2021-07-07
«Canto la solitudine forzata di questi mesi. Ma in un napoletano che tutti capiscono»
Peppino di Capri (Getty Images)
L'interprete campano: «"Canzona mia" parla dello stato d'animo in pandemia. Perciò voglio che mi comprendano pure a Milano».Quando Peppino di Capri s'affaccia alla finestra, trova sempre una certezza. Questa certezza è l'isola di Capri, dove il celebre cantante è nato, il 27 luglio 1939. Per esser sicuro di averla sempre a portata di sguardo, ha scelto di abitare in una casa sul lungomare di Mergellina, a Napoli, sulla via Caracciolo. Durante i mesi angosciosi dell'isolamento causa epidemia globale, ha continuato a dirigere la vista su quel luogo caro dell'arcipelago campano per cercarvi rifugio e conforto, rivedendo la genesi di un'avventura canora che lo portò all'acclamazione, ma anche lo scorrere privato, inesorabile dell'esistenza, con il suo enigma e le eterne domande. Il suo ultimo pezzo, in lingua napoletana, s'intitola Canzona mia. È una riflessione sul senso della vita, che ciascuno di noi è stato costretto a elaborare con maggior insistenza nel corso degli eventi che, dal principio del 2020, hanno condizionato le nostre storie. Poiché si tratta d'interrogativi irrisolvibili, la risposta finisce per cedere il passo all'ineffabile, cioè alla musica. Per Peppino di Capri, unico interprete di musica leggera ad essersi esibito in concerto al San Carlo di Napoli, nel 2016, il tramite per esprimere questo mistero, non può essere altro che questo, la musica, cui non intende rinunciare. D'altronde, anche chi ritrova antiche emozioni riascoltando la sua voce così familiare, mettiamo in evergreen come Roberta (1963) e Champagne (1973), oppure Un grande amore e niente più, canzone con testo di Franco Califano, che lo proclamò vincitore al festival di Sanremo 1973, dopo le pulsazioni della nostalgia, rimane un po' così, pensando a quel tempo svanito. Serve anche a questo una canzone. In un passo del romanzo Neve (Einaudi, 2004), lo scrittore turco Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura nel 2006, cita Roberta per trasformare in poesia solitudine e atmosfere della città turca di Kars. Alcuni versi di Canzona mia dicono: «Perché non se se va / chesta malincunia / Stasera che aggio a fa'? / Non voglio star accussì / Perché nun me vo lassà / chesta canzona mia / che me piglia e me porta lontano / e io mi perdo e nun penso a domani…». Aleggia desiderio di eterno in queste parole e la musica porta lontano.«Molti hanno dato l'interpretazione che questa canzone racconti il riflesso della perdita di mia moglie (Giuliana, ndr), avvenuta due anni fa. Invece non è così. Non c'è lei. È abbastanza innocente. Ricorda la solitudine della pandemia. È in napoletano, ma comprensibile. Mi sono portato questo pregio. Il mio napoletano si è sempre capito anche a Milano. Non è peccato. Fin dagli inizi ho sempre interpretato canzoni della tradizione partenopea, perché ho sempre ricordato di quando mia madre le cantava in casa, ad esempio Voce 'e notte». Lei è credente?«Io sono credente ma, non vorrei peccare di presunzione, vado a momenti. Nell'universo siamo così piccoli. Ti chiedi come tutto ciò sia successo. Poi ti concili con la natura. E poi ancora pensi: “Perché solo noi?". Questa titubanza mi tiene sospeso. Da sempre m'interrogo su quale possa essere la verità. È anche bello avere un punto di riferimento ben preciso per te stesso. Tuttavia, a mano a mano che passano gli anni, questa domanda si fa sempre più pressante. Nel cassetto tengo un brano che s'intitola La verità. Attendo un'occasione per farla conoscere». Si è dato qualche risposta su ipotesi circa la vita dopo il passaggio?«Purtroppo no. Forse deve andare così. Forse è meglio stare in questa sorta di limbo, in bilico, ad aspettare. Ho rispetto per tutte le religioni. Siamo pedine microscopiche in questa grande entità che è l'universo. Ritengo interessante il buddismo».Quale significato ha per lei Capri?«Beh, io ne sono il biglietto da visita. La gente che ho incontrato in giro per il mondo mi ha sempre chiesto se sono davvero di Capri. Mi sento caprese a tutti gli effetti. Capri la adoro, anche in inverno, quando molti bar e negozi sono chiusi».C'è un punto dell'isola cui è particolarmente affezionato?«Sì, la si raggiunge attraverso una lunga e un po' faticosa salita, nella parte Est. È la parte che si affaccia su Positano e sulla costiera amalfitana. Lì, l'isola è quasi tutta tua».Com'è il suo rapporto con Napoli?«Pago le tasse a Napoli e ne sono orgoglioso. Mi piace viverla. Mi sento dispiaciuto quando tanti colleghi scelgono di lasciarla e andare altrove. Mi chiedo: “Come si fa ad andare via da Napoli?". Ci vuole una bella forza. Roma e Milano sono interessanti, per la promozione, le interviste. Ma vince il fascino di Napoli. E poi ho Capri di fronte. Il ricordo di quell'isola mi appartiene».La sua famiglia era vicina alla musica.