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2023-12-28
L’ultimo pasticcio dell’era pandemica: niente indennizzi per i sanitari morti
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Sono molte le questioni legate alla pandemia Covid ancora irrisolte. Una tra tutte risulta essere il nodo assicurativo, e più nel dettaglio il risarcimento che le compagnie del settore dovrebbero fornire ai medici morti a causa del virus.
La questione però risulta essere più complicata di quanto si possa pensare, anche perché entrano in gioco i tecnicismi legati al mondo assicurativo, quale la differenza tra infortunio e malattia e l’eventuale collegamento della morte come conseguenza di un infortunio professionale/extraprofessionale o alla malattia. Nel caso specifico, Cattolica Assicurazioni, diventata a luglio una divisione di Generali Italia guidata da Giancarlo Fancel, non intende pagare gli indennizzi dei dottori dipendenti del Servizio sanitario nazionale (Ssn) deceduti durante la pandemia.
I familiari dei 383 camici bianchi morti scomparsi starebbero premendo sulla compagnia assicurativa per vedersi riconosciuto l’indennizzo, minacciando in caso contrario di fare causa. Secondo quanto risulta a Milano Finanza, lo scontro tra le parti verterebbe sull’estensione del concetto di infortunio sul lavoro e l’assimilazione di questo a quello di morte improvvisa, inaspettata e imprevedibile, da agente infettivo. I famigliari dei medici deceduti stanno infatti sollecitando la compagnia assicurativa ad adottare, per i risarcimenti, l’interpretazione fornita dall’Inail per quanto riguarda il Covid. Nel dettaglio, l’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, nella circolare numero 13 del 3 aprile 2020, ha chiarito alcuni aspetti concernenti la tutela assicurativa nei casi accertati di infezione da nuovo coronavirus, avvenuti in occasione di lavoro. «Secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l’Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta», si legge dal testo della circolare che aggiunge anche come, «in tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione da nuovo Coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto. [...] Nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico».
Interpretazione che però Cattolica assicurazioni non intende applicare. Molto probabilmente la compagnia, nel negare l’indennizzo ai parenti dei camici bianchi morti durante la il Covid, si rifà alla sentenza del 20 giugno 2023, con cui la Corte di appello di Torino ha affrontato una controversia relativa alla riconducibilità dell’infezione da Covid all’infortunio sul lavoro, previsto dal contratto di assicurazione e il relativo indennizzo spettante alla morte dell’assicurato. Nel caso in esame, il giudice era partito dal fatto che quando si stipula una polizza infortuni privata, l’oggetto della garanzia viene liberamente determinato tra le parti in questione (concetto di autonomia negoziale riconosciuto dal Codice civile). Le parti avevano deciso di distinguere tra infortunio e malattia e di legare l’evento di morte a un conseguente infortunio e non alla malattia. Nel farlo, avevano anche definito l’infortunio come un evento dovuto a una causa fortuita, violenta ed esterna che causa lesioni fisiche.
Stando alla definizione, si è però andati a escludere il concetto di Covid e più in generale della morte conseguente a infezioni virali, visto che questa non si può configurare come un evento dovuto a una causa violenta. Altro elemento evidenziato dal giudice è che nel caso di infezione da Covid, non si può risalire con precisione al luogo e al momento del contagio (nell’incidente sul lavoro il tutto è invece individuabile). Inoltre, la lesione non è immediatamente riscontrabile, dato che è preceduta da un periodo di incubazione che può variare a secondo del ceppo del virus che si contrae. Il riconoscimento dell’indennizzo si gioca dunque su sottigliezze e dettagli, tipici dei contratti assicurativi, che possono far pendere l’ago della bilancia dalla parte dei parenti dei medici o della compagnia assicurativa. La questione rimane dunque ancora aperta, in attesa di ulteriori risvolti. L’unica certezza è che Cattolica assicurazioni in tempi non sospetti, nel 2017, aveva vinto la gara pubblica per la stipula delle polizze Rc infortuni indetta dall’Enpam, la cassa previdenziale dei medici. Difficile dunque andare a quantificare il rischio finanziario di questa vicenda, anche perché non risulta essere ancora chiaro il numero delle famiglie che potrebbero intraprendere le vie legali. Considerando che il tetto per gli indennizzi a seguito di morte da infortunio è di 100.000 euro, il rischio potenziale per la compagnia si aggira intorno ai 38 milioni di euro.
