Reem Alsalem, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, lo scorso luglio ha pubblicato un impressionante rapporto dedicato alla maternità surrogata che è stato discusso in ottobre all’assemblea dell’Onu. In quel testo, Alsaleem ha descritto l’utero in affitto come una forma particolarmente perniciosa di sfruttamento e abuso delle donne. Mercoledì scorso ha ribadito il suo pensiero di fronte al Parlamento europeo nel corso del convegno «La maternità surrogata: una sfida etica e politica per l’Europa», organizzato dagli eurodeputati di Ecr Paolo Inselvini, Bert-Jan Ruissen e Stephen Bartulica. A margine del convegno, la relatrice ha incontrato La Verità.
Quale è la sua definizione di maternità surrogata?
«Non esiste una definizione universalmente riconosciuta di maternità surrogata, ma come ho detto nel mio rapporto, la maternità surrogata si ha quando una donna o una ragazza in età fertile porta in grembo un bambino per un’altra persona o per una coppia, cioè coloro che diventano i genitori committenti. Può trattarsi di surrogazione tradizionale, quando la donna fornisce i propri ovuli che vengono poi fecondati da un donatore o da un’altra persona, oppure di surrogazione gestazionale, quando i gameti provengono da persone diverse dalla gestante stessa».
Perché questa secondo lei è una forma di violenza?
«La violenza contro le donne e le ragazze è definita come una forma estrema di discriminazione nei confronti delle donne in quanto donne, o come un trattamento che comporta gravissime violazioni dei diritti umani. Si tratta quindi di violenza psicologica, fisica ed economica contro donne e ragazze. E, per quanto riguarda la surrogazione, questa è una pratica sfruttatoria e abusiva che provoca danni enormi per le donne che agiscono come madri surrogate, ma anche per il bambino nato tramite surrogazione».
I difensori della maternità surrogata sostengono che sia un atto d’amore e spesso un gesto volontario. Le chiedo allora: se una donna sceglie volontariamente di donare, dov’è il problema?
«Questo in realtà non è vero. La maggior parte delle pratiche di surrogazione avviene in un contesto commerciale. Infatti, la maggior parte della surrogazione non esisterebbe se le donne o le ragazze coinvolte come madri surrogate non ricevessero un pagamento. Questo già dice che l’unica ragione per cui lo fanno - o comunque nella maggior parte dei casi - è perché vengono pagate, perché hanno bisogno di denaro. E la surrogazione altruistica a cui lei si riferisce, cioè le madri che lo fanno per dare gioia o per un gesto di bontà verso una coppia o una persona, esiste, ma in un numero davvero molto, molto ridotto di casi. È minima e praticamente quasi trascurabile. E questo tipo di narrazione viene spesso utilizzato dai media e dalla lobby della surrogazione per abbellire e rendere più accettabile la surrogazione, mentre la realtà è molto sinistra e molto oscura».
Quindi lei consiglierebbe di proibire la maternità surrogata in ogni parte del mondo.
«Nel mio rapporto suggerisco che dovremmo puntare ad abolire la surrogazione, abolire la domanda di surrogazione e contrastarne la normalizzazione. Perché normalizzare la surrogazione significa normalizzare la mercificazione e la commercializzazione della capacità riproduttiva di una donna, ma anche dei bambini. Significa normalizzare l’acquisto di bambini. E questo deve essere fermato. Ora, vedo molte analogie tra il sistema della prostituzione - che è anch’esso un sistema di sfruttamento di donne e ragazze - e la surrogazione».
E quali sono queste somiglianze?
«Entrambi fanno leva sulle difficoltà economiche e sull’emarginazione di molte donne che, per questo motivo, devono o si trovano costrette a vendere il proprio corpo o la propria capacità riproduttiva. Ma fanno leva anche sull’assenza pressoché totale di tutele in questo ambito, per quanto riguarda la surrogazione. Così i bambini nascono in una situazione di estrema vulnerabilità. Non esistono controlli sul passato dei genitori committenti. Il feto può essere abortito in qualsiasi momento se i genitori committenti lo desiderano. La madre, inoltre, cede il controllo sul proprio corpo alla clinica che funge da intermediaria e anche ai genitori committenti. E quindi diventa molto vulnerabile agli abusi e si ritrova spesso in situazioni che possono mettere seriamente a rischio la sua vita».
