2023-02-23
Prima di coprire d’insulti Berlusconi Zelensky guardi la sua «democrazia»
Volodymyr Zelensky (Ansa)
Due inviati italiani sono ostaggi degli ucraini per un report tra le truppe russe, il repulisti dei corrotti risparmia i fedeli del presidente, che intanto ha bandito le opposizioni. È questa la «libertà» per cui dobbiamo lottare?Dice Volodymyr Zelenskyy - per motivarci a inviare più armi e farci digerire i danni non secondari all’economia emersi in questi mesi - che «in Ucraina difendiamo la libertà e la democrazia». Forse anche perché queste frasettine le abbiamo già sentite prima che su nazioni come l’Iraq e l’Afghanistan piovessero tonnellate di bombe (e dunque non ci sfugge la doppia morale del discorso), ci permettiamo di covare qualche perplessità. Quasi tutti, sul fronte occidentale, ripetono che la Russia di Putin sia una orrenda dittatura, una sorta di Urss fusa con la Germania nazista. Bene, mettiamo pure che sia vero. Resta comunque un piccolo punto interrogativo riguardante il tipo di libertà e di democrazia che si praticano a Kiev e che noi stiamo difendendo pagando costi non secondari.A tale proposito, ci sono alcune vicende che meritano un minimo di approfondimento. La prima è quella che vede protagonisti alcuni giornalisti italiani, inviati sul campo che da diverso tempo trasmettono corrispondenze dall’Ucraina ai media italiani. Non se ne parla granché (anzi, non se ne parla quasi per niente), ma questi inviati si trovano in una situazione abbastanza complicata. Due di loro, Andrea Sceresini e Alfredo Bosco, hanno scritto ieri un articolo sul Manifesto per spiegare che cosa stia accadendo. «Quello che sappiamo è che ormai da 16 giorni i nostri accrediti militarti sono stati sospesi. L’Sbu, il servizio di sicurezza di Kiev», scrivono i due cronisti, «non ci ha ancora convocati per interrogarci, nonostante le continue sollecitazioni nostre e della Farnesina. È dal 6 febbraio […] che ci troviamo in queste condizioni. Non possiamo lavorare e restiamo in attesa di una convocazione che non arriva mai». Il loro gancio sul territorio, il fixer ucraino che avrebbe dovuto accompagnarli in giro, sostiene che i giornalisti italiani siano «sospettati di collaborare con il nemico». Perché? Beh, a quanto pare i colleghi avrebbero avuto l’ardire di realizzare alcuni reportage nei territori gestiti dalle milizie separatiste filorusse. Curiosamente, non si trattava di articoli di propaganda russa: al contrario, quei reportage intendevano fare luce su alcuni oscuri maneggi che avverrebbero in quelle terre. Tanto è bastato, sembra, per far entrare Sceresini, Bosco e altri nella lista nera.La conclusione dell’articolo dei due inviati è piuttosto pregnante: «Se passerà questo principio - cioè che chiunque sia stato “dall’altra parte” cercando di raccontare questo conflitto a tutto tondo, in modo critico e senza sventolare alcuna bandiera, debba essere automaticamente considerato un nemico, allora il rischio è che un domani […] non ci saranno più reportage, ma solo comunicati stampa e veline. A Mosca già funziona così. E a Kiev?». La domanda non è affatto peregrina. E si unisce ad altre che da mesi restano senza risposta. Noi ci auguriamo che la situazione di Bosco e Sceresini sia risolta quanto prima, sarebbe un ottimo segno. Ma, contemporaneamente, fatichiamo a dimenticare come altri giornalisti - accusati di essere filorussi - siano finiti nei database ucraini indicati come traditori da abbattere. E non dimentichiamo nemmeno la sorte toccata a Andrea Rocchelli, fotoreporter morto in servizio di cui non si fanno mai celebrazioni per un motivo semplice e triste: lo hanno ucciso gli ucraini, cioè i buoni, quindi non