Michele Geraci: «La Russia sta vincendola guerra economica. Occhio a legarci all’Algeria»
2022-05-15
Verità e Affari
Com’è che dicevano? Soltanto uno come Mario Draghi avrebbe potuto spendere al meglio i soldi dell’Europa, senza sprechi, senza favoritismi e senza lungaggini. Per non sciupare la storica opportunità del Recovery Fund non si doveva lasciare l’iniziativa ai partiti: ci voleva la competenza di un tecnico come l’ex presidente della Banca centrale europea. La più potente giustificazione alla base della nascita di un governo di emergenza nazionale era questa. Eppure, a quattordici mesi dal suo insediamento il “governo dei migliori” non sembra proprio impeccabile nell’attuazione del Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza con cui l’Italia spenderà (forse) gli oltre 190 miliardi, tra sovvenzioni e prestiti, sbloccati da Bruxelles. A certificare le difficoltà nello spendere i soldi preventivati è stata giovedì la presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) Lilia Cavallari, intervenendo in audizione davanti alle commissioni bilancio di Camera e Senato riunite in seduta congiunta.
QUEL DEFICIT COSÌ BASSO
Il tema in discussione era in realtà il Documento di economia e finanza approvato dal consiglio dei ministri lo scorso 6 aprile. In quel documento il governo riporta il dato sull’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche nel 2021 indicato dall’Istat due giorni prima: un 7,2% del Pil molto inferiore non solo al 9,6% registrato nel 2020 ma anche al 9,4% che il governo ancora lo scorso ottobre prevedeva per il 2021.
Ebbene, secondo l’Upb un peso importante in questa imprevista riduzione del deficit atteso l’hanno avuto proprio i ritardi nella realizzazione degli interventi collegati al Pnrr. In particolare nel 2021 sono stati effettivamente spesi 5,1 miliardi di euro invece dei 13,7 miliardi previsti. Non basta: di quei 5,1 miliardi, secondo l’ufficio che vigila sulla finanza pubblica, «la maggior parte» è stata destinata a «progetti già in essere (e quindi finanziati tramite prestiti sostitutivi, senza impatto sul deficit), secondo quanto indicato dal ministro dell’Economia nella sua audizione sul Pnrr tenuta presso alcune commissioni parlamentari della Camera e del Senato nello scorso febbraio».
E mentre la spesa per gli interessi sul debito pubblico rimaneva «stabile al 3,5% del pil», a determinare un indebitamento annuo meno alto delle previsioni è stato anche un altro fattore tutt’altro che positivo: infatti pure molte misure di sostegno all’economia, prese per contrastare gli effetti della pandemia, sono state in realtà inferiori a quanto preventivato, «come del resto già accaduto nel 2020», nota l’Upb.
Se nel 2021 l’Italia non è partita con la velocità di uno sprinter nell’investire i soldi del Pnrr, in questo 2022 si sono levate molte voci che chiedono al governo addirittura di riscrivere il piano, tenendo conto dell’aumento vertiginoso dei prezzi dell’energia e delle materie prime. Una sollecitazione che parte soprattutto da Confindustria (secondo Carlo Bonomi il Pnrr va modificato e allungato temporalmente), dall’Ance (qualche giorno fa il presidente dell’associazione dei costruttori Gabriele Buia ricordava al sussidiario.net che molte delle opere finanziate dal Pnrr «sono già iniziate da tempo», in alcuni casi programmate anche vent’anni fa, e «con questi ritardi, oggi scontano tutte prezzi talmente vecchi che non è più possibile eseguirle. Senza dimenticare le opere pubbliche in corso di realizzazione a livello territoriale, le manutenzioni stradali e quant’altro: un’enormità») e da alcuni governatori.
BANDO DESERTO
Luca Zaia, per esempio, considera la rinegoziazione del Pnrr «urgente»: «Oggi, prima ancora di essere pienamente adottati, questi progetti rischiano di essere fuori dal tempo», diceva il presidente della Regione Veneto un mese fa al Corriere della Sera. «Molti dei progetti previsti rischiano di non tener conto della bufera in arrivo». Parlava a ragion veduta, visto che giusto ieri il Corriere del Veneto dava conto di un bando, quello per l’alta velocità da Brescia a Vicenza, andato deserto per l’aumento spropositato dei costi di ferro, acciaio e calcestruzzo. Un tratto dell’opera è incluso nei finanziamenti del Pnrr (5 miliardi di euro), ma a patto che venga completato entro il 2026.
«Dal punto di vista economico, la guerra l’Occidente la sta perdendo».
Le sanzioni fanno male più a noi che alla Russia?
