2018-04-09
Putin ed Erdogan si spartiscono i Balcani: la Serbia ai russi, il Kosovo ai turchi
Dopo che la Croazia è diventata l'alleato degli Usa nella regione, il Cremlino ha sostenuto la crescita militare di Belgrado, aumentata di 20 volte. Se l'Ue non saprà mediare, la competizione potrà essere molto rischiosa.Blitz degli 007 del Sultano: Pristina consegna sei uomini affiliati al dissidente Fethullah Gülen. Il governo locale è sempre più orientato verso Ankara, a discapito degli Stati Uniti.Lo speciale contiene due articoli.A cavallo tra il 2016 e il 2017 gli Stati Uniti d'America pensavano di stanziare in Slovenia la loro nuova brigata di pronto intervento per i Balcani. La visione strategica americana però si dovette scontrare con la dura realtà sociale e politica slovena, da sempre riluttante nei confronti delle collaborazioni nordatlantiche. Dopo una freddissima accoglienza riservata da parte dei vertici militari sloveni all'allora capo delle forze a stelle e strisce in Europa, il generale Ben Hodges, sceso a Lubiana per confermare le intenzioni, Washington è stata costretta a trovare una soluzione alternativa. Da allora la Croazia sta diventando per gli States l'alleato chiave nello scacchiere balcanico e il rinnovo del suo arsenale militare sta procedendo speditamente. In questo periodo dovrebbero esserci in arrivo gli elicotteri americani Kiwowa, i sistemi lanciamissili M270 e l'intera flotta dei vecchi Mig-21 croati sta per essere sostituita con caccia F16 provenienti da Israele (nazione, quest'ultima, che anche quest'anno in occasione del tradizionale Zagreb Security Forum di marzo, dedicato al settore della difesa e dell'intelligence, ha confermato il desiderio di una sempre più stretta partnership con la Croazia). A ciò si deve aggiungere che nel mese di ottobre del 2017 sono stati richiamati alle armi 18.000 cittadini, per essere divisi in sei unità di riserva a causa - secondo le valutazioni del ministero della Difesa di Zagabria - del continuo deteriorarsi della situazione geopolitica della regione. Le intenzioni croate erano state fortemente criticate nel gennaio 2017 dal presidente della Serbia, Aleksander Vučić, che all'epoca minacciò di rispondere all'eventuale riarmo del sempiterno rivale rivolgendosi a Mosca. E così è stato. In uno scenario nel quale il Kosovo fatica a diventare un vero Paese sovrano, la Bosnia Erzegovina sopravvive come Stato artificiale solo grazie ai continui flussi di denaro e ai controlli esteri, il Montenegro subisce l'azione disturbatrice di Mosca dopo essere passato alla Nato e la Croazia diventa un baluardo americano, i serbi rispondono rispolverando la mai sopita retorica dei Paesi non allineati, grazie alla quale Vučić è per ora riuscito ad ottenere il meglio dall'Occidente e da Mosca senza offendere nessuno. Se l'Europa si è fatta affabulare dalle continue garanzie del presidente serbo sulla sua volontà d'entrare nel mondo nordatlantico e ha allargato i cordoni della borsa con finanziamenti a favore di Belgrado, Vladimir Putin ha continuato a ricevere i leader serbi con i massimi onori, garantendo sostegno militare, sicurezza energetica e l'assenza di dazi tra Serbia e Russia. Per tali ragioni la Serbia ha rilanciato il suo riarmo spendendo negli ultimi mesi circa 300 milioni di euro, una cifra venti volte superiore a quella destinata alle forze armate dalla fine delle guerre in Jugoslavia negli anni Novanta. Sei Mig-29 da ammodernare son arrivati dalla Russia insieme a una quantità perfino eccessiva - data l'attuale cospicua disponibilità - di carri armati T-72s e autoblindo da ricognizione Brdm2, mentre nove elicotteri H-145 sono ostati acquistati, in onore alla par condicio del non allineamento, dalla europea Airbus.Durante la sua ultima visita allo stato maggiore, il presidente Vučić ha rassicurato il mondo intero che il suo Paese rimarrà neutrale, che farà di tutto per mantenere la stabilità nella regione, ma che non permetterà mai che qualcuno umili la Serbia e i suoi cittadini. Come ai tempi della Jugoslavia di Tito, in cui le esercitazioni militari al confine con le nazioni limitrofe di solito si utilizzavano per mandare messaggi politici, al riarmo ha fatto seguito un'esercitazione vecchio stile chiamata Combat 2018 alla quale, dal capo di Stato in persona, sono stati invitati gli ambasciatori accreditati a Belgrado. Come scritto nel documento strategico sui Balcani pubblicato a novembre dello scorso anno dal think tank Atlantic Council, gli Stati Uniti devono urgentemente ritornare nei Balcani e la regione deve diventare la cartina di tornasole delle capacità di gestione e collaborazione dell'Ue e della Nato. Gli ammodernamenti degli eserciti non sono certo un campanello d'allarme, se avvengono all'interno di strategie chiaramente definite. Avere due colonne portanti della difesa nei Balcani, tra loro in competizione, potrebbe perfino essere un buon metodo di bilanciamento dei poteri, ma il problema sorge se l'Unione europea anziché fungere da stabilizzatore diviene - a causa delle sue incapacità di comprensione della realtà balcanica - fattore destabilizzante capace di scatenare una competizione regionale potenzialmente suicida. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/putin-erdogan-balcani-kosovo-serbia-2557400295.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="erdogan-mette-le-mani-sul-kosovo" data-post-id="2557400295" data-published-at="1758240104" data-use-pagination="False"> Erdogan mette le mani sul Kosovo Ci deve essere dello sconcerto e tanto smarrimento nel dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America dopo che un Paese come il Kosovo, che agli Usa deve tutto, ha consegnato ben sei cittadini turchi ritenuti vicini alle posizioni del movimento d'opposizione guidato da Fethullah Gülen, residente in Pennsylvania ove si è autoesiliato dal 1999. Il blitz è accaduto pochi giorni dopo la visita dell'assistente del segretario di Stato responsabile per l'Europa ai vertici politici di Pristina. Il presidente turco Recep Erdogan ha addebitato a Gülen la responsabilità del fallito colpo di stato del 2016 e da allora, dopo che Washington ha negato l'estradizione del leader religioso, cerca in ogni modo di smantellare l'organizzazione a lui facente capo. Tra i principali obiettivi di Erdogan vi sono anche le scuole Yahya Kemal, istituti d'istruzione primaria e secondaria legati alla rete gülenista cospicuamente presenti nella regione balcanica fin dagli anni Novanta. Negli ultimi mesi sono state fortissime le pressioni esercitate sul governo del Kosovo e della Macedonia affinché queste venissero chiuse e gli insegnanti consegnati ad Ankara. Le ambasciate degli Usa sono intervenute per rovinare i piani turchi, ma a Pristina i servizi segreti di Ankara hanno inflitto una pesante sconfitta alla politica americana. Il 29 marzo l'agenzia di stampa turca Anadolu ha confermato che degli agenti del Mit, il servizio segreto turco, hanno prelevato in Kosovo e deportato in Turchia con un aereo privato sei presunti fiancheggiatori di Gülen. A poche ore di distanza il presidente Erdogan ha personalmente ringraziato i politici kosovari e la locale agenzia d'intelligence per la collaborazione insinuando, con un plateale e deliberato atto di manipolazione, che il presidente Hashim Thaci, da sempre vicino agli States, fosse stato preventivamente informato dell'operazione. Da quando a fine 2017 Hoyt Brian Yee, vice assistente del segretario di Stato americano per l'Europa centrale e i Balcani, ha dato le dimissioni a Washington il posto è rimasto vacante. Le persone titolate a tale responsabilità, a causa della continua gogna mediatica contro Trump, tendono ad evitare di ingaggiarsi a favore dell'attuale presidente, convinti che la cosa potrebbe nuocere alla loro carriera una volta che la situazione dovesse tornare «normale» tra le mura del potere americano. La mancanza di un collegamento costante con i litigiosi politici della regione, unitamente a chiare indicazioni strategiche da darsi all'apparato diplomatico Usa - recalcitrante per gli stessi motivi esposti poco sopra - porta a situazioni di stress nelle quali si inseriscono le potenze momentaneamente antagoniste dell'America. Nello specifico, in Kosovo l'azione turca sta destabilizzando il Paese. Il primo ministro, colto anch'egli di sorpresa come il presidente della Repubblica, ha licenziato in meno di 24 ore il ministro degli Interni e il capo dei servizi segreti, mentre i partiti d'opposizione incominciano a chiedere elezioni anticipate. In verità l'accaduto non fa altro che manifestare la realtà della politica kosovara, ovvero il fatto che essa sia divisa in due fazioni: quella pro turca e quella pro americana, a guida Thaci. La Turchia, che in Kosovo è proprietaria dell'unico aeroporto internazionale e del sistema energetico, ha vinto la mano di una lunga partita. Ha ampliato la propria sfera d'influenza nei Balcani e segnalato ai gülenisti che non sono al sicuro in nessun luogo del pianeta. Ma nei Balcani un episodio simile è solo l'attimo di una partita che si gioca allo sfinimento.
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco