2022-07-16
Puccini andava in convento a mangiar fagioli
Tra tutti, li preferiva al fiasco. Come quelli che gli preparava una delle sue sorelle, suor Iginia, a Vicopelago. Sono 17 le diverse tipologie coltivate nel territorio. Il grande compositore amava i piatti contadini della Lucchesia, poveri ma genuini, senza malizia.Se le opere liriche di Gioachino Rossini sono aromatizzate con tartufo e foie gras e il melodramma di Giuseppe Verdi olezza di parmigiano, culatello e zafferano, la musica di Giacomo Puccini profuma di zuppe e di fagioli. Cibi semplici, rustici, ma saporiti quelli amati dal grande maestro, com’è semplice e gustosa la cucina di Lucca, sua città natale. Sono piatti contadini, poveri ma genuini, senza malizia: minestra alla lucchese, fagioli all’olio, minestra di farro, ribollita, salsicce e fagioli, fettunta strofinata con l’aglio... Il tutto rigorosamente condito e benedetto con l’extravergine d’oliva dei colli lucchesi. Puccini stravedeva per i fagioli. È nel borbogliare della zuppa di legumi di mamma Albina, nel ronfare quieto dei fagioli nella marmitta che si formano le prime cellule del «Coro a bocca chiusa» di Madame Butterfly, del «Nessun dorma» di Turandot, di «E lucevan le stelle» di Tosca. Negli anni milanesi del conservatorio Puccini si sentì orfano di fagioli. Quelli delle trattorie non gli piacevano. Il 18 dicembre 1880 scrive alla mamma a proposito di fagioli «...non li potei mangiare a cagione dell’olio che qui è di sesamo o di lino». E così supplica la donna dandole, con molto rispetto, del lei: «Siccome ho una gran voglia di fagioli avrei bisogno di un po’ d’olio, ma di quello novo. La pregherei di mandarmene un popoino». Sesto di nove figli, arrivò dopo cinque femmine. La quinta, Iginia, nata due anni prima di lui si era fatta suora nel convento agostiniano di Vicopelago, poco fuori la cinta urbana. Giacomo le voleva un gran bene, ma ne voleva altrettanto ai fagioli al fiasco che lei gli preparava posando il vetro spagliucolato riempito d’acqua e fagioli con odori vari sulla calda cenere del grande camino del convento. Il maestro amava talmente i fagioli che li considerava un regalo degno di personaggi illustri: nel Natale del 1895 ne donò un sacchetto a Giulio Ricordi, il suo editore, accompagnandolo con una ricetta scritta di suo pugno, semplicissima: fagioli, salvia, qualche spicchio d’aglio, sale e pepe q. b. Diventato famoso e ricco il compositore assunse una cuoca: Isola Nencetti Vallini. A lei, quando era preso da qualche attacco di nostalgia, chiedeva di cuocere una pignatta di fagioli alla lucchese come li faceva la mamma.La Lucchesia è il territorio italiano che vanta il primato nazionale dei fagioli. Grazie alla Regione Toscana e all’Associazione degli agricoltori custodi di antichi semi di cereali e di legumi si sono recuperate varietà che si credevano perdute. Sono 17 i tipi di fagioli lucchesi la cui produzione è stata ripresa permettendo la riscoperta di sapori dimenticati. Il più famoso è il Fagiolo rosso diventato presidio Slow Food. La scheda dell’associazione fondata da Carlìn Petrini, oltre al Rosso, cita altri fagioli conosciuti da secoli: Aquila o Lupinaro, Canellino di San Ginese, Malato, Mascherino. «L’Accademia Italiana della Cucina», dice Daniela Clerici, «si sta battendo perché i ristoranti lucchesi, soprattutto quelli più antichi, non disperdano questa ricchezza». È quello che ha fatto Giuliano Pacini, cuoco de La Buca di Sant’Antonio, il locale più antico della città, documentato fin dal 1782. Pacini propone in menù i tipici Tordelli al sugo, la Garmugia, zuppa nata a Lucca nel XV secolo, la minestra di farro, la trippa di vitello alla lucchese. Già nel Settecento la coltivazione dei fagioli era essenziale per l’economia del territorio. Nello Statuto di