2020-02-25
Più dei conservatori in Iran ha vinto l'astensione
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Si dirà che hanno vinto i conservatori sui riformisti (per ora il computo dei 290 seggi è a quota 221 per i primi contro un 10% per i secondi, più una manciata di indipendenti). Ma a stravincere è stata l'astensione, con percentuali di affluenza oscillanti intorno a un bassissimo 42,5%, ai minimi dall'inizio della rivoluzione khomeinista del 1979.In Iran c'è una società in movimento, fatta di persone in maggioranza giovani, desiderose di sperimentare la libertà, e - sopra, a soffocarla - un regime teocratico che identifica legge religiosa e norma giuridica, e che sceglie i candidati alle elezioni attraverso uno scrutinio preventivo del Consiglio dei Guardiani (12 membri, direttamente dipendenti dalla Guida Suprema: sono loro che devono autorizzare le candidature).Per anni, in Occidente, ci si è affezionati a una contrapposizione - con un fondamento reale, ma probabilmente un po' sopravvalutata - tra riformisti e conservatori. Con il sottinteso che occorreva aprire agli uni per non avvantaggiare gli altri. Peccato che entrambi i fronti - con rare eccezioni - si siano ben guardati dal mettere in discussione alcuni capisaldi ideologici: la negazione delle libertà politiche, la persecuzione dei dissidenti, la segregazione delle donne, la criminalizzazione degli omosessuali, il supporto al terrore in funzione anti Occidente, e - si fa per dire, naturalmente - la distruzione dello stato di Israele. Insomma, poliziotto buono e poliziotto cattivo, non senza contrapposizioni anche profonde, ma all'interno di uno stesso copione.Le elezioni dello scorso weekend - dunque - valgono quel che valgono: partecipazione non ampia, nonostante lo sforzo dei pasdaran, e numeri forse perfino sovrastimati, che non saranno resi particolarmente attendibili dall'assenza delle impronte digitali, richieste fino alla tornata precedente. Senza dire delle migliaia di candidati (circa la metà) preventivamente scartati dal Consiglio dei Guardiani. L'incognita è nel futuro, anche prossimo: se sarà palese a settori grandi di opinione pubblica che si è trattato di una farsa, potrà esservi una nuova spinta a manifestazioni popolari. Altrimenti, il regime continuerà a comprare tempo. Da anni, infatti, a partire da elementari rivendicazioni economiche, e salendo alla richiesta di libertà politiche, si susseguono rivolte, più o meno regolarmente represse nel sangue dal regime, nel disinteresse e nel disimpegno occidentale. L'elenco è impressionante: 1999 (Teheran, Università), 2009-2011 (Onda Verde), 2017-2018 (contro i pasdaran e il loro controllo dell'economia), 2019 (contro l'aumento della benzina). La novità si chiama Donald Trump. Se gli anni di Barack Obama avevano legittimato il vertice politico di Teheran attraverso il negoziato sul nucleare, la nuova Amministrazione Usa ha invertito la direzione di marcia, fino al colpo simbolico di inizio anno, l'eliminazione mirata di Qassem Soleimani, il mastermind dei pasdaran, nonché il regista delle operazioni all'estero, e il possibile candidato del futuro alla guida anche politica dell'Iran. Teheran è stata costretta a fare i conti con la propria fragilità, proprio quando riteneva che gli Usa (nell'area) fossero particolarmente deboli e disimpegnati, e l'incredibile autogol della rappresaglia, tradottasi nell'abbattimento di un volo di linea ucraino e quindi in una strage di civili (in gran parte iraniani), di cui poi lo stesso vertice politico ha dovuto ammettere la responsabilità, ha esposto il regime al giudizio severo della sua stessa gente, in modo ancora più netto che nel passato. Allo stesso modo, è stata duramente messa in discussione la retorica dei media occidentali anti Trump, pronti a descrivere un ricompattamento della nazione intorno al regime. Difficile pensare che Trump insegua il regime change a Teheran, anche nel medio termine: non è nella sua visione. Ma un ulteriore aumento della pressione sì, anche favorendo in ogni modo le reazioni popolari. La sfida è tutta qui. E un nuovo capitolo è appena iniziato, con l'incognita del Coronavirus e la chiusura dell'Università di Teheran: un'altra piaga, e altra rabbia.
Iil presidente di Confindustria Energia Guido Brusco
Alla Conferenza annuale della federazione, il presidente Guido Brusco sollecita regole chiare e tempi certi per sbloccare investimenti strategici. Stop alla burocrazia, realismo sulla decarbonizzazione e dialogo con il sindacato.
Visione, investimenti e alleanze per rendere l’energia il motore dello sviluppo italiano. È questo il messaggio lanciato da Confindustria Energia in occasione della Terza Conferenza annuale, svoltasi a Roma l’8 ottobre. Il presidente Guido Brusco ha aperto i lavori sottolineando la complessità del contesto internazionale: «Il sistema energetico italiano ed europeo affronta una fase di straordinaria complessità. L’autonomia strategica non è più un concetto astratto ma una priorità concreta».
La transizione energetica, ha proseguito Brusco, deve essere affrontata con «realismo e coerenza», evitando approcci ideologici che rischiano di danneggiare la competitività industriale. Decarbonizzazione, dunque, ma attraverso strumenti efficaci e con il contributo di tutte le tecnologie disponibili: dal gas all’idrogeno, dai biocarburanti al nucleare di nuova generazione, dalle rinnovabili alla cattura e stoccaggio della CO2.
Uno dei nodi principali resta quello delle autorizzazioni, considerate un vero freno alla competitività. I dati del Servizio Studi della Camera dei Deputati parlano chiaro: nel primo semestre del 2025, la durata media di una Valutazione di Impatto Ambientale è stata di circa mille giorni; per ottenere un Provvedimento Autorizzatorio Unico ne servono oltre milleduecento. Tempi incompatibili con la velocità richiesta dalla transizione.
«Non chiediamo scorciatoie — ha precisato Brusco — ma certezza del diritto e responsabilità nelle decisioni. Il Paese deve premiare chi investe in innovazione e sostenibilità, non ostacolarlo con inefficienze che non possiamo più permetterci».
Per superare la frammentazione normativa, Confindustria Energia propone una legge quadro sull’energia, fondata sui principi di neutralità tecnologica e sociale. Uno strumento che consenta una pianificazione stabile e flessibile, in linea con l’evoluzione tecnologica e con il coinvolgimento delle comunità. Una recente ricerca del Censis evidenzia infatti come la dimensione sociale sia cruciale: i cittadini sono disposti a modificare i propri comportamenti, ma servono trasparenza e dialogo.
Altro capitolo centrale è quello delle competenze. «Non ci sarà transizione energetica senza una transizione delle competenze», ha ricordato Brusco, rilanciando la necessità di investire nella formazione e nel rafforzamento della collaborazione tra imprese, università e scuole.
Il presidente ha infine ringraziato il sindacato per il rinnovo del contratto collettivo nazionale del settore energia e petrolio, definendolo un esempio di confronto «serio, trasparente e orientato al futuro». Un modello, ha concluso, «basato sul dialogo e sulla corresponsabilità, capace di conciliare la valorizzazione del lavoro con la competitività delle imprese».
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