2022-03-04
Rifugiati no vax: cortocircuito nel governo
Solo il 30% degli ucraini è immunizzato, ma in questo caso nessuna discriminazione: Pierpaolo Sileri annuncia che non servirà il green pass per i trasporti, basterà un tampone. Matteo Bassetti però lancia l’allarme: «L’emergenza porterà alla nascita di nuove varianti».Due ucraini su tre non sono vaccinati, ma scappano dalla guerra e da Vladimir Putin quindi non è che li si può trattare come i no vax di casa nostra e prenderli anche a male parole. «Ora serve solo di abbracciarli», garantisce Pierpaolo Sileri, sottosegretario alla Salute, che esclude (per ora) l’obbligo di green pass rafforzato. Ai rifugiati, la vaccinazione verrò solo «offerta». Ma un certo allarme c’è, come ammette il virologo Matteo Bassetti: «Attenzione, perché dall’Ucraina potrebbe tornare un fuoco di ritorno del Covid, con selezione magari di nuove varianti». Due terzi degli ucraini non sono vaccinati e quindi un problema c’è. Ma è un problema anche e soprattutto politico: il rifugiato che non si era voluto vaccinare (e magari persiste) non può essere mica brutalizzato. E se per pura combinazione finisce ospitato da un italiano ultracinquantenne e senza stipendio perché non si è fatto la puntura, che cosa dovrebbe pensare il renitente italico? Comunque la si metta, il cortocircuito è in agguato. Non serve un grande esercizio di memoria per ricordare come sono trattati, dalla politica, dal governo e dalla stampa a reti unificate, coloro che in Italia hanno scelto di non vaccinarsi. Sospesi dallo stipendio e da una vita normale, possono avere i motivi più vari ma vanno tutti a finire nel calderone dei no vax. Ma se il non vaccinato è ucraino, il discorso non può che essere diverso, e giustamente. I numeri non sono certi, ma secondo l’agenzia Reuters, alla vigilia dell’invasione, in Ucraina erano state somministrate 31.683.310 dosi di vaccini contro il Covid e questo farebbe ipotizzare che sia vaccinato il 35,7% della popolazione. Anche se va precisato che non è facile stabilire quanti hanno ricevuto almeno la seconda dose. In ogni caso, secondo Gimbe, due ucraini su tre non sarebbero immunizzati. E questo è oggettivamente un problema, per l’Italia e per le sue regole. I primi profughi sono arrivati a Roma e nel Lazio e ieri Sileri ha dovuto chiarire che al momento non c’è alcun obbligo di super green pass. «Lo status di rifugiato consente l’accesso alla nostra sanità, oggi o domani uscirà la circolare del nostro ministero, verranno fatte tutte le procedure, compreso il tampone per chi arriva e verrà offerta loro la possibilità di vaccinazione» ha detto il chirurgo grillino a Rai Radio1. Il vice di Roberto Speranza ha anche confermato che lo status di rifugiato «non prevede l’obbligo del super green pass, ed è chiaro che noi offriremo la vaccinazione, ma quello che serve alle persone che giungono da noi ora è un abbraccio». E per spostare i rifugiati su treni o bus, ci si limiterà a eseguire dei tamponi. Sempre dopo averli abbracciati.E però un certo allarme c’è e i virologi, spodestati repentinamente da generali ed esperti di geopolitica, stanno rientrando in servizio sui media. Matteo Bassetti, direttore del reparto malattie infettive del San Martino di Genova, a Radio 101 ha avvertito: «Attenzione, perché dall’Ucraina potrebbe tornare un fuoco di ritorno del Covid, con selezione magari di nuove varianti». La si potrebbe chiamare «variante Vlad», ma qui nessuno ha voglia di scherzare. «Oltre ad aiutare in maniera umanitaria le persone che arrivano dall’Ucraina», ha aggiunto Bassetti, «bisognerebbe aiutarli anche dal punto di vista sanitario, perché la popolazione ucraina è vaccinata per il 35%, che vuol dire che due terzi non sono vaccinati». Se ne sono accorti all’hub della stazione Termini di Roma, dove sono arrivati i primi profughi. L’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, ha assicurato che è stato fornito «accesso libero a tutte le procedure, dai test antigenici ai vaccini al rilascio della certificazione verde, e in più verrà assegnato a tutti il tesserino sanitario Stp (straniero temporaneamente presente), che consente di fruire dei servizi sanitari». Insomma, gli ucraini avranno libero accesso a tamponi e vaccini, com’è giusto che sia. Ma per il momento niente obblighi, come invece è stato stabilito per gli italiani. Con il tesserino sanitario Stp, i profughi potranno poi essere smistati in tutta Italia ed essere ospitati in centri o in abitazioni private. Ma perché così tanti ucraini non si sono vaccinati contro il Covid? Oggi non sarebbe facile trovare una risposta che non fosse meno che politicamente corretta, con una guerra in corso. Però il problema era stato analizzato lo scorso 16 novembre da Franco Venturini, editorialista del Corriere, in un articolo dal titolo «Ex Urss: i no vax vengono dal passato». «In Ucraina, che può disporre di vaccini occidentali, il tasso di vaccinazione è inferiore a quello russo (che era al 34%, ndr)», scriveva Venturini, per il quale «politologi e sociologi sono ormai convinti che non si tratta di qualità del vaccino o di dubbi sulla sua efficacia». Semplicemente, «in questa parte del mondo dove regnò l’Urss esistono piuttosto dei “no vax storici”, figli e nipoti di quella cultura sovietica, e prima zarista, nella quale era d’obbligo la sottomissione, ma segretamente covava la più assoluta diffidenza verso lo Stato in tutte le sue dimensioni». Sottomissione e diffidenza. Se aveva ragione Venturini, ucraini e italiani andrebbero tenuti lontani.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)