2022-10-07
Per combattere una guerra infinita son pronti a strangolare gli italiani
Molti scambiano il conflitto per una partita e confondono la vittoria di Kiev con la nostra. Ma anziché immolare i cittadini agli interessi di Volodymyr Zelensky, dovremmo iniziare a curarci dei nostri. Promuovendo un vero negoziato.Sin dall’inizio del conflitto in Ucraina la sindrome del tifoso ha inquinato il dibattito pubblico italiano, provocando l’immediata divisione tra anime pie sostenitrici di Volodymyr Zelensky e perfidi putiniani. Da qualche tempo, tuttavia, si sta allargando lo spettro del fenomeno, anche perché sembra che le forze di Kiev stiano finalmente ottenendo grandi successi sul piano militare. Il che è suggestivo, poiché sono mesi che i giornali occidentali ci parlano di trionfi ucraini e di imminente disfatta russa, dunque - a logica - non dovrebbe essere una notizia il fatto che vincano sul campo. A chi pone tale minuta obiezione viene solitamente risposto che adesso gli ucraini stanno realmente avanzando, affermazione da cui si deduce la falsità della gran parte delle informazioni che ci sono giunte dal febbraio scorso a oggi. In ogni caso, la carica di Kiev ha galvanizzato gli hooligans gialloazzurri di casa nostra, i quali celebrano con grida di giubilo ogni metro conquistato dalle truppe amiche. Più i giorni passano e più la spocchia aumenta. Gli scaltri strateghi da salotto guardano tutti dall’alto in basso e gongolano: «Visto che è giusto mandare armi a Kiev?». Ed ecco il problema. Forse ai tifosi accaniti sfugge la differenza fra essere cittadini ucraini o italiani. Lo abbiamo sempre sostenuto e continueremo a farlo: Zelensky e il suo popolo hanno ovviamente tutto il diritto di difendersi, e persino quello di odiare i russi. Gli italiani, però, hanno il diritto di pensare ai propri interessi nazionali, anzi i politici italiani hanno il dovere di farlo. Sarebbe nel nostro interesse - e, crediamo, nell’interesse dell’intera Europa, Ucraina compresa - se le istituzioni italiane lavorassero per favorire un processo di pace. Cosa che risulta evidentemente impossibile se si continuano a inviare materiali bellici. Dice il tifoso: se non mandiamo armi, l’Ucraina perde. In realtà, le cose non stanno proprio così. Il sostegno militare statunitense e britannico è più che sufficiente a Kiev per tenere botta. Inoltre, va considerato un particolare non secondario: il fatto che l’Ucraina vinca non significa che vinca pure l’Italia, anzi. Mettiamo che domani gli ucraini scaccino i russi da tutto il Donbass e persino dalla Crimea. Per noi, dite, che cosa cambia? Forse magicamente inizierà ad arrivarci altro gas dalla Russia e il costo delle bollette si abbasserà? Certamente no. E allora? E allora, purtroppo, per la nostra nazione il sentiero appare già tracciato. Se sul piano diplomatico qualcosa non cambia (e non nel senso desiderato da Vladimir Putin ma in quello auspicato dal Papa), siamo destinati a mandare in malora aziende e famiglie in nome di una causa che non ci appartiene e che, a ben vedere, non si capisce perché dovremmo sposare senza riserve. Riecco però l’illuminato avvolto nella bandiera bicolore che grida: «Dobbiamo difendere la democrazia e i valori occidentali dal Satana euroasiatico!». Fantastico. Per prima cosa, però, sarebbe bene ricordare che le bollette sono democrazia: imporre ai cittadini una guerra che non hanno scelto e costringerli a sacrifici dolorosi è una questione di libertà e diritti, non di micragnosità. In secondo luogo, ci scuserete, ci permettiamo di avere dubbi smisurati sul fatto che stare con Kiev significhi difendere la democrazia o, semplicemente, schierarsi con i buoni. Riguardo ai diritti civili e alla libertà di stampa, il governo di Kiev non può sicuramente dare lezioni ai russi, considerando il numero di giornalisti che ha perseguitato (o peggio) e gli oppositori politici che ha incarcerato o silenziato. Nemmeno in guerra, poi, i nostri eroi sembrano distinguersi dai vicini di casa. Lo conferma l’allucinante rivelazione del New York Times riportata ieri da tutti i giornali italiani, tra cui il nostro. Darya Dugina, figlia trentenne del filosofo Aleksandr Dugin, è stata ammazzata lo scorso agosto da un attentato che ha fatto esplodere la sua auto, dilaniandola. Ebbene, secondo l’autorevole testata statunitense l’azione terroristica sarebbe stata organizzata da alcuni settori dell’esecutivo ucraino all’insaputa degli Stati Uniti. Qui da noi i soliti tifosi accolsero la notizia della morte di Darya non con applausi ma quasi. I più hanno ripetuto per settimane che la povera ragazza sarebbe stata uccisa dal servizio segreto russo per un regolamento di conti interno. Questi fenomeni ieri per lo più hanno accuratamente evitato di commentare la notizia del New York Times: a quanto risulta, per loro è del tutto normale che le forze di Kiev uccidano una giornalista, una intellettuale, in modo così vigliacco. Darya non combatteva al fronte, non comandava un battaglione, semplicemente parlava e scriveva. I suoi interventi sono oggi raccolti per la prima volta in un volume tradotto in italiano, Io sono Darya (Aga edizioni): basta scorrere i suoi articoli per capire quanto fosse distante dal ritratto in stile Ilsa la belva delle Ss che le hanno confezionato qui. Comunque sia, ci limitiamo a domandare: dobbiamo andare a scuola di buone maniere da chi ammazza una giornalista in questo modo, specie dopo tutte le roventi rivendicazioni sulla libertà di stampa indirizzate a Putin? Forse no. In sintesi, stiamo strangolando le nostre aziende e i nostri cittadini in nome di nobili ideali che esistono soltanto nel racconto propagandistico, confondiamo la vittoria ucraina con la nostra vittoria, festeggiamo mentre andiamo a fondo. E il quadro non è destinato a migliorare tanto più che Zelensky ha appena firmato un decreto che impedisce a tutte le autorità ucraine di trattare con Putin, provvedimento che con tutta evidenza elimina ogni possibile spiraglio di pace. Il presidente ucraino non vuole trattare: vuole vincere, e forse è pure legittimo. Ciò che non si comprende è perché non sia legittimo, per gli italiani, desiderare di non essere sacrificati sull’altare altrui.
Little Tony con la figlia in una foto d'archivio (Getty Images). Nel riquadro, Cristiana Ciacci in una immagine recente
«Las Muertas» (Netflix)
Disponibile dal 10 settembre, Las Muertas ricostruisce in sei episodi la vicenda delle Las Poquianchis, quattro donne che tra il 1945 e il 1964 gestirono un bordello di coercizione e morte, trasformato dalla serie in una narrazione romanzata.