Compito, località a una decina di chilometri da Lucca, una voce importante è riservata ai fagioli coltivati in quel territorio. Particolarmente attento al mondo dei campi fu il marchese Antonio Mazzarosa che ne Le pratiche della campagna lucchese (1846) dedica molte pagine alla coltura dei fagioli elencando varietà, tecniche colturali, rese e risultati economici. Proprio in villa Mazzarosa di Segromigno in Monte, dimora secentesca sulle colline lucchesi di Capannori, si è recentemente tenuto un incontro su verdure e frutti dimenticati organizzato dal Club del fornello di Lucca, associazione di donne (ci sono Fornelli in tutt’Italia) che difendono l’identità e la cultura gastronomica del territorio proponendo piatti tradizionali in manifestazioni gastronomiche e frugando negli archivi di famiglie storiche per riportare alla luce le ricette di nonne, bisnonne e trisavole. Racconta Anna Mazzanti, delegata del Fornello: «Al Desco, mostra di Sapori e saperi che si tiene al Real collegio di Lucca, abbiamo cucinato per 200 persone due classici della nostra cucina: i tordelli lucchesi (sorta di tortelli ripieni di carne) e i taglierini in brodo, piatto da scodella: taglierini, fagioli rossi lucchesi, trito di cipolla rosmarino e salvia e olio buono».Oltre ai fagioli testimoniano una civiltà contadina tramandata di generazione in generazione i cereali dai quali si ricavano pane e pasta, il vino e l’olio d’oliva. Poi c’è il maiale, salvadanaio della famiglia contadina. Da tutto questo bendidio nascono la zuppa alla lucchese; i topini (gnocchi) alla lucchese; i matuffi (strati di polenta di mais alternati con strati di sugo di varie carni); le rovelline, fettine di carne impanate, fritte e infine «rifatte» in sugo di pomodoro e capperi; i necci a base di farina di castagne. Dulcis in fundo il bucellato, pane dolce fatto con ingredienti poveri e arricchito di uvetta e semi d’anice.Un tempo poverissima e selvaggia anche la vicina Garfagnana vanta una tradizione gastronomica secolare, nella quale farro e castagne dettano legge. Ludovico Ariosto fu governatore di questa valle per tre anni e sette mesi, dal febbraio del 1522 al settembre 1525. Lo nominò il duca Alfonso I d’Este. Il poeta risiedette nella rocca di Castelnuovo dove avrebbe potuto, come fecero molti governatori prima di lui, godere degli agi di una piccola corte, banchetti compresi. Non ci sono documenti a testimoniarlo, ma c’è da credere che la poverissima cucina garfagnina non gli dispiacque, anzi. Le zuppe di cereali poveri, farro in primis, il pane di castagne, le tullore (una sorta di minestra di castagne), i castagnacci erano in linea col suo credo gastronomico: «In casa mia mi sa meglio una rapa,/ ch’io cuoca, e cotta su ’n stecco me inforco/ e mondo, e spargo poi di aceto e sapa,/ che a l’altrui mensa tordo, starna o porco/ selvaggio; e così sotto una vil coltre,/ come di seta o d’oro, ben mi corco». Più chiaro di così.Se il poeta Ariosto mandato dalla Romagna in Garfagnana visse molto male quell’esperienza, un altro poeta romagnolo, Giovanni Pascoli, scelse di viverci come in un eden: «Il mondo mi spaura e ho scelto la valle del bello e del buono e dove il tempo non corre». Quella di Pascoli fu una scelta molto meditata: a Castelvecchio, nel comune di Barga, trovò il «suo cantuccio d’ombra romita», il «nido» distrutto dopo l’assassinio del padre: una villetta dove visse fino alla morte con la sorella Mariù e il cane Gulì. Pascoli non tradì mai la cucina romagnola che gli preparava la sorella, ma apprezzò il «buono» della Garfagnana: la zuppa di farro, il pollo alla contadina, la zuppa alla frantoiana, il biroldo, un sanguinaccio assai popolare, il bazzone, un prosciutto così definito per l’osso che spunta ricordando una bazza, un mento decisamente accentuato.