«No, praticamente fanno male solo a noi e in certi casi aiutano l’economia russa. Sono sanzioni boomerang, annunciate senza prima aver fatto analisi sul loro impatto. Sostituendo, anzi, alle analisi i desideri. L’Europa procede così, per tentativi, trial and error, in realtà più error che trial».
Michele Geraci, economista, già sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico nel governo Conte 1, è un gran conoscitore della Cina dove ha vissuto dal 2008 al 2018, e sul nodo sanzioni offre una lettura non convenzionale.
Perché dice che le sanzioni aiutano l’economia russa?
«Minacciare sanzioni che poi non applichiamo, o annunciare sanzioni che entreranno in vigore dopo qualche tempo, significa far aumentare i prezzi delle materie prime più di quanto sarebbero saliti a causa della guerra. E poi, noi pensiamo che l’economia russa dipenda moltissimo dall’energia...».
Non è così?
«Sì, ma non da quella che esporta nella Ue. Anzitutto, l’energia prodotta viene consumata internamente. Poi esportata a paesi amici, dal Kazakistan alla Cina. E infine c’è l’export in Europa: quello di gas vale il 2,2% del Pil russo, quello del greggio il 3,4%, quello del carbone lo 0,2%. È di questi numeri che si dovrebbe ragionare. Tenendo conto, peraltro, che Mosca può trovare compratori alternativi se noi ci tiriamo indietro. E che l’impatto di un eventuale calo di profitti sul gas esportato non andrebbe a cadere direttamente sulla popolazione, ma sarebbe assorbito dall’unica azienda esportatrice, il colosso di Stato Gazprom».
Negli ultimi tempi proprio sul gas sembra di cogliere in Europa segnali di resipiscenza.
«Lo spero. Noto anch’io che da un po’ la narrazione ufficiale sembra presentare dei punti di flessione, che qualcosa sembra cambiare. Però…».
Però?
«È troppo tardi! Il paradosso è che, se ora facciamo marcia indietro su gas e petrolio, diamo a Putin un segnale di debolezza. Ammettendo implicitamente che le sanzioni ci fanno male, gli diamo metaforicamente in mano una pistola. Insomma, sulle sanzioni sia l’enfasi iniziale sia la marcia indietro provocheranno danni».
È davvero possibile emanciparsi del tutto dal gas russo?
«Secondo i miei modelli, alla fine del 2024 potremmo quasi completamente eliminare le forniture dalla Russia. Ma dovremo comunque ridurre i consumi. E poi dovremo comprare molto più gas dall’Algeria, che in proporzione peserà sulle nostre importazioni più di quanto oggi pesi la Russia. Quindi niente diversificazione, solo un passaggio da un grande fornitore a un altro, che non è certo un modello di democrazia. Non basta: il gasdotto che ci porta il gas algerino transita attraverso la Tunisia, quindi dobbiamo sperare che tra i due paesi non insorgano controversie, come è accaduto tra Algeria e Marocco, da dove passa il gasdotto per la Spagna. L’area in questione è instabile, mentre invece, ci piaccia o no, la Russia è sempre stata un fornitore affidabile».
E gli altri fornitori?
«Sul gas naturale liquefatto del Qatar non contiamoci proprio. Il Qatar esporta già il 70% del suo gas in Asia e agli europei chiede un impegno chiaro ad acquisti di lungo termine, condizione che non possiamo permetterci. E poi ci mancano anche i rigassificatori adatti ad accogliere il loro gas».
Qatar a parte?
«Gli Usa ci daranno 3 miliardi di metri cubi. Attraverso il Tap, che però condividiamo con Grecia e Bulgaria, arriverà più gas dall’Azerbaijan, ma non è detto che sarà solo azero e non anche russo, attraverso triangolazioni con un Paese con cui Baku ha rapporti strettissimi... Ma in tutto questo c’è un’altra domanda da farsi».
Cioè?
«Se Putin o Zelensky ci chiudessero i rubinetti domani?».
La risposta?
«Un -7% di pil immediato».
L’Arabia Saudita non ha acconsentito alla richiesta americana di produrre più petrolio e l’India ha aumentato gli acquisti di petrolio da Mosca.
«I sauditi sono sì alleati degli americani, ma non fino al punto di sacrificare i loro interessi. E noti che hanno accettato anche di pagare in renminbi: un segnale politico non banale. Quanto all’India, Modi e Putin sono in ottimi rapporti, il primo deve dare da mangiare a un miliardo di pensione, e se mi passa il termine, se ne frega di quello che pensa la Ue… La verità è che stiamo facendo miracoli: abbiamo fatto far pace a India e Pakistan e a India e Cina. Pure Cina e Vietnam provano a ricucire i rapporti. Tutti Paesi che dispongono di risorse energetiche, minerarie, terre rare e tecnologia».
La Cina cavalcava la globalizzazione con la sua Via della Seta, ora come reagirà all’annunciata de-globalizzazione?
«Due anni fa Xi Jinping ha formalizzato la strategia della dual circulation: la domanda e l’offerta dovranno essere soddisfatte principalmente internamente, il commercio con l’estero sarà un corollario. Ma attenzione: in Cina le cose prima si fanno e solo poi le si annunciano: anche se magari non ce ne siamo accorti, il decoupling è iniziato da dieci anni: nel 2010 l’export cinese valeva il 30% del pil, oggi è al 17-18%. L’obiettivo è di portarlo e mantenerlo al 10-15%. Tenga conto comunque che visto con occhi cinesi il decoupling metterà insieme più di sei miliardi di persone tra Asia e Africa, la parte del mondo che cresce di più. E Pechino ha recentemente firmato un accordo di libero scambio con 14 Paesi asiatici (inclusi gli “occidentali” Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda) che rappresentano il 30% del pil mondiale. La geografia domina le scelte economiche. Puoi essere amico degli Usa ma il commercio lo fai coi Paesi limitrofi».
L’Occidente si ripiega su sé stesso, rivendicando la sua identità contro le autocrazie. Ci sarà meno agibilità intellettuale per chi è curioso di culture altre?
«Sarebbe la vera sconfitta dell’Occidente. Nei ristoranti cinesi il piatto si riempie scegliendo tra quello che arriva dal tavolo girevole. E’ l’approccio che dovremmo avere: guardiamo agli altri modelli e “mangiamo” quello che vogliamo. Un modello culturale non va accettato o rifiutato in blocco: c’è spazio per scegliere, per adattare. Se partiamo dall’idea che non abbiamo nulla da imparare dagli altri, perdiamo la possibilità di migliorare. Ci condanniamo al declino».
Il cosiddetto aggiornamento del catasto nasce con fini condivisibili, ma rischia di trasformarsi in un'ecatombe per le famiglie del ceto medio italiano. Che abusi edilizi e fabbricati fantasma vadano censiti deve essere patrimonio culturale comune a tutti in un Paese civile.
Che debbano essere ricondotte a reddito tutte le costruzioni che a vario titolo sfuggono alla tassazione è attività che non può non trovare condivisione. Ma questi sono principi che possono penalizzare e non poco i proprietari di abitazioni, a seconda di come saranno declinati nella norma. Il dubbio (fortissimo) è che la strada intrapresa non sia quella del mero recupero del sommerso, ma quella di procedere a un vero e proprio restyling del settore.
L'AGGIORNAMENTO
"Aggiornamento del Catasto" è denominazione che certo non lascia tranquilli i legittimi proprietari di case, regolarmente denunciate e acquistate con sacrifici e esposizione bancaria. Non li lascia tranquilli perché "aggiornare" le rendite catastali significa incidere pesantemente sul bilancio familiare, già gravato da due anni di ammortizzatori sociali (se lavoratori dipendenti) ovvero di mancati introiti (se lavoratori autonomi). Due anni durissimi per le le famiglie italiane che ora stanno facendo i conti con bollette dell'energia triplicata.
Ecco, in questo contesto nessuno si aspetta e auspica interventi che vadano a incidere in modo ulteriormente negativo sulle famiglie. Perché è noto a tutti che aumentare la rendita catastale dei fabbricati fa lievitare non solo il costo dei tributi da pagare (Imu; tassa di registro quando si compra da un privato; tassa di successione e donazione).
Ma fa anche lievitare il valore dell'Isee, che contiene anche gli immobili, richiesto non solo per stabilire i livelli di accesso e di costo di servizi (dalla mensa scolastica all'asilo dei figli, dalle tasse scolastiche a quelle universitarie, dai sussidi comunali agli sconti energetici); ma anche per avere e stabilire gli importi dell'Assegno Unico Universale, che ha sostituito da pochi mesi in un solo colpo assegni familiari e detrazioni per i figli minori, oltre che qualche altro bonus.
CORTO CIRCUITO
Questi importi infatti sono scomparsi di colpo abbattendo di non poco l'importo percepito in busta paga. Dal mese di marzo invece l'Assegno viene erogato dall'Inps, non più soltanto in base ai redditi percepiti (come era prima), ma proprio in virtù dei valori contenuti nell'Isee, che varierebbero pesantemente nel caso di aumento delle rendite catastali, incidendo cosi sulla quantificazione dell'assegno stesso.
