l’unico vero assoluto è quello salutista, devi farlo perché ti fa bene: non c’è più l’idea del Bene ma del mio bene. Non c’è un’etica della cura ma solo autoconservarsi, a cui corrisponde un curare per prestazione professionale. Ma la società della cura si caratterizza per il suo contrario, come società dell’incuria, in cui il verbo più diffuso nella pratica di vita è trascurare. Cura vuol dire attenzione, premura, dedizione verso gli altri, a partire dai più vicini: e verso il mondo, a partire da quel che ti circonda. Ovvero, partendo da tua madre e dalla pianta sul balcone di casa.
Un filosofo tacciato di essere troppo astratto, troppo oscuro e anche oscurantista e perfino nazista, Martin Heidegger, si dedicò alla Cura (Sorge) e la ritenne il perno dell’esistenza. Heidegger distingueva la cura, come la vita, tra autentica e inautentica: la cura è autentica se aiuta l’altro a curare sé stesso, è inautentica se lo tratta da malato e da oggetto, lo lascia passivo, privo di libertà e di coscienza. La prima forma della cura è dunque per Heidegger un’arte maieutica come quella di Socrate e di sua madre, levatrice: tirar fuori dalla persona che hai davanti l’energia, la voglia, la coscienza di curarsi.
Qual è l’origine mitologica della cura? La racconta uno scrittore romano di duemila anni fa, Igino. Cura, una divinità minore, ai bordi di un fiume modella un essere dal fango e chiede a Giove di alitargli dentro il fiato della vita. Ma poi sorge una vertenza: Giove rivendica a sé l’essere a cui ha dato la vita, la Terra a sua volta reclama a sé l’essere perché il suo corpo è fatto di terra. E il giudice supremo, in questo caso Saturno, più che salomonicamente tripartisce l’uomo-humus: alla sua morte la sua anima tornerà a Giove e il suo corpo tornerà alla Terra. Ma in vita di lui si occuperà lei, Cura. Dunque vivere è aver cura, prendersi cura. Ma non solo degli altri. Un filosofo dei nostri tempi, Pierre Hadot, esortò a compiere esercizi spirituali che avevano come scopo primario la cura di sé. Non si tratta di ribadire il primato egoistico; aver cura di sé è la premessa per aver cura degli altri e del mondo. Chi cura sé stesso cura anche gli altri, e viceversa. E comunque, l’uno non va scisso dall’altro. Molte cose non ho condiviso di don Lorenzo Milani ma la sua insistenza sul motto I care, io mi prendo cura, costituisce sicuramente la cosa più bella che abbia detto e fatto il parroco ribelle della Barbiana. Poi si può tradurre quell’I care in retorica altruista, in assistenzialismo parassitario, in giustificazione di ogni crimine ed errore se compiuto da chi era bisognoso. Ma la radice generosa, non solo evangelica, di quel principio resta esemplare nell’ambito della carità e dell’agape, come la chiamavano i greci.
Tra le definizioni greche dell’amore che presi in esame in quel libro, c’era pure la Storge, che somiglia anche alla Sorge, la cura heideggeriana, e che riguarda proprio il prendersi cura, aver tenerezza. Il suo ambito originario e primario è l’amore per i propri famigliari, della madre per suo figlio, del figlio per il suo vecchio padre. A conferma che la matrice della cura e il modello a cui riferirsi resta per così dire a conduzione familiare. Da lì dovrebbero trarre esempio il medico e l’infermiere. Alla richiesta di consigli «di pratica filosofica» nella cura, da parte di alcuni operatori sanitari, mi sono permesso di suggerire tre o quattro piccole cose. La prima, lo dicevo all’inizio, è quella di non avere davanti un malato ma una persona, è lui che va curato, non la malattia. È importante. Questo comporta di non limitarsi a osservare i protocolli sanitari e usare con loro metodi standard e linguaggi prestampati: ma bisogna cercare di entrare nella loro vita, conoscerli e commisurare il trattamento al loro stato e alla loro sensibilità. Chiedetegli, ho detto loro, non solo le cose attinenti la malattia, ma qualcosa della loro vita, della medaglia che portano al collo, dei loro famigliari; per farli sentire a casa, per creare fiducia in voi e sentirsi accuditi e forse un po’ amati. E ai malati incurabili non usate procedure standard, valide per tutti, adattate le parole al loro stato emotivo: siate rassicuranti e placebo con chi non vuole sentirsi terminale; siate più diretti, con verità e dolcezza, a chi esige il vero. A proposito del rapporto col paziente, ho detto qualcosa a proposito dell’abitudine di alcuni infermieri e medici a dare il tu al malato: se c’è quell’attenzione alla sua vita e alla sua sensibilità, allora va bene usare il tu, sapendo che anche lui si sente, come con un amico, di dare il tu a voi. Ma se il tu denota una superiorità e un disprezzo, una noncuranza per la sua vita fuori e prima di finire ricoverato; se lo fa sentire un numero in balia di un altro o di un arcigno mostro anonimo, l’Ospedale, allora nuocete al malato e non lo aiutate ad aiutarsi, cioè a collaborare con voi per la cura.
A volte bisogna prendere lezioni dal passato: prendete ad esempio tanti medici condotti di una volta, con la loro umanità e spesso anche con la loro formazione umanistica, la loro cultura non solo medica; capivano di avere avanti un uomo, ne conoscevano la storia e la famiglia, e loro si, pur disponendo di poveri mezzi medici, rispetto ad ora, si prendevano cura di lui. Andate a lezioni di umanità da loro. Così curerete meglio lui e curerete anche voi stessi; vi motiverà, vi darà più risultati e alla fine farà bene anche a voi. Il bene è contagioso, almeno quanto il male.