
Spesi solo 5,1 miliardi su 13,7 del Pnrr
Com’è che dicevano? Soltanto uno come Mario Draghi avrebbe potuto spendere al meglio i soldi dell’Europa, senza sprechi, senza favoritismi e senza lungaggini. Per non sciupare la storica opportunità del Recovery Fund non si doveva lasciare l’iniziativa ai partiti: ci voleva la competenza di un tecnico come l’ex presidente della Banca centrale europea. La più potente giustificazione alla base della nascita di un governo di emergenza nazionale era questa. Eppure, a quattordici mesi dal suo insediamento il “governo dei migliori” non sembra proprio impeccabile nell’attuazione del Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza con cui l’Italia spenderà (forse) gli oltre 190 miliardi, tra sovvenzioni e prestiti, sbloccati da Bruxelles. A certificare le difficoltà nello spendere i soldi preventivati è stata giovedì la presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) Lilia Cavallari, intervenendo in audizione davanti alle commissioni bilancio di Camera e Senato riunite in seduta congiunta.
QUEL DEFICIT COSÌ BASSO
Il tema in discussione era in realtà il Documento di economia e finanza approvato dal consiglio dei ministri lo scorso 6 aprile. In quel documento il governo riporta il dato sull’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche nel 2021 indicato dall’Istat due giorni prima: un 7,2% del Pil molto inferiore non solo al 9,6% registrato nel 2020 ma anche al 9,4% che il governo ancora lo scorso ottobre prevedeva per il 2021.
Ebbene, secondo l’Upb un peso importante in questa imprevista riduzione del deficit atteso l’hanno avuto proprio i ritardi nella realizzazione degli interventi collegati al Pnrr. In particolare nel 2021 sono stati effettivamente spesi 5,1 miliardi di euro invece dei 13,7 miliardi previsti. Non basta: di quei 5,1 miliardi, secondo l’ufficio che vigila sulla finanza pubblica, «la maggior parte» è stata destinata a «progetti già in essere (e quindi finanziati tramite prestiti sostitutivi, senza impatto sul deficit), secondo quanto indicato dal ministro dell’Economia nella sua audizione sul Pnrr tenuta presso alcune commissioni parlamentari della Camera e del Senato nello scorso febbraio».
E mentre la spesa per gli interessi sul debito pubblico rimaneva «stabile al 3,5% del pil», a determinare un indebitamento annuo meno alto delle previsioni è stato anche un altro fattore tutt’altro che positivo: infatti pure molte misure di sostegno all’economia, prese per contrastare gli effetti della pandemia, sono state in realtà inferiori a quanto preventivato, «come del resto già accaduto nel 2020», nota l’Upb.
Se nel 2021 l’Italia non è partita con la velocità di uno sprinter nell’investire i soldi del Pnrr, in questo 2022 si sono levate molte voci che chiedono al governo addirittura di riscrivere il piano, tenendo conto dell’aumento vertiginoso dei prezzi dell’energia e delle materie prime. Una sollecitazione che parte soprattutto da Confindustria (secondo Carlo Bonomi il Pnrr va modificato e allungato temporalmente), dall’Ance (qualche giorno fa il presidente dell’associazione dei costruttori Gabriele Buia ricordava al sussidiario.net che molte delle opere finanziate dal Pnrr «sono già iniziate da tempo», in alcuni casi programmate anche vent’anni fa, e «con questi ritardi, oggi scontano tutte prezzi talmente vecchi che non è più possibile eseguirle. Senza dimenticare le opere pubbliche in corso di realizzazione a livello territoriale, le manutenzioni stradali e quant’altro: un’enormità») e da alcuni governatori.
BANDO DESERTO
Luca Zaia, per esempio, considera la rinegoziazione del Pnrr «urgente»: «Oggi, prima ancora di essere pienamente adottati, questi progetti rischiano di essere fuori dal tempo», diceva il presidente della Regione Veneto un mese fa al Corriere della Sera. «Molti dei progetti previsti rischiano di non tener conto della bufera in arrivo». Parlava a ragion veduta, visto che giusto ieri il Corriere del Veneto dava conto di un bando, quello per l’alta velocità da Brescia a Vicenza, andato deserto per l’aumento spropositato dei costi di ferro, acciaio e calcestruzzo. Un tratto dell’opera è incluso nei finanziamenti del Pnrr (5 miliardi di euro), ma a patto che venga completato entro il 2026.
L’assassinio negli Usa del giovane attivista conservatore mostra che certa cultura progressista, mentre lancia allarmi sulla tenuta della democrazia, è la prima a minarla. E intona il coretto del «se l’è cercata».
Da mesi assistiamo a un surreale dibattito sulla fine della democrazia negli Stati Uniti. Dall’elezione di Donald Trump in poi, il Paese da sempre considerato baluardo dei diritti e della libertà sarebbe secondo alcuni a rischio di involuzione autoritaria. Sulla stampa nazionale, ma anche su quella internazionale, se ne discute ampiamente: ne scrivono fior di commentatori e ne parlano con insistenza numerosi esponenti politici, l’ultimo dei quali - lo ricordiamo - è l’ex presidente del Consiglio e ora senatore a vita Mario Monti, il quale di ritorno da un viaggio in America ha riversato le sue preoccupazioni sul Corriere della Sera.
Peccato che, al momento, il solo rischio che si intravveda e si tocchi con mano è che gli allarmi dei cosiddetti osservatori politicamente corretti producano non la difesa dei principi liberali e costituzionali di cui lor signori sarebbero portatori, ma l’esatto contrario, ovvero una caccia all’uomo nei confronti di chiunque sia considerato un pericolo per la democrazia.
Come sempre, i fenomeni arrivano prima di là dell’Atlantico per poi riversarsi da noi. E ciò che è accaduto all’università dello Utah, ovvero l’assassinio di Charlie Kirk, dovrebbe essere di monito per tutti, in particolare per la sinistra nazionale che continua a denunciare inesistenti fantasmi antidemocratici, con il risultato di eccitare gli animi delle persone e dei gruppi più estremi. Mentre si discute delle modifiche alle tradizioni democratiche dell’America, dipingendo Trump come un dittatore impegnato a smantellare lo Stato democratico, a farne le spese sono gli uomini di quel movimento che democraticamente ha portato all’elezione del 47° presidente degli Stati Uniti. Già durante la campagna elettorale che gli ha riaperto la strada verso la Casa Bianca si era capito che aria tirasse. Per un soffio, avendo girato la testa, Trump non è stato assassinato durante un comizio in Pennsylvania. E per un altro caso fortuito, un secondo uomo armato è stato intercettato settimane dopo vicino alla sua residenza in Florida. Abbattere Trump prima che sconfiggesse Biden a un certo punto dev’essere sembrata l’unica soluzione possibile per una sinistra che, in nome della libertà e dei diritti, non si arrende alla democrazia. E così, in questo clima, reso incandescente da una stampa che non perde occasione di puntare il dito contro le decisioni della Casa Bianca, alla fine ecco arrivare anche l’omicidio di un influencer vicino a Trump, colpevole solamente di affrontare gli avversari politici in confronti pubblici, anche all’interno delle università. Kirk difendeva le proprie opinioni con la parola, non sfuggendo il dibattito: una cosa insopportabile a quanto pare per chi non la pensava come lui. Sul fucile e sui proiettili usati dal cecchino pare siano state trovate frasi pro transgender e antifasciste. Del resto Trump, insieme a sostenitori come Kirk, è considerato colpevole di aver usato l’esercito contro le violenze «antifa». Di aver schierato i militari nelle manifestazioni contro gli agenti mandati per arrestare e rispedire a casa i clandestini. Sì, aver difeso lo stato di diritto, ovvero tutelato i cittadini per bene che non vogliono né violenza né situazioni di illegalità, è davvero insopportabile per una parte della sinistra. Smantellando il sistema che propaganda la «resistenza» nelle università, fra gli immigrati, nei movimenti gender, Trump ha toccato il nervo scoperto della democrazia Usa e qualcuno ha scelto di reagire con violenza.
Che questo sia lo scenario del resto lo si capisce anche dalle reazioni in casa nostra, con parte della sinistra che se non esulta per l’assassinio di Kirk certo non si dispiace. Leggere che un movimento di contestazione come Osa, protagonista di tante manifestazioni e molte occupazioni delle università italiane, si rallegra per un assassinio politico, fino al punto di sostenere che aver fatto fuori Kirk rende il giorno meno buio, fa venire i brividi. E fa pensare che dietro alle manifestazioni per la pace, dietro alle dichiarazioni contro il patriarcato, altro non c’è che la solita sinistra violenta, che sogna di abbattere, con la rivoluzione o a colpi di fucile chiunque non la pensi come i suoi militanti, che si chiami Trump, Meloni o altro. Gli assassini sono i soliti compagni che sbagliano, ma prima di loro ci sono i cattivi maestri che li educano a crescere nell’odio.