Insomma un corto circuito perfetto, talmente perfetto da sembrare costruito a tavolino. Un corto circuito che vedrebbe penalizzate le ignare famiglie italiane, che si vedono cambiare la normativa e le regole senza avere fatto nulla di male per meritarlo. Ecco, se da un lato la Riforma del Catasto è giustissimo che persegua chi ha tenuto nascosto immobili o li abbia costruiti abusivamente; dall'altro è impensabile che vada a toccare il valore dei fabbricati regolarmente accatastati dopo perizie e sopralluoghi.
Se il Legislatore vorrà essere credibile e giusto non potrà prevedere nuove regole, che cambino la classificazione delle abitazioni, facendo assomigliare l'intervento tanto a una tassa patrimoniale. La casa è un patrimonio familiare che va tutelato e non utilizzato per introdurre nuovi e celati costi, diretti o indiretti.*Presidente Fondazione Studi Consulenti del Lavoro
Glass Lewis ha suggerito agli investitori istituzionali di appoggiare l’azione di responsabilità proposta da Bluebell Partners contro l’ad di Leonardo Alessandro Profumo, Iss di bocciarla.
I proxy advisor, che indirizzano il voto dei fondi, si dividono e rendono così l’assemblea del 23 maggio (la seconda convocazione è per il 31 ) che tra le altre cose dovrà esprimersi sulle accuse al manager ligure - ancor più incerta. Quasi impossibile che passi la nuova richiesta avanzata dal fondatore di Bluebell, Giuseppe Bivona, contro l’ex presidente di Mps - il 30% di Leonardo è nelle mani del Mef che voterà contro e il Cda ha di recente respinto le accuse di Bluebell e confermato la fiducia all’ad - ma è altrettanto vero che i fondi istituzionali pesano per circa il 50% nell’ex Finmeccanica e che un eventuale voto “massiccio” contro l’attuale ad della società della Difesa avrebbe un peso non indifferente.
Ma di cosa stiamo parlando? Secondo Bluebell da anni Profumo starebbe provocando danni reputazionali al gruppo dell’aerospazio per i procedimenti giudiziari legati ad Mps che hanno portato a una condanna del manager in primo grado a sei anni reclusione per la vicenda dei derivati. «Pensiamo che il proponente possa avere delle rimostranze legittime - si legge nelle motivazioni di Glass Lewis - . Mentre la sentenza è soggetta ad appello, riteniamo che rappresenti una sostanziale indicazione che le azioni di Alessandro Profumo possano danneggiare il valore degli azionisti e che un'azione di responsabilità possa essere giustificata».
GIUDIZIO CONTRARIO
Non la vede allo stesso modo l’altro proxy, Iss, che evidenzia come «al momento, in base alle informazioni fornite dal proponente e alle informazioni attualmente disponibili e considerando che la sentenza menzionata da Bluebell può essere ancora rivista, ci sembra che non ci sia sufficiente terreno per rimuovere Profumo dal suo ruolo e intraprendere un'azione legale nei suoi confronti». Il proxy si attende che Leonardo «monitori con attenzione e rigorosamente la situazione e, se necessario, prenda le misure adeguate». La questione, conclude, «merita comunque speciale attenzione e considerazione da parte degli azionisti considerando il potenziale impatto reputazionale per la società e per la continuità della sua leadership».
Manca all’appello l’altro proxy, Frontis, che lo scorso anno aveva consigliato di votare a favore dell’azione di responsabilità, ma quest’anno non avendo clienti che investono in Leonardo non emetterà alcun report. Insomma, se l’esito del risultato è scontato, non altrettanto può dirsi per le percentuali finali. Oltre al Mef, che, come detto, detiene la maggioranza relativa con il 30% , nell’azionariato di Leonardo ci sono alcuni dei colossi globali come Vanguard, T. Rowe, Norges Bank, Schroder Investment, Dimensional Fund Advisors, Blackrock, Dnca Finance, Invesco, Pictet , Aviva, Amundi, Artemis, Natixis e attori italiani come Fideuram, Mediolanum e Generali.
Si stima che il loro peso non sia inferiore al 45%. Tant’è che l’attività di di Bluebell si sta intensificando: negli ultimi giorni il fondo si è rivolto al governo, la Mef e a tutti i principali investitori chiedendo di votare contro Profumo. Mettendo in evidenza che rispetto allo scorso anno, quando la proposta era stata respinta, è venuta alla luce una nuova vicenda grazie agli articoli della Verità. Si parla della vendita fallita in Colombia di navi e aerei militari e del ruolo da intermediario svolto dall’ex prmier Massimo D’Alema sospettato di avere legami con i vertici dell’ex Finmeccanica.