2024-11-18
Luca Ricolfi: «I ceti deboli ora stanno con Meloni»
Luca Ricolfi (Getty Images)
Il sociologo: «I consensi crescono con politiche di “sinistra”. E poi la gente capisce che le risorse sono scarse perché l’Ue ci tiene il fiato sul collo. Al Pd manca un blocco sociale: difende solo migranti e minoranze sessuali».Professor Luca Ricolfi la vittoria di Trump segna l’inizio di una nuova epoca oppure i cicli della politica negli Stati Uniti sono così brevi che non ha senso avventurarsi in troppe speculazioni?«Credo che nessuno possa dare una risposta solida. La durata del trumpismo dipenderà molto dalle circostanze. Da come andrà questa legislatura. Se l’economia tenesse, se i controlli alle frontiere con il Messico funzionassero, se i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente si spegnessero, l’unica questione diventerebbe come trovare un cavillo che permetta a Trump di correre per un terzo mandato. Ma se anche una sola di queste cose non funzionasse, o avesse esiti catastrofici, i democratici non faticherebbero a tornare alla Casa Bianca. Anche perché presumo che, nel frattempo, si saranno liberati degli aspetti più autolesionisti della cultura woke. E di questo, paradossalmente, dovranno rendere grazie a Trump».Da sociologo le chiedo se esiste una differenza fra l’elettorato che ha consentito a Trump di vincere nel 2016 rispetto a quello che ha decretato il suo trionfo oggi?«Alcuni analisti individuano nel voto degli ispanici, dei cattolici e dei giovani neo elettori i segmenti-novità del voto a Trump. Ma in realtà il vero macro-spostamento, che ha consegnato la vittoria a Trump è avvenuto dentro il campo democratico: Kamala Harris ha perso una quota gigantesca del voto andato a Biden. Difficile stabilire se ciò sia dipeso anche, come ipotizzo nel mio libro sul “follemente corretto” (uscito prima del voto), dal rigetto di una parte del mondo femminile per le politiche pro gender, e in particolare per i cambi precoci di sesso degli adolescenti, promossi dal vice di Harris (Tim Walz) quando era governatore del Minnesota».La nomina di Musk come tagliatore di teste nella pubblica amministrazione americana secondo lei è mossa dalla volontà di ottenere un semplice risparmio dei costi o nasconde forse la volontà della politica (quella che si confronta con l’elettore) di sbarazzarsi quanto più possibile dello stato amministrativo, cioè la burocrazia, vista come nemica?«Musk non mi sembra un Carlo Cottarelli o un Roberto Perotti che si imbarca in una spending review, inevitabilmente impopolare. Più facile che il suo compito sia di riesumare – e magari reinventare – politiche di deregulation spinta, care agli operatori economici fin dai tempi di Reagan».Trump sembra voler demolire due capisaldi della narrazione mainstream di questi anni: quella sul cambiamento climatico e quella del «follemente corretto» per dirla alla Ricolfi. Un’espressione dietro cui ci sta dentro un po’ tutto ma soprattutto la demonizzazione dell’Occidente e dell’uomo bianco. È lecito attendersi una reazione culturale profonda delle élite?«Distinguerei fra le élite economico-finanziarie e le élite burocratico-culturali. Le prime si adatteranno, cercando di sfruttare il nuovo sistema di incentivi e disincentivi che scaturirà dalle decisioni di Trump in materia ambientale. Quanto alle seconde, specie nel mondo dell’istruzione e della cultura, mi attendo una lotta all’ultimo sangue per difendere le postazioni conquistate in questi anni nei campus universitari, nella scuola, nell’editoria, nella pubblicità, nell’arte».La vittoria di Trump determinerà un cambiamento di narrazione a destra? In questi due anni di governo Meloni la parola d’ordine sembra essere stata quella quasi di smorzare i toni; insomma «farsi sistema». Le stesse dichiarazioni di Musk contro i giudici italiani hanno colto la destra di sorpresa. Quasi in imbarazzo.«Salvini e Vannacci a parte, la destra italiana mi pare linguisticamente ammansita. Non credo che si farà attrarre in beghe verbali e scontri politici estremi. Semmai mi aspetto che la consapevolezza che il vento soffia a destra non solo in America ma anche in Europa le dia tranquillità e determinazione. A partire dalla spinosissima questione dei migranti irregolari».Dall’insediamento del governo Meloni, gli occupati in Italia sono aumentati di 800.000 unità circa (solo nell’ultimo mese questo numero è leggermente diminuito). Berlusconi scandalizzò tutti nel 1994 per la promessa di un milione di nuovi posti di lavoro. E praticamente ci siamo quasi. Ma se non siamo in un momento di boom economico, lei come se lo spiega questo incremento?