Pfizer non fornisce le informazioni sulla stabilità dell’Rna nel vaccino
«È di fondamentale importanza conoscere la stabilità dell’Rna nei vaccini perché se si disintegra, l’efficacia del vaccino diminuisce». L’esperto australiano Phillip Altman, responsabile dell’approvazione sul mercato di numerosi nuovi farmaci, ha spiegato alla giornalista investigativa Maryanne Demasi che questi dati «sono di enorme interesse pubblico e dovrebbero essere divulgati», mentre Pfizer si rifiuta di farlo. Eppure, i dubbi si sono accumulati dalla prima comparsa sul mercato del vaccino anti Covid. In un primo momento, l’azienda aveva affermato che l’mRna nel vaccino, che codifica per la proteina Spike, è instabile e decadrebbe se le fiale chiuse non fossero conservate a -70°C. Ma nel febbraio 2021, Pfizer aveva apparentemente risolto il problema. Dichiarò che il vaccino poteva essere conservato in congelatori convenzionali (-20°C), non richiedeva più congelatori ultra freddi. Tanto bastò a Fda ed Ema, le agenzie regolatorie statunitense ed europea, che approvarono rapidamente la modifica, così pure le date di scadenza del vaccino furono prorogate di sei mesi e fino a un anno. «Ma conoscendo la sensibilità dell’Rna ai cambiamenti di temperatura e alla durata di conservazione, su quali dati di stabilità si sono basate le agenzie regolatorie per dare il via libera?», ha chiesto la Demasi alla Fda, che si è rifiutata di fornire la documentazione richiesta. Anche Pfizer ha detto di no, non intende divulgare i dati e invoca la «riservatezza commerciale». Però è una questione di sicurezza del vaccino, che riguarda la salute di milioni di persone. «Alcune ricevono dosi di mRna più elevate rispetto ad altre, e questo potrebbe spiegare perché lotti di vaccino sono associati a più eventi avversi rispetto ad altri», ha precisato Altman, riferendosi allo studio danese pubblicato lo scorso marzo sull’European Journal of Clinical Investigation. «Credo che le aziende farmaceutiche abbiamo sottostimato l’effetto paradosso», o Ade, che dipende principalmente da un rapporto squilibrato tra anticorpi neutralizzanti e non neutralizzanti contro il virus infettante, spiegò alla Verità un’affermata studiosa costretta all’anonimato. «Hanno detto di essere pronte a fornire i vaccini perché confidavano sul fatto che, già a fine 2020, il virus fosse ormai sufficientemente attenuato, sperando così di poter osservare un numero limitato di Ade nei vaccinati». Aggiunse che forse, avere composti con un mRna meno stabile, cambiando la temperatura di conservazione, è stata la «fortuna» per quanti si sarebbero ritrovati con molti più effetti avversi. Il bioscienziato David Wiseman afferma che sarebbe stato essenziale condurre test di stabilità in condizioni reali per valutare l’integrità dell’Rna e delle nanoparticelle lipidiche dopo il trasporto, lo stoccaggio, la preparazione e il mantenimento in cliniche in condizioni non ideali. La nuova soluzione tampone utilizzata da Pfizer per il sequenziamento dell’mRna e per migliorare il profilo di stabilità del vaccino «probabilmente avrebbe un impatto sulla quantità di proteine Spike prodotte o altererebbe il modo in cui le nanoparticelle lipidiche si comportano nel corpo», osserva Wiseman. Il professore accusa la Fda di non «aver mai insistito affinché la nuova formulazione fosse testata, almeno sugli animali, prima che farla iniettare nei bambini».Nuove ipotesi sugli effetti del vaccino anti Covid a mRna arrivano anche da un paper, pubblicato su European Review for Medical and Pharmacological Sciences. Gli autori, tra i quali esperti di genetica italiani, nella documentazione supplementare dichiarano di aver rilevato nel Dna genomico di pazienti con long Covid e diversi mesi dopo l’essersi vaccinati, «la presenza di una sequenza simile alla sequenza proteica del picco del vaccino BNT162b2, che potrebbe indicare una potenziale integrazione». La persistenza della Spike è già stata documentata da diversi studi, mentre per la integrazione nel Dna di sequenze da mRna vaccinali servirebbero casistiche più ampie, ma è un altro campanello d’allarme.
