2025-08-08
Magistratura, ponte, soldi al culturame: progressisti in ansia per gli ultimi fortini
Dalla giustizia al viadotto del Sud, fino alla stretta su cinema e teatri: la destra mai così vicina al cuore delle élite «rosse».Perché la magistratura strepita? Perché politici e tecnici d’area già minano il ponte sullo Stretto? Perché attori e registi salgono sulle barricate contro il governo? Di cosa hanno paura? Da un lato, è ovvio: le toghe non vogliono la riforma della giustizia; gli oppositori del viadotto tra Calabria e Sicilia lo considerano un’opera inutile e dispendiosa; gli artisti temono di restare a secco di finanziamenti ed evocano addirittura il pericolo della censura ideologica. Tutto vero. Fattuale. Ma è possibile che ci sia qualcosa di più? Che non solo la sinistra partitica, ma in generale i fortini istituzionali abitati da caste progressiste sentano minacciata la sovranità sui propri feudi? Temono forse che Giorgia Meloni possa riuscire laddove Silvio Berlusconi fallì?Il sospetto è fondato. Nell’arco di un mandato, la maggioranza di centrodestra sta realizzando ciò che, per un ventennio, il Cavaliere ha potuto soltanto vagheggiare. O minacciare, senza che i vari progetti raggiungessero uno stadio avanzato. Mai quella coalizione, benché il secondo esecutivo di Berlusconi detenga tuttora il primato del più longevo nella storia della Repubblica, era riuscita a cambiare il sistema giudiziario. Mai a piazzare non diciamo una pietra, bensì a dare il semplice via libera ai cantieri per il ponte nel Mezzogiorno. Mai a intaccare il circolo del culturame. Anzi: quelli in cui il Cav stava a Palazzo Chigi erano ancora gli anni in cui bastava un Nanni Moretti per trascinare centinaia di migliaia di «girotondini» in piazza. Soprattutto, erano gli anni in cui gli attivisti avevano la forza di fare le veci degli allora Ds, quando i Ds avevano perduto lo slancio. Di ossigenare i polmoni degli ex comunisti quando gli ex comunisti erano in crisi respiratoria. Era anche il periodo in cui gli appelli contro i tentativi della Casa delle libertà di modificare la Costituzione venivano firmati da giganti: Norberto Bobbio, Gennaro Sasso. Era il periodo in cui le cancellerie straniere potevano orchestrare la destituzione di un presidente del Consiglio. Ed era il periodo in cui il referendum costituzionale si preannunciava subito come una caporetto per il centrodestra. Ora, chi mobilita le coscienze contro il fascismo eterno? Elio Germano? Persino nel castigare il potere con le risate, il livello della sfida si è abbassato: prima tuonava Sabina Guzzanti, adesso cinguetta Zoro. Quanto al referendum confermativo sulla separazione delle carriere - il sogno del fondatore di Forza Italia - la partita è aperta: l’ultimo sondaggio di Swg contava un 44% di intervistati a favore della legge, un 21% di orientati a votare no e un grande bacino di indecisi o propensi all’astensione, pari al 35%. Soprattutto, colpisce che, mentre tra i sostenitori di Fdi, Lega e Fi, l’82% sembra disposto a recarsi alle urne per far passare la riforma, solo il 42% degli elettori dell’opposizione sarebbe disposto a votare no, mentre il 23% appoggerebbe Carlo Nordio e il 35 deve ancora decidere. È questa tendenza a spiegare le radici più profonde dell’agitazione che si palpa a sinistra. Se alla Meloni riuscissero i tre colpi simbolici e, magari, pure qualche successo nel controllo dell’immigrazione, il campo avverso, più o meno largo, avrebbe di che preoccuparsi. Intanto, sarebbe la dimostrazione che la società è cambiata, che l’opinione pubblica e la maggioranza silenziosa non si vergognano più di pendere a destra, che il jolly dell’antifascismo è diventato come il due di coppe quando comanda bastoni. Poi, se ne dedurrebbe che nessun fortino è più inviolabile, che l’élite non può più considerarsi al riparo in nessun santuario. Sì, a Pd e compagni rimane il potere della stampa. Ma di una stampa che ha perso il potenziale persuasivo anche per essersi prestata a qualunque operazione di puntellamento del pensiero unico. Dopodiché, che resta? Una volta esistevano i sindacati. Oggi invocano la cittadinanza facile e finiscono presi a sberle dal loro stesso popolo. L’esito del confronto è ancora da definire. L’osso più duro sono i magistrati, i quali giurano di agire in maniera indipendente dal braccio di ferro con il governo, ma hanno dimostrato di poter colpire duro e in profondità, dal dossier Almasri al protocollo albanese. Né la tornata di nomine alla Consulta sembra sia stata sufficiente a riequilibrarne l’orientamento. Ma quella categoria non è compatta, non risponde a logiche organiche, non è controllabile: prova ne siano le randellate alla giunta Sala e a Matteo Ricci. La maggior parte delle toghe, in fondo, lavora con serietà ed equanimità.Non è manco detto che si riesca ad andare fino in fondo: il referendum può fallire; la revisione del meccanismo delle sovvenzioni ai film può risultare inefficace; i declassamenti dei teatri «rossi», tipo la Pergola di Firenze, si sono tradotti lo stesso in generosi aiuti; il ponte sullo Stretto, al momento, è un rendering digitale. Ma il governo è andato più avanti che mai. E la sinistra fa i conti con lo sfilacciamento del suo soft power. Ha poco da sperare anche dal vincolo esterno: la Germania non difende più a spada tratta il rigorismo europeo; il nostro bilancio statale è in ordine; la tempesta dello spread è lontana; e la Meloni, presso le cancellerie straniere, gode di una stima e di un prestigio che Berlusconi si giocò prestissimo. La sua faccia, sulle copertine dei magazine internazionali, non compare a scopi di denigrazione. La destra non è più reietta, ha costruito una rete globale. Ecco perché la sinistra ne ha così paura: ormai, la sente abbaiare ai suoi confini.
lUrsula von der Leyen (Ansa)