«Mio nonno suonava nella banda di un paesino ai piedi del Vesuvio. Venne a suonare a Capri e conobbe mia madre che gli ha dato 11 figli, tra cui mio padre, Bernardo. S'innamorarono sulla Piazzetta. Molto romantico. Mio padre aveva un negozio di giradischi, dischi e radio. Suonava il sax e il clarino, quello più piccolo, il quartino, tanto che lo chiamavano Bernardo o' quartino».Furono i suoi a incoraggiarla a cantare?«No, fu una scelta mia. Finii le scuole medie e a 12-13 anni suonavo già in vari locali di Capri. Durante la guerra mi ero esibito davanti al generale Clark (Mark Wayne Clark, collaboratore di Eisenhower, ndr) e alle truppe americane in riposo sull'isola. Mi stupii di essere così conosciuto. Andavo a scuola di pianoforte da una maestra tedesca. Quando scoprì che, di sera, suonavo nei locali, mi diede un calcio nel sedere, sgridandomi in tedesco. Il tedesco non lo capivo, ma quella fu la mia fortuna».Poi fu scoperto.«Sì, a Capri calarono i milanesi e ci invitarono per i provini. Io e quelli del mio gruppo, i Rockers, salimmo a Milano su una Fiat 1100. Avevamo 10 pezzi. Piacquero e decisero di incidere un album. C'era la questione del mio nome, Giuseppe Faiella, bruttino assai. Allora Mario Cenci, il mio chitarrista, mi disse: “Come ti chiamano tutti?". “Peppino". “E di dove sei?". “Di Capri". “Ecco come ti chiamerai"». La popolarità giunse presto, nel 1958, con Malatia e Nun è peccato. Non aveva ancora compiuto 20 anni. Vinse il festival di Napoli nel 1970 e due volte Sanremo, nel 1973 e nel 1976. Come ha gestito il successo?«Con autenticità, semplicità e umiltà. In questo mestiere è facile montarsi la testa. Serve un self-control pazzesco. Ma nei miei pensieri, forse perché plasmati da un'isola come Capri, tutto mi sembrava già scritto e quindi normale». Com'è la storia di quel celebre cameo in Operazione San Gennaro di Rino Risi (1966), con il furto dei gioielli del santo mentre tutti, polizia compresa, guardano il festival di Napoli al televisore con lei che canta Ce vo' tiempo? «Per me fu una sorpresa. Lo seppi quando il film era già nelle sale. Presero uno spezzone dalla cineteca della Rai».C'è un sogno che ha fatto che ancor oggi ricorda?«Sì, uno bellissimo. Un ragazzo con un ascensore a manovella mi portava sopra una specie di grattacielo. Sul tetto c'era una pista per elicotteri e una trentina di donne nere cicciottelle che ballavano a ritmo di musica. Vedevo le cose dall'alto, quella musica mi piaceva e mi frullava la parola Maria (ne accenna un frammento,ndr). Mi svegliai e, per non dimenticarmela, ne incisi il motivo sul registratore nel comodino. Quel sogno divenne una canzone, Evviva Maria, che presentai a Sanremo 1992».Quali sono le canzoni che ha interpretato in cui più si riconosce?«Sono tre. Il sognatore, presentata a Sanremo 1986, I miei capelli bianchi, autobiografica al 200 per cento, e una terza, E tu ci sei, che trascurai e ho recentemente riscoperto».E quella italiana e straniera che maggiormente apprezza?«Per le italiane, non saprei, forse alcune di Gino Paoli. Per le straniere starei su My way di Frank Sinatra».Canticchia sotto la doccia?«No, mai. Non mi viene. Lo faccio magari mentre passeggio».Il 1970 fu per lei un periodo di crisi e di svolta.«La casa discografica mi chiedeva cose che non mi andava di fare, mi ritrovavo con una moglie che spendeva troppo (da cui in seguito divorziò, ndr) e poco tempo per pensare al mio lavoro. Sembrava non dovesse mai finire, poi la verità arriva all'improvviso. Mi guardai allo specchio, mi rimboccai le maniche e fondai una mia casa discografica, la Splash. Riacciuffai i miei vecchi fans». «Champagne, per brindare a un incontro / con te, che già eri di un altro». C'è una storia reale che ha ispirato questo classico?«No, tutta inventata. Nessun riferimento a relazioni sentimentali reali. La scrisse Mimmo Di Francia. Al principio volevo darla a Modugno oppure ad Aznavour. Poi una mattina mi sveglio e penso: “Perché non la faccio io?". E così fu».Lei pensa che ci si possa ritrovare dopo la dipartita?«Un giorno ne parlai a lungo con Mogol a Capri. Lui rispose che ci incontreremo tutti. Mi ritrovai dello stesso parere. O, almeno, è bello immaginare che sia così».Cosa farà domani?«Parto da un'età in cui tiri le somme, ma t'imponi anche di non farlo. Vivo sperando di stare così come ora, non per un fatto finanziario, ma perché mi piace stare così. Mi piace la musica, mi piace solo questo. Vivo di musica».
La riunione tra Papa Leone XIV e i membri del Consiglio Ordinario della Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi dello scorso giugno (Ansa)