2019-07-12
La corsa agli sconti fiscali non fa crescere le imprese
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Gli incentivi non sono tutto. Per far ripartire un'economia e attrarre gli investimenti diretti esteri, le agevolazioni in termini di bassa tassazione per le multinazionali o per gli individui, non sono sufficienti. O meglio, devono far parte di un più ampio pacchetto di misure strutturali che un Paese adotta nel suo complesso.Secondo diverse ricerche accademiche (una delle ultime: The failures of economic development incentives di Peters Alan e Peter Fisher) nove su dieci delle decisioni di assunzioni o di investimento di una società, in un determinato territorio, sarebbero avvenute anche senza la presenza di incentivi fiscali nazionali. E questo perché ci sono costi legati alla burocrazia, alla giustizia, al livello di criminalità, e più in generale al sistema paese che possono annullare i vantaggi fiscali offerti a livello nazionale. La ricerca: Tax incentives: costly for states, drag on the nation pubblicata dall'Itep, organizzazione no profit che si occupa di questioni fiscali, sottolinea come le imposte statali rappresentano solo una piccola parte all'interno delle spese che una società deve sostenere. E dunque, anche le diverse agevolazioni fiscali nazionali offerte (abbassamento Ires), non hanno un impatto così forte sul bilancio aziendale. Certamente la pressione fiscale ha un suo peso, e questo è fuori discussione, ma non rappresenta uno dei primi elementi che guardano le multinazionali, o gli individui quando devono scegliere se stabilirsi o meno in un determinato paese. In Italia, la norma attira paperoni, introdotta dalla Legge di bilancio per il 2017, incarna perfettamente quanto appena detto. L'agevolazione italiana si è ispirata al regime anglosassone «resident but not domiciled» ed ha portato a 150 interpelli nel 2017. Dal lato inglese, la norma originale, ha invece avuto un grande seguito, tanto da essere messa al centro di diverse indagini fiscali anche a livello internazionale. Il regime fiscale italiano (concede il pagamento di un'imposta forfettaria di 100.000 euro per ciascun periodo di imposta per 15 anni per chi trasferisce la residenza fiscale in Italia) era anche stato oggetto di un interpello da parte del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/sinistra verde nordica del Parlamento Ue e successivamente di un report da parte dei Verdi, dove l'Italia e il suo regime «res non dom» venivano inseriti nel calderone dei paradisi fiscali Ue (la Commissione aveva però sostenuto come la norma italiana non violasse il diritto Ue chiudendo la questione). Nonostante il regime italiano, sulla carta rappresentasse un'ottima offerta fiscale, non ha avuto agli stessi risultati del Regno Unito. E questo perché quando si sceglie un paese dove spostare la residenza ci sono molti altri fattori (burocrazia, stabilità del paese, giustizia, se si hanno figli qualità dell'istruzione, infrastrutture, criminalità) che influiscono sulla scelta finale. Il report di Itep sottolinea inoltre come questa continua corsa al ribasso, in termini di tassazione (solo osservando la tassa sull'impresa, secondo l'Ocse, dal 2000 al 2018 c'è stato un calo in Europa di quasi nove punti percentuali) non porta ad una maggiore crescita economica né tanto meno ad un aumento degli investimenti esteri, ma solo ad un impoverimento da parte dello Stato. Le risorse nazionali che vengono destinate per l'abbassamento delle tasse alle multinazionali o ai paperoni, molto spesso sono maggiori rispetto al ritorno economico. Le decisioni politiche, di voler continua ad abbassare le tasse, seguono però un trend molto ben consolidato all'interno dell'Unione europea. I vari stati membri continuano infatti a rincorrersi per chi concede maggi incentivi fiscali. L'Italia ha risposto a questo sistema con il decreto crescita, potenziando alcune agevolazioni fiscali, già inserite negli anni passati, per il rientro dei cervelli (ricercatori e lavoratori), tagliando tasse per i pensionati stranieri che vogliono trasferirsi nel sud Italia (ricalcando la norma portoghese) e concedendo vantaggi fiscali per gli sportivi professionisti rimpatriati (ispirandosi a diversi regimi europei come quello spagnolo per i calciatori). L'Italia si è dunque andata ad adeguare a un panorama europeo composto da Paesi che offrono, da sempre, incentivi fiscali e bassa tassazione. All'interno dell'Unione europea, anche se più volte negato da Jean-Claude Juncker e Pierre Moscovici, ci sono infatti alcuni dei più importanti paradisi fiscali a livello mondiale. Parliamo dunque di: Malta, Olanda, Regno Unito con tutti i suoi territori d'oltremare, Irlanda e Lussemburgo. La presenza di questi territori ha fatto perdere all'Italia, alla Francia, alla Spagna e alla Germania circa 35,1 miliardi di euro di gettito fiscale (solo nel 2015). Perdita dovuta al fatto che le società spostano con facilità, all'interno dell'Unione europea, i profitti in paesi Ue con una più bassa tassazione. La soluzione a queste distorsioni sarebbe dunque la nascita di una politica fiscale comune europea, che al momento sembra un miraggio. Un primo approccio, in questo senso, lo si è provato ad avere con il progetto di digital tax Ue, tassa sui servizi digitali, naufragato nel giro di un anno. Fin dal principio ci sono infatti stati paesi come l'Irlanda, la Svezia e la Danimarca che si sono opposti alla tassazione unitaria digitale dato che molte compagnie digitali hanno la sede proprio in quei territori. La digital tax, garantendo una tassazione equa e uniforme per tutti i paesi membri Ue, avrebbe danneggiato le entrate fiscali delle tre nazioni.
La sede della Corta penale internazionale dell’Aia (Ansa)