«Da quando la conosco, ossia dal 2014, Giorgia Meloni è sempre stata keynesiana (ossia pro occupazione) a modo suo. Dieci anni fa, dall’opposizione, fece sua una proposta della Fondazione Hume per introdurre il maxi-job, ossia una decontribuzione totale per le imprese che aumentano l’occupazione. Una volta arrivata al governo si è mossa su quella linea: incentivare le nuove assunzioni in modo più o meno mirato (giovani, donne, Sud, ecc.). C’è anche un altro fattore, però, alla base dell’aumento dell’occupazione: gli scarsi investimenti delle imprese e il conseguente ristagno della produttività del lavoro, per cui l’aumento della domanda viene coperto da nuova forza-lavoro, anziché da un uso più efficiente della forza lavoro esistente. È paradossale, ma funziona così: se investi molto in tecnologia ti bastano pochi addetti, se investi poco in tecnologia sei costretto ad assumere».Condivide la critica dell’opposizione secondo cui la qualità media dell’occupazione starebbe peggiorando?«Non so come facciano a sostenere una cosa del genere. I due indicatori fondamentali di qualità dell’occupazione sono la percentuale di lavoratori a tempo determinato e la quota di lavoratori a tempo parziale. Entrambi gli indicatori sono in netto calo da tempo. Quanto al part time involontario, i pochi dati disponibili segnalano una riduzione fra il 2022 e il 2023».La povertà in Italia continua a crescere con gli stessi tassi di crescita di sempre? Insomma, niente di nuovo sotto il sole?«Impossibile fare un bilancio serio. Gli ultimi dati ufficiali sulla povertà assoluta si riferiscono al 2023, e sono ancora provvisori: fra il 2022 e il 2023 le persone povere sarebbero passate dal 9,7 al 9,8%, una variazione al limite del margine di errore statistico. C’è anche da dire che la variazione 2022-23 dipende da misure assunte da Meloni, ma anche da misure assunte da Draghi. Per avere un’idea dell’andamento della povertà sotto questo governo dovremo aspettare i dati definitivi del 2023, e soprattutto le prime stime sul 2024: insomma, ne riparliamo la primavera prossima».Nell’audizione alla commissione Bilancio sul Piano strutturale di bilancio di qualche settimana fa, il presidente Istat metteva in discussione la fattibilità dell’abolizione della riforma Fornero. Secondo lei, professore, sono troppe in Italia le persone in età da lavoro che non sono occupate? Se fossero di più magari il sistema pensionistico sarebbe più sostenibile.«Certo, abbiamo il tasso di occupazione più basso dell’Unione europea (insieme a quello della Grecia), e questo rende insostenibili i conti della previdenza. Ma la strada maestra non è né tagliare le pensioni, né puntare esclusivamente sugli immigrati. La mossa cruciale, come suggerisce la sua domanda, è alzare drasticamente (anche se progressivamente) il tasso di occupazione, specie femminile. Questo permetterebbe non solo di alimentare il sistema pensionistico, ma anche di dare ossigeno ai bilanci famigliari, dove spesso c’è un solo reddito da lavoro. Per quel che capisco, è la filosofia di fondo che ispira la politica economico-sociale di Giorgia Meloni, in questo assai diversa da quella di Salvini e Tajani, molto più ossessionati dall’obiettivo di ridurre le aliquote».Professore, ma un elettore come decide il voto? Valuta razionalmente i programmi oppure decide da tifoso?«Domanda difficile. Da decenni gli studiosi notano pochi spostamenti fra i due schieramenti, e molti spostamenti interni. Questo significa che il rapporto di forza fra destra e sinistra viene deciso da due minoranze cruciali: gli elettori mobili, che prendono in considerazione entrambi gli schieramenti, e i “pendolari dell’astensione”, che a seconda della credibilità dell’offerta politica decidono se votare il proprio schieramento o astenersi. È questo, mi sembra, il meccanismo che penalizza la sinistra: qualsiasi cosa decida la coalizione, c’è sempre un segmento di elettorato progressista che – in odio a questo o a quello – preferisce astenersi piuttosto che votare turandosi il naso».Da sociologo secondo lei cosa preoccupa di più gli elettori italiani?«Nell’ordine: la sanità, il basso potere di acquisto, la sicurezza. Non essendo l’Italia un Paese razzista, la questione migranti sta tutta dentro la preoccupazione per la sicurezza».Al netto delle convulsioni politiche dentro il campo largo a sinistra, secondo lei c’è un blocco sociale di riferimento per l’opposizione nella società civile?«No, non c’è. Perché la sinistra di oggi – a differenza di quella di ieri – difende ideali, non interessi di specifici gruppi sociali. Con due sole eccezioni: gli immigrati (che per lo più non votano) e le minoranze sessuali (che sono meno del 5% della popolazione)».Il governo attuale non fa niente di straordinario ma il consenso tutto sommato sembra tenere. Lei come se lo spiega?«Per tante ragioni. Primo, il governo fa politiche di sinistra (sostegno ai ceti deboli). Secondo, Giorgia Meloni è simpatica. Terzo, la gente capisce perfettamente che le risorse sono scarsissime, perché l’Europa ci tiene il fiato sul collo. Ma non è ancora partita la campagna contro l’autonomia differenziata. Da valutare alla luce dei rilievi della Corte costituzionale. Ancora una volta, come nel 2019, potrebbero essere le intemperanze (o gli errori di calcolo?) di Salvini a restituire il potere alla sinistra. Sempre che la Corte non tolga le castagne dal fuoco al governo cancellando il referendum».
Beatrice Venezi (Imagoeconomica)