2024-10-09
Nascosero le prove nel processo Eni. Condannati a 8 mesi i due pm di Milano
Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale (Ansa)
De Pasquale e Spadaro non depositarono gli atti che svelavano le bugie del supertestimone e scagionavano gli imputati.Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, pubblica accusa nel processo Eni/Shell Nigeria, hanno nascosto prove agli imputati e per questo sono stati condannati in primo grado a 8 mesi di carcere: rischiano anche una condanna pecuniaria, cioè milioni di euro di danni che però alla fine potrebbe pagare lo Stato, cioè noi cittadini. Si chiude così il primo grado del processo a carico de pubblici ministeri che più di 10 anni fa avevano iniziato a indagare su una famigerata tangente da un più di un miliardo di dollari per l’estrazione di petrolio e gas in un giacimento nigeriano. A distanza di un decennio, oltre all’assoluzione definitiva nel 2022 di tutti gli imputati di un processo costato in spese legali decine di milioni di euro, il tribunale di Brescia ha riconosciuto la colpevolezza di De Pasquale e Spadaro. Il collegio, presieduto da Roberto Spanò, nel dichiarare i due responsabili di rifiuto d’atti d’ufficio, ha concesso le attenuanti generiche e la sospensione condizionale della pena con la non menzione. In questo modo i due rimangono al loro posto. Possono continuare ad «amministrare giustizia» nonostante abbiano ricevuto una condanna in primo grado per aver cercato di influenzare un processo. De Pasquale, già sospeso dal Csm nelle sue funzioni di procuratore aggiunto, è in forza alla procura di Milano. Mentre Spadaro è già da tempo alla procura europea. I giudici li hanno anche condannati al pagamento delle spese in solido con la presidenza del Consiglio da liquidare in separata sede alla parte civile Gianfranco Falcioni, l’ex viceconsole onorario per l’Italia in Nigeria e tra gli assolti del processo milanese: dovranno pagare da un minimo di 620.000 a 20 milioni di euro, a seconda della decisione del giudice. Se non potranno pagare di tasca loro, toccherà a palazzo Chigi, cioè allo Stato. «È una sentenza giusta. I pm sono magistrati tanto quanto lo sono i giudici. Non possono e non devono nascondere le prove anche quando non sono favorevoli all’accusa» spiega l’avvocato Pasquale Annicchiarico, che insieme con Filippo Schiaffino segue Falcioni. «È un precedente pericoloso perché mette in discussione un principio fondamentale che è poi quello della autonomia delle scelte processuali di un pubblico ministero» replica invece l’avvocato Massimo Dinoia, che segue De Pasquale e Spadaro e che chiederà l’appello. In ogni caso, il collegio presieduto da Spanò ha riconosciuto anche che il lavoro svolto in quei mesi dall’aggiunto Paolo Storari (all’epoca al lavoro su un’indagine collegata) era più che corretto. Era stato l’attuale magistrato che sta indagando sulle curve di Milan e Inter, a inviare ai due pm (come anche all’ex capo della procura Francesco Greco) informazioni che dimostravano la falsità degli elementi che erano stati forniti alla pubblica accusa da Vincenzo Armanna, l’ex manager Eni che aveva assunto il ruolo di principale accusatore degli imputati del processo. Per di più proprio Storari li aveva sollecitati, con una mail del 19 febbraio 2021, a utilizzare quei documenti mettendoli a disposizione del tribunale e delle difese. Ma sia De Pasquale sia Spadaro si rifiutarono, nonostante avessero l’obbligo in quanto pubblici ministeri: quelle prove avrebbero dimostrato l’assoluta mancanza di credibilità di Armanna. Nello specifico non erano stati depositati diversi messaggi di Whatsapp e alcune mail da cui era emerso che Armanna aveva pagato 50.000 dollari a due testimoni del processo, ossia Timi Ayah e Isaac Eke. Proprio quest’ultimo avrebbe dovuto confermare di aver visto «gli italiani» imbarcare trolley pieni di denaro contante, ovvero la tangente, su un aereo per portarli ai vertici di Eni. In altre comunicazioni occultate dai pm, lo stesso Armanna spiegava a Mattew Tonlagha, amministratore della società nigeriana Fenog (altra società coinvolta nella vicenda) come testimoniare contro Claudio Descalzi e Claudio Granata, amministratore delegato e responsabile risorse umane del cane a sei zampe. Non solo. Agli atti del processo non sono mai state depositate le note della società Vodafone, del quelle del 3 e 14 dicembre 2020 — contenute in un’annotazione della Guardia di finanza depositata nel il 14 gennaio 2021, da cui era desumibile che le chat riportate ed esaminate nella medesima annotazione, «apparentemente intercorse su Whatsapp tra Armanna e Descalzi» e poi su «Telegram tra il primo e Granata fossero materialmente e ideologicamente false giacché nel 2013». Ma soprattutto De Pasquale e Spadaro non hanno mai depositato il video di un incontro del 28 luglio 2014 dove proprio Armanna (insieme con Piero Amara e altri) spiegava di volersi rifare contro l’Eni dopo il licenziamento. «Perché la valanga di merda che io faccio arrivare in questo momento. con la valanga di merda che sta arrivando, vedrete che accelererà», diceva il manager siciliano poco prima di recarsi proprio da De Pasquale per far partire l’indagine. Quel video, il capo della procura Francesco Greco lo aveva trasmesso il 12 aprile 2017, quando il processo era ancora in fase di udienza preliminare. Non è mai stato messo agli atti. Mentre la valanga di merda si è ritorta contro Armanna e soprattutto su chi si era fidato di lui.