se ne deve parlare.Non ci azzardiamo nemmeno a proporre improbabili paragoni sul modo in cui vengono trattati i giornalisti altrove, e sui rischi che corrono. Ci permettiamo soltanto di notare che, se lo scopo di tutti questi sforzi e della carneficina in atto è quello di difendere la libertà e la democrazia, beh, forse ci sono modi migliori di procedere. E non soltanto nei rapporti con la stampa. Fulvio Scaglione, sull’ultimo numero di Limes, ha fornito un quadro piuttosto esaustivo (e inquietante) delle epurazioni condotte dal presidente ucraino negli ultimi mesi. Uomini delle forze armate, banchieri, titolari di aziende: tutti finiti sotto la mannaia della lotta alla corruzione. «Si ha la sensazione», scrive Scaglione, «che al di là dei singoli casi in questo presunto repulisti ci sia una discreta quota di cosmesi, per mostrare al mondo che cambia tutto mentre cambia poco. Primo, saltano solo i vice. Il vero cerchio magico zelenskiano ancora una volta ne esce indenne. Secondo, i governatori e i politici locali quasi mai appartengono a Servo del popolo, il partito del presidente, che alle elezioni amministrative del 2020 fu sconfitto praticamente ovunque. Terzo, la purga resta la risposta tipica di Zelensky nei momenti di difficoltà». Certo, in guerra vale praticamente tutto. Ma sia concesso porsi almeno qualche domanda, soprattutto dopo che il presidente ucraino ha di fatto sospeso l’attività di undici partiti d’opposizione accusati d’intelligenza con il nemico russo.Comunque sia, è ben curiosa una guerra condotta in nome della democrazia in cui è vietato dissentire, e i critici sono silenziati o dileggiati. E il discorso non vale soltanto per Zelensky (che ha la parziale scusante di essere a capo di una nazione su cui piovono bombe), ma anche - e forse soprattutto - per noi. Un filo di stupore, tanto per essere chiari, lo suscita pure il trattamento riservato nelle ultime ore a Silvio Berlusconi, su cui il presidente ucraino ha fatto amara ironia durante le interviste con i principali quotidiani italiani e poi ancora in conferenza stampa con Giorgia Meloni presente.Vero, il Cavaliere non era stato tenero con Zelensky. Ma la sua restava pur sempre una valutazione politica, per quanto ruvida. Non solo: Berlusconi - maldestramente fin che volete - ha espresso un pensiero che, stando ai sondaggi, è condiviso da una buona fetta di italiani. Il presidente ucraino prima ha ironizzato sull’invio di bottiglie di vodka ad Arcore, poi ha colpito duro, dichiarando che Silvio parla perché la sua casa non è stata bombardata dai russi. Di nuovo: sarà anche vero, ma resta che Berlusconi è nato nel 1936, e fino a prova contraria una guerra l’ha vissuta, e anche piuttosto brutale.Il fatto è che Zelensky, come del resto tutti i suoi sostenitori dalle nostre parti, ha fornito una risposta emotiva a un problema politico. L’emotività va benissimo quando si tratta di ammaestrare le folle, di spingere alla mobilitazione totale e di tenere alto il morale durante una guerra. Tuttavia, nelle democrazie, la risposta emotiva deve a un certo punto lasciare spazio al ragionamento politico, il quale per definizione deve coinvolgere tutta la polis, non soltanto i pochi che l’amministrano. Ecco, non ci risulta che in questa fase del pare di una larga parte di questa polis venga tenuto conto. Non risulta che le critiche trovino spazio, o che sia possibile un confronto serio, lucido e smarcato dall’ideologia. Quando lo si fa notare, solitamente ci si sente rispondere che a Mosca va peggio. Sia pure: ma visto che l’Occidente ama raccontarsi migliore della Russia, sarebbe anche ora che provvedesse a dimostrare di esserlo.
Jose Mourinho (Getty Images)