2025-01-10
        Prima ha spalancato l’Italia alla Cina. Ora Prodi fa il sovranista anti Musk
    
 
Il Professore ha criticato il governo sull’accordo per l’uso del sistema satellitare del miliardario. Ma è stato lui a favorire la tecnologia di Pechino nel nostro Paese. E non hai mai frenato le mire dei francesi sulla Penisola.Sui rapporti tra il governo italiano ed Elon Musk, buon ultimo è arrivato pure Romano Prodi. L’ha fatto prendendo alla larga la questione Starlink e concentrandosi sulle tecnocrazia di destra. Così, dal solito salotto tivù di sinistra, l’ex numero uno dell’Ulivo ha attaccato sia Giorgia Meloni sia Ursula von der Leyen. «Non dice niente», ha detto riferendosi alla seconda, «delle interferenze di Trump in Germania, in Gran Bretagna, in Italia. Il sovranismo si ferma all’obbedienza» ha detto ancora l’ex premier. «Su Starlink, l’accordo col governo darebbe in mano a Musk tutti i dati che riguardano il nostro Paese. È il momento che il governo decida se dare in mano ad altri la propria vita. Il vantaggio di Musk è che ha a disposizione una tecnologia pronta e potente. Non so se il governo firmerà, ma queste cose vanno fatte con una prudenza enorme e garanzie che non credo il nostro esecutivo sia in grado di ottenere. Così come sembrano essere le cose, io non firmerei. E l’idea che il rappresentante di uno Stato come è Musk si impadronisca di una realtà fondamentale di un altro Paese è un rischio enorme per la democrazia», ha concluso disegnando un profilo di un’Italia tutta sommersa da totalitarismo e controllo digitale sulle masse. Sappiamo bene che nemmeno il politico di lungo corso crede a tale rischio. Si tratta di presidiare posizioni politiche e accordi di massima che separano blocchi geopolitici da altri. È valso per anni dentro lo scacchiere Ue, quando non ci risulta che Prodi si sia mai speso per fermare le mire francesi sull’Italia. Salvo qualche critica a posteriori. Parliamo di banche, infrastrutture e aziende del Made in Italy. Ma, soprattutto, il ragionamento vale per le mire cinesi.Il 7 agosto del 2020 era presidente del Consiglio Giuseppe Conte. In quel momento la tecnologia più all’avanguardia nelle telecomunicazione era il 5G. Usiamo il passato perché, sebbene siano trascorsi solo quattro anni e mezzo, di acqua sotto i ponti ne è passata tantissima. La guerra in Ucraina ha cambiato le regole di ingaggio e ha reso le telecomunicazioni via satellite la punta di diamante della tecnologia in via di evoluzione. All’epoca, dunque, il 5G era l’equivalente dello Starlink di oggi. Non per fare un parallelismo tecnico ma per l’attenzione politica di cui era oggetto da parte di Ue, Usa e Cina. Ecco, in quell’estate ancora interessata dal Covid, Conte provò notte tempo a far passare un decreto che avrebbe fornito a Huawei un notevole vantaggio nelle fornitura italiane. Nei mesi precedenti, Conte ne aveva già sfornato altri, ma quello specifico avrebbe creato una rottura definitiva con gli Usa e messo a rischio veramente i dati degli italiani. Nonostante le aziende cinesi abbiano sempre negato l’utilizzo di backdoor dentro i sistemi, numerosi casi di hackeraggio hanno dimostrato che entità cinesi sono riuscite a gestire banche dati da remoto utilizzando interi pacchetti di device. Come i rooter. Non vogliamo entrare nei dettagli da nerd, ma la tematica era così bollente da far sobbalzare mezza diplomazia atlantica. Eppure Romano Prodi, all’epoca, non disse nulla. Zero. Niente che potesse mettere in difficoltà aziende cinesi. D’altronde, il primo vero accordo bilaterale sullo scambio tecnologico tra Italia e Repubblica popolare cinese è stato firmato nel novembre del 2006 (Massimo D’Alema ministro degli Esteri) ed era frutto di visite e incontri maturati nel 1998. Guarda caso quando il premier era lo stesso Prodi.Così quando accusa Meloni di ubbidire alla politica estera americana e, indirettamente, di scambiare un interlocutore privato per un interlocutore politico, si lascia scappare il senso di timore. Il suo. La paura che, dopo quasi 25 anni, qualcuno possa annullare cinque lustri di politica europea frutto ed eredità degli anni in cui il professore di Bologna è stato a Bruxelles a fare il commissario. Teme evidentemente che adesso, senza la filiera dei Clinton e di Obama dall’altra parte dell’oceano, i rapporti di peso possano invertirsi. Nei primi anni del Duemila, il commercio con la Cina è aumentato del 700% e, lungo la Penisola, abbiamo assistito alla prima grande moria di aziende. Quello era il frutto dell’ingresso di Pechino nel Wto. Gli effetti dello scambio tecnologico (ci riferiamo all’accordo del 2006) li abbiamo visti dopo. Un enorme depauperamento delle medie industrie italiane. Ma nessuno dalle parti di Prodi ha fatto ammenda ci sembra. Anzi, la strategia non è cambiata. A cambiare sono solo i pacchetti tecnologici. Infatti, recentemente, a spuntare in Cina assieme al fondatore dell’Ulivo vi erano John Elkann e, addirittura, il presidente Sergio Mattarella. L’occasione ha permesso a Stellantis di allargare i propri rapporti con il Dragone, rapporti che culminano nella joint venture con il mega produttore di batterie Catl. I due gruppi assieme vogliono investire oltre 4 miliardi di euro in una fabbrica. Non in Italia, ma in Spagna. Solo che oggi è sorto un problemino.Gli Stati Uniti hanno messo Ctal nella black list perché opererebbe per conto del Pcc e di strutture riconducibili ad attività fuori mercato. Sarà un bel problema per Elkann portare avanti l’accordo e sperare di rilanciare il brand negli Stati Uniti, soprattutto con un Trump alla Casa Bianca. Ecco che tutto si tiene. A far paura è la coppia Musk-Trump. La democrazia, però, non conta. Conta il potere e la capacità di metterlo a terra.
        La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
    
        Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
    
        Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
    
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico. 
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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        Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)