Lei ha parlato della commercializzazione del corpo della donna, che oggi va molto oltre la surrogazione. Si potrebbe dire che soprattutto in Occidente, nel mondo occidentale, la commercializzazione del corpo sia per certi versi la norma. Pensiamo all’esibizione dei corpi sui social network, ad esempio.
«Sono d’accordo con lei sul fatto che oggi ci sia una spinta a normalizzare anche la sessualizzazione, la “pornificazione” delle donne e delle ragazze e dei loro corpi, e a normalizzare la domanda di atti sessuali, l’acquisto di atti sessuali da parte, per lo più, di uomini e ragazzi. Si inducono psicologicamente donne e ragazze a pensare che sia perfettamente normale e previsto che loro rispondano positivamente a queste richieste di atti sessuali. Sono rese più accettabili le forme di sfruttamento sessuale, sia attraverso la pornografia sia attraverso la prostituzione, che sono presentate come percorsi economici possibili, che teoricamente rispetterebbero l’autonomia della donna. Tutto questo, come ho detto, serve a spingere la donna a pensare di essere “empowered” quando accetta di essere abusata sessualmente, sfruttata e venduta. È quindi molto preoccupante, e penso che significherà anche che, in termini di uguaglianza tra donne e uomini nella società, torneremo indietro. Non si può mai avere una società egualitaria quando è considerato perfettamente normale che i maschi pensino di poter comprare una donna o di comprare sesso da una donna in qualsiasi momento lo vogliano, e che lei debba rispondere favorevolmente».
Per tornare alla surrogazione, l’approccio italiano, secondo lei, quello tenuto finora dall’Italia, è valido, è un modello da seguire?
«L’Italia è una delle voci, credo, più forti a favore dell’abolizione della surrogazione e ha adottato misure concrete e molto positive per sradicare la surrogazione ed eliminarne la domanda. Penso anche che sia molto importante che l’Italia voglia attirare l’attenzione su questo tema, così da spingere altri governi a riflettere sulle conseguenze dannose della pratica, a condividere informazioni, a dare visibilità a tutto questo. L’Italia, per esempio, ha organizzato un evento collaterale a New York quando ho presentato il mio rapporto proprio per mantenere vivo il dibattito. Quindi sono fiduciosa che, con la leadership di Paesi come l’Italia che hanno preso decisioni molto nette per proteggere donne e bambini da questo sfruttamento e abuso, faremo progressi positivi. Come ho detto in numerose occasioni, per me è molto strano che una cosa come la surrogazione, che ha un impatto così grande e dannoso e che oltrepassa i confini, con un chiarissimo elemento transfrontaliero, non venga discussa con la stessa energia, attenzione e interesse di altri temi di natura transnazionale, come il terrorismo, il traffico di droga, la schiavitù o la tratta di esseri umani. C’è una forte reticenza a discutere di surrogazione, e questo ha permesso che gli abusi continuassero: ogni Paese fa da sé, non c’è un confronto intergovernativo né uno sforzo per armonizzare le politiche, ma neppure per proteggere le vittime».
In Italia si parla molto della violenza sulle donne da parte degli uomini. Secondo lei come bisogna intervenire su questo tema? E che cosa bisogna eventualmente dire, spiegare e mostrare ai ragazzi e alle ragazze?
«Uno dei diritti umani fondamentali riconosciuti a livello globale è il diritto alla dignità umana, presente nella Dichiarazione universale dei Diritti umani, insieme al diritto all’uguaglianza: siamo tutti nati uguali. Tuttavia, non parliamo spesso né di dignità né di uguaglianza. Dobbiamo quindi trovare un modo, nell’educazione e nelle scuole, per insegnare a ragazzi e ragazze che sono uguali tra loro, che devono trattarsi con rispetto e che non devono abusarsi o maltrattarsi a vicenda. E che le differenze biologiche tra loro non significano che i ragazzi siano migliori delle ragazze o che debbano controllarle o far loro del male. Penso quindi che ci siano modi per rafforzare questo tipo di insegnamenti nei curricula scolastici, ma anche in famiglia. Ovviamente, i bambini imitano ciò che vedono. Se, per esempio, vedono il padre essere violento verso la madre o maltrattarla, cresceranno con la tendenza a fare lo stesso. E poi, naturalmente, parliamo raramente del ruolo dei media che, come ho detto, condizionano le ragazze fin da piccole a pensare di dover adottare certi comportamenti, di dover agire in un certo modo, di doversi ossessionare per il proprio aspetto fisico per compiacere uomini e ragazzi, e che senza compiacerli e senza permettere di essere sessualizzate da loro, non valgono nulla. Quindi i media devono davvero cambiare rotta, perché contribuiscono in modo molto dannoso alla sessualizzazione e alla manipolazione delle donne e delle ragazze. E, ovviamente, anche lo Stato deve adottare misure e leggi per incoraggiare chiunque subisca abusi, inclusi i bambini, a denunciare. E se ci sono - Dio non voglia - episodi di abuso o violenza, dobbiamo assicurarci di proteggere prima di tutto il bambino o la vittima, e poi garantire l’accesso alla giustizia. Il problema oggi, purtroppo, in molte parti del mondo, anche in Occidente, è che i perpetratori di violenza contro le donne e le ragazze, anche in presenza di prove solide, spesso la fanno franca. Questo trasmette alle ragazze e alle donne, fin da giovani, l’idea che non abbia senso denunciare alcun crimine, perché gli uomini se la caveranno comunque; che l’equilibrio di potere è tale per cui non importa se l’abuso è avvenuto, non importa se ci sono prove: loro la passeranno liscia. Ed è un messaggio profondamente sbagliato da trasmettere».