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Cattolica rifiuta di equiparare la malattia che uccise i medici all’infortunio sul lavoro. Cause in vista dai parenti delle vittime. Dati essenziali per valutare l’efficacia dei preparati, ma l’azienda invoca la riservatezza. Lo speciale contiene due articoli. Sono molte le questioni legate alla pandemia Covid ancora irrisolte. Una tra tutte risulta essere il nodo assicurativo, e più nel dettaglio il risarcimento che le compagnie del settore dovrebbero fornire ai medici morti a causa del virus. La questione però risulta essere più complicata di quanto si possa pensare, anche perché entrano in gioco i tecnicismi legati al mondo assicurativo, quale la differenza tra infortunio e malattia e l’eventuale collegamento della morte come conseguenza di un infortunio professionale/extraprofessionale o alla malattia. Nel caso specifico, Cattolica Assicurazioni, diventata a luglio una divisione di Generali Italia guidata da Giancarlo Fancel, non intende pagare gli indennizzi dei dottori dipendenti del Servizio sanitario nazionale (Ssn) deceduti durante la pandemia. I familiari dei 383 camici bianchi morti scomparsi starebbero premendo sulla compagnia assicurativa per vedersi riconosciuto l’indennizzo, minacciando in caso contrario di fare causa. Secondo quanto risulta a Milano Finanza, lo scontro tra le parti verterebbe sull’estensione del concetto di infortunio sul lavoro e l’assimilazione di questo a quello di morte improvvisa, inaspettata e imprevedibile, da agente infettivo. I famigliari dei medici deceduti stanno infatti sollecitando la compagnia assicurativa ad adottare, per i risarcimenti, l’interpretazione fornita dall’Inail per quanto riguarda il Covid. Nel dettaglio, l’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, nella circolare numero 13 del 3 aprile 2020, ha chiarito alcuni aspetti concernenti la tutela assicurativa nei casi accertati di infezione da nuovo coronavirus, avvenuti in occasione di lavoro. «Secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l’Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta», si legge dal testo della circolare che aggiunge anche come, «in tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione da nuovo Coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto. [...] Nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico». Interpretazione che però Cattolica assicurazioni non intende applicare. Molto probabilmente la compagnia, nel negare l’indennizzo ai parenti dei camici bianchi morti durante la il Covid, si rifà alla sentenza del 20 giugno 2023, con cui la Corte di appello di Torino ha affrontato una controversia relativa alla riconducibilità dell’infezione da Covid all’infortunio sul lavoro, previsto dal contratto di assicurazione e il relativo indennizzo spettante alla morte dell’assicurato. Nel caso in esame, il giudice era partito dal fatto che quando si stipula una polizza infortuni privata, l’oggetto della garanzia viene liberamente determinato tra le parti in questione (concetto di autonomia negoziale riconosciuto dal Codice civile). Le parti avevano deciso di distinguere tra infortunio e malattia e di legare l’evento di morte a un conseguente infortunio e non alla malattia. Nel farlo, avevano anche definito l’infortunio come un evento dovuto a una causa fortuita, violenta ed esterna che causa lesioni fisiche. Stando alla definizione, si è però andati a escludere il concetto di Covid e più in generale della morte conseguente a infezioni virali, visto che questa non si può configurare come un evento dovuto a una causa violenta. Altro elemento evidenziato dal giudice è che nel caso di infezione da Covid, non si può risalire con precisione al luogo e al momento del contagio (nell’incidente sul lavoro il tutto è invece individuabile). Inoltre, la lesione non è immediatamente riscontrabile, dato che è preceduta da un periodo di incubazione che può variare a secondo del ceppo del virus che si contrae. Il riconoscimento dell’indennizzo si gioca dunque su sottigliezze e dettagli, tipici dei contratti assicurativi, che possono far pendere l’ago della bilancia dalla parte dei parenti dei medici o della compagnia assicurativa. La questione rimane dunque ancora aperta, in attesa di ulteriori risvolti. L’unica certezza è che Cattolica assicurazioni in tempi non sospetti, nel 2017, aveva vinto la gara pubblica per la stipula delle polizze Rc infortuni indetta dall’Enpam, la cassa previdenziale dei medici. Difficile dunque andare a quantificare il rischio finanziario di questa vicenda, anche perché non risulta essere ancora chiaro il numero delle famiglie che potrebbero intraprendere le vie legali. Considerando che il tetto per gli indennizzi a seguito di morte da infortunio è di 100.000 euro, il rischio potenziale per la compagnia si aggira intorno ai 38 milioni di euro.