2018-06-20
Quando Licio Gelli scriveva a Parnasi: «Grazie per i doni»
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Sandro, il padre del costruttore romano arrestato nell'inchiesta sullo stadio della Roma, godeva di tante relazioni tra politica e burocrazia romana. Esattamente come oggi il figlio Luca. Tra i destinatari dei regali negli anni Ottanta c'è il numero uno della P2.Nel nome del padre. La storia di Luca Parnasi, il costruttore romano arrestato per corruzione nell'inchiesta sullo stadio della Roma, arriva da molto lontano. Bisogna partire dal padre Sandro, uno che negli anni Cinquanta nell'Italia del dopo guerra si era fatto da solo per diventare negli anni Settanta uno dei più importanti immobiliaristi della Capitale, per capire come quel modo di fare anni Ottanta, come scrivono i magistrati nell'ordinanza di custodia cautelare, arrivi da molto lontano. Era stato anche lui un finanziatore della politica italiana, proprio come il figlio, ma soprattutto era stato una pietra angolare dell'Italia della Prima Repubblica, quella della Dc di Giulio Andreotti, dove già all'epoca si muoveva con abilità Luigi Bisignani, lobbista dalle molteplici vite, indagato anche lui in questa inchiesta che mina le fondamenta della giunta di Virginia Raggi e quelle del governo gialloblù di Giuseppe Conte. P come Parnasi, P2 e P4. Per di più sono tanti i punti di raccordo tra il mondo della famiglia di palazzinari romani e quelle di logge deviate o presunte tali. Centri di potere che si rigenerano inchiesta dopo inchiesta, nonostante le condanne e la politica che cambia tutto per non cambiare nulla. E a tornare in partita con il governo sembra essere la stessa squadra che ha occupato caselle strategiche durante la grandeur degli anni Settanta e Ottanta fino agli anni post Tangentopoli, riciclandosi persino negli anni del Pd di Matteo Renzi.Gli affari con le benedizioni giuste non arrivano, e i Parnasi, in grado di far innervosire con la concorrenza pure il gruppo di Caltagirone, lo sanno bene. Tanto che, lavorando di archivio, si trova il nome di Sandro Parnasi tra la copiosa documentazione sequestra a Licio Gelli in quel di villa Wanda allo scoppio dello scandalo P2. Nei faldoni una lettera firmata di pugno dal venerabile della P2 indirizzata a Parnasi senior e datata 6 febbraio 1981: «rientrato da un lungo soggiorno all'estero per una "puntata" in Italia - si legge - ho trovato il magnifico dono che ha voluto inviarmi assieme agli auguri natalizi». Gelli per è di nuovo in partenza e può solo ringraziare per lettera «il graditissimo dono […] per il memore pensiero che esso sottointende». Un rapporto evidentemente cementato tra i due: tra le carte sequestrate a villa Wanda c'è pure una rubrica telefonica con i contatti di Sandro Parnasi e l'indirizzo di via Tevere al civico 48, sede storica della Parsitalia.Passano i tempi, ma non i regali. Basta leggere l'informativa dei carabinieri del Nucleo di Roma, nelle intercettazioni ambientali tra Parnasi e Bisignani per capire come funzionava questo presunto sistema corruttivo del figlio Luca. «Io pago tutti» dice intercettato. E di fronte ai magistrati si è difeso come spiegano i suoi avvocati, parlando di semplici relazioni ma non di un sistema corruttivo come sostiene l'accusa. E' un modus operandi che il gruppo Parnasi conosce bene, perché soprattutto durante la campagna elettorale, il costruttore finanzia la fondazione Eyu vicina al Partito democratico, esponenti politici di Forza Italia o del Movimento Cinque Stelle persino la nuova Lega di Matteo Salvini. Se ha commesso illeciti lo dimostrerà la magistratura, di sicuro è che il palazzinaro che voleva costruire il nuovo stadio della Roma sa bene come muoversi nei gangli della burocrazia statale. E chi è uno dei più profondi conoscitori di quel mondo? Luigi Bisignani.Il nome evoca molte suggestioni, e ritrovarlo nelle carte dell'inchiesta è indice di quanto l'ex giornalista dell'Ansa che stava così simpatico di Andreotti, si sia dato da fare una volta interpretato il vento in poppa di Lega e 5 Stelle. Sbriga faccende e suggerisce, tanto da finire nel registro degli indagati con l'accusa di concorso in tentata corruzione: dopo la condanna definitiva per l'affaire P4 l'uomo non si è perso d'animo, e la procura gli contesta un tentativo di corruzione nei confronti del presidente della Cassa Forense, Nunzio Luciano. Affari e relazioni, al limite della legge o perfettamente legali? D'altra parte la storia ritorna sempre. Sono almeno quattro i nomi che legano l'inchiesta che ha coinvolto Parnasi a quella appunto sulla cosiddetta P4. Non tutti sono indagati, ma la presenza dei loro nomi nelle intercettazioni rende il quadro ben definito. Oltre a Bisignani ci sono due uomini storicamente vicini al faccendiere (non indagati): Alessandro Bondanini della Four Consulting, società di consulenza riconducibile sempre a Bisignani, e Roberto Mazzei, commercialista, liquidatore della Parsitalia (la prima società della famiglia Parnasi, fondata dal padre di Luca, Sandro), ex presidente del Poligrafico «segnalato» all'allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti di nuovo da Bisignani, e con la benedizione dei renziani nominato sindaco sindaco dell'Enel nominato a giugno 2016.E guardando ai giorni della P2 un'altro punto di contatto: quei terreni all'Eur acquistati dai Parnasi per la nuova sede della provincia erano di Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro, due dei «quattro cavalieri dell'apocalisse», come li aveva definiti il giornalista siciliano Pippo Fava, e passati per la fallita Sicilcassa. I Parnasi li avevano avuti per meno della metà del loro valore reale acquistandoli durante la liquidazione della banca sotto la vigilanza della Banca d'Italia. «Su questa vicenda - raccontò in un intervista all'edizione romana del Corriere della Sera lo stesso Alessandro Parnasi - sono state dette diverse cose inesatte e diffamatorie». Da Gelli ai tempi del governo del cambiamento il passo è breve. Basta un Parnasi.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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