Lei ha citato la differenza biologica. Da un po’ di tempo, questa parte, la differenza biologica è messa in discussione, in particolare dall’attivismo transgender. Secondo lei, questo tipo di attivismo mette in pericolo i diritti delle donne?
«Quando il diritto internazionale parla di “sesso”, si riferisce al sesso biologico. E il modo in cui i diritti umani parlano di sesso riguarda il divieto di discriminazione tra uomini e donne, sulla base dell’assunto - o dell’idea errata - che il maschio sia dominante o debba controllare o debba prevalere sulla persona di sesso femminile. Si afferma anche che qualsiasi associazione negativa dannosa legata all’essere femmina debba essere rimossa, eliminata. Dobbiamo quindi combattere gli stereotipi che associano l’essere maschio o femmina a ruoli molto specifici».
Ovvero?
«Come ragazza, non dovrei avere delle limitazioni nel fare il lavoro che desidero, nel vivere da pari, nell’esprimermi come voglio. Ora, se una persona ha un’identità di genere diversa dal proprio sesso, è libera di esprimerla. E nella maggior parte degli ambiti della società non ci sarà alcun conflitto tra il manifestare un’identità di genere diversa dal proprio sesso e gli altri diritti. Ci sono, tuttavia, alcune situazioni in cui dobbiamo proteggere gli spazi femminili».
Quali?
«Lo sport è uno di questi, e non perché vogliamo essere fastidiosi, ma perché esistono ottime ragioni per proteggere la categoria femminile. Proprio perché, come abbiamo detto, la donna non deve essere discriminata in quanto femmina, e deve essere protetta dagli abusi. Lo sport è uno di questi casi perché la scienza mostra che essere maschi nello sport conferisce determinati vantaggi, soprattutto se si è passati attraverso la pubertà. Questo significa che, se competi contro una donna, vincerai nel 99% dei casi. Quindi, se i maschi competono nelle categorie femminili, lo sport diventa ingiusto».
Altri ambiti?
«Un altro ambito riguarda i rifugi per vittime di violenza. Una donna può essere nuovamente traumatizzata e avere paura di entrare in un rifugio se un uomo si trova nello stesso spazio. Un terzo ambito sono gli spazi in cui le donne possono essere vulnerabili, come ad esempio le carceri. Non si dovrebbe collocare un uomo in un ambiente chiuso dove potrebbe usare i suoi vantaggi fisici contro le donne, soprattutto se quell’uomo ha precedenti di pedofilia o reati contro donne. Perché le dico tutto questo? Per dire che, nella maggior parte dei casi, non c’è conflitto tra identità di genere e diritti delle donne».
Ma…
«Ma ci sono spazi e situazioni specifiche in cui un conflitto esiste, e quando esiste, dobbiamo proteggere il diritto delle donne ad avere spazi sicuri, dedicati esclusivamente a loro. Lo stesso discorso, a mio avviso, si applica anche alle misure positive adottate per aumentare la partecipazione delle donne. In base alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, gli Stati devono adottare misure per migliorare, ad esempio, la partecipazione delle donne alla vita politica. Molti Stati hanno quindi introdotto quote per le donne in politica. Quelle quote devono rimanere femminili. Se un uomo che si identifica come donna vuole candidarsi, dovrebbe farlo fuori dalla quota femminile, perché altrimenti si mina lo spazio e si riduce la percentuale di donne che possono candidarsi».