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pasticcio-niente-indennizzi-sanitari-morti-2666816356.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pfizer-non-fornisce-le-informazioni-sulla-stabilita-dellrna-nel-vaccino" data-post-id="2666816356" data-published-at="1703755274" data-use-pagination="False"> Pfizer non fornisce le informazioni sulla stabilità dell’Rna nel vaccino «È di fondamentale importanza conoscere la stabilità dell’Rna nei vaccini perché se si disintegra, l’efficacia del vaccino diminuisce». L’esperto australiano Phillip Altman, responsabile dell’approvazione sul mercato di numerosi nuovi farmaci, ha spiegato alla giornalista investigativa Maryanne Demasi che questi dati «sono di enorme interesse pubblico e dovrebbero essere divulgati», mentre Pfizer si rifiuta di farlo. Eppure, i dubbi si sono accumulati dalla prima comparsa sul mercato del vaccino anti Covid. In un primo momento, l’azienda aveva affermato che l’mRna nel vaccino, che codifica per la proteina Spike, è instabile e decadrebbe se le fiale chiuse non fossero conservate a -70°C. Ma nel febbraio 2021, Pfizer aveva apparentemente risolto il problema. Dichiarò che il vaccino poteva essere conservato in congelatori convenzionali (-20°C), non richiedeva più congelatori ultra freddi. Tanto bastò a Fda ed Ema, le agenzie regolatorie statunitense ed europea, che approvarono rapidamente la modifica, così pure le date di scadenza del vaccino furono prorogate di sei mesi e fino a un anno. «Ma conoscendo la sensibilità dell’Rna ai cambiamenti di temperatura e alla durata di conservazione, su quali dati di stabilità si sono basate le agenzie regolatorie per dare il via libera?», ha chiesto la Demasi alla Fda, che si è rifiutata di fornire la documentazione richiesta. Anche Pfizer ha detto di no, non intende divulgare i dati e invoca la «riservatezza commerciale». Però è una questione di sicurezza del vaccino, che riguarda la salute di milioni di persone. «Alcune ricevono dosi di mRna più elevate rispetto ad altre, e questo potrebbe spiegare perché lotti di vaccino sono associati a più eventi avversi rispetto ad altri», ha precisato Altman, riferendosi allo studio danese pubblicato lo scorso marzo sull’European Journal of Clinical Investigation. «Credo che le aziende farmaceutiche abbiamo sottostimato l’effetto paradosso», o Ade, che dipende principalmente da un rapporto squilibrato tra anticorpi neutralizzanti e non neutralizzanti contro il virus infettante, spiegò alla Verità un’affermata studiosa costretta all’anonimato. «Hanno detto di essere pronte a fornire i vaccini perché confidavano sul fatto che, già a fine 2020, il virus fosse ormai sufficientemente attenuato, sperando così di poter osservare un numero limitato di Ade nei vaccinati». Aggiunse che forse, avere composti con un mRna meno stabile, cambiando la temperatura di conservazione, è stata la «fortuna» per quanti si sarebbero ritrovati con molti più effetti avversi. Il bioscienziato David Wiseman afferma che sarebbe stato essenziale condurre test di stabilità in condizioni reali per valutare l’integrità dell’Rna e delle nanoparticelle lipidiche dopo il trasporto, lo stoccaggio, la preparazione e il mantenimento in cliniche in condizioni non ideali. La nuova soluzione tampone utilizzata da Pfizer per il sequenziamento dell’mRna e per migliorare il profilo di stabilità del vaccino «probabilmente avrebbe un impatto sulla quantità di proteine Spike prodotte o altererebbe il modo in cui le nanoparticelle lipidiche si comportano nel corpo», osserva Wiseman. Il professore accusa la Fda di non «aver mai insistito affinché la nuova formulazione fosse testata, almeno sugli animali, prima che farla iniettare nei bambini».Nuove ipotesi sugli effetti del vaccino anti Covid a mRna arrivano anche da un paper, pubblicato su European Review for Medical and Pharmacological Sciences. Gli autori, tra i quali esperti di genetica italiani, nella documentazione supplementare dichiarano di aver rilevato nel Dna genomico di pazienti con long Covid e diversi mesi dopo l’essersi vaccinati, «la presenza di una sequenza simile alla sequenza proteica del picco del vaccino BNT162b2, che potrebbe indicare una potenziale integrazione». La persistenza della Spike è già stata documentata da diversi studi, mentre per la integrazione nel Dna di sequenze da mRna vaccinali servirebbero casistiche più ampie, ma è un altro campanello d’allarme.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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