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2024-10-09
I parenti delle vittime processano Conte
Giuseppe Conte (Getty Images)
È il primo marzo 2021. Gli italiani, prigionieri dell’incubo della pandemia, coltivano una speranza: il vaccino. Priorità a fragili e anziani, ma anche alle categorie professionali più esposte al contagio e attive nei settori essenziali: sanitari, forze dell’ordine, insegnanti. Ed è proprio a scuola che lavora Zelia Guzzo, 37 anni, originaria di Gela. Si vaccina con Astrazeneca, ma poi inizia a stare male. Undici giorni dopo l’iniezione, viene ricoverata. Il 24 marzo muore. A stroncarla è la Vitt, acronimo inglese di trombocitopenia e trombosi immunitaria indotta da vaccino. Il nesso causale con quella dose è ormai certificato. Tanto che, a febbraio 2023, il ministero della Salute riconosce alla famiglia della donna un indennizzo da 77.000 euro. I suoi parenti, però, considerano la cifra «irrisoria e offensiva per una perdita che ha provocato tanto dolore». E insieme all’avvocato Valerio Messina, puntano al bersaglio grosso: la casa farmaceutica anglosvedese, dalla quale si aspettano un risarcimento di oltre 2 milioni. Nel Regno Unito ci sono altri procedimenti in corso, ma la loro è la causa pilota in Italia.
Si combatte a colpi di consulenze tecniche, controdeduzioni del legale della vittima e repliche dei periti incaricati dal tribunale siciliano. Il punto è questo: poteva Astrazeneca, a marzo 2021, non sapere nulla del rischio di trombosi associato al suo farmaco? E se ne era al corrente, perché non ha lanciato un avvertimento? Tutto si gioca su una distinzione sottilissima. Da un lato, l’effettiva «conoscenza» di quel potenziale effetto collaterale: per dimostrarla in modo incontrovertibile, bisognerebbe trovare, ad esempio, uno scambio di comunicazioni tra la compagnia e l’Aifa britannica, la Medicines & health products regulatory agency. Dall’altro lato, però, c’è la «conoscibilità» del fenomeno. E secondo l’avvocato dei familiari di Zelia, i rischi del vaccino potevano essere noti al colosso farmaceutico.
Uno degli argomenti fa leva sui precedenti studi dedicati alle controindicazioni degli immunizzanti a vettore adenovirale, a cominciare da quello che era stato proposto per combattere l’ebola. La complicanza che ha ucciso la Guzzo - è scritto nelle carte del legale - «era stata ampiamente descritta in letteratura già prima della commercializzazione» del rimedio anti Covid. Nella fase 3 del trial, anche Astrazeneca aveva inserito, tra gli «eventi avversi di speciale interesse», quattro «eventi trombotici, tromboembolici e neurovascolari», su 12.021 partecipanti alla sperimentazione. Pochi? Non esattamente, se si pensa a quante persone era destinato il preparato... All’epoca, però, era stato escluso un rapporto diretto tra vaccinazione e le patologie, nessuna delle quali, in quel momento (17 novembre 2020), aveva avuto esito fatale. A parere degli esperti convocati dal giudice, è un errore pensare che i problemi del vaccino anti ebola siano paragonabili a quelli di Vaxzevria: l’adenovirus utilizzato per i due medicinali è diverso e le ricerche su quello per il coronavirus non avrebbero confermato i dati raccolti sull’altro candidato, la cui casistica sarebbe stata troppo limitata. I Cc.tt.uu avrebbero dovuto spiegarlo all’allora capo dell’Aifa, Giorgio Palù. In una riunione del 7 giugno 2021, quando i membri del Comitato tecnico scientifico discutevano sull’opportunità di vaccinare con il prodotto di Az i giovani, l’oncologo sottolineava che vi era una «conoscenza del problema che è legato agli adenovirus in generale, eh, lo dico anche nei modelli di macaco, quindi è stato dimostrato questo evento». Rileggete: «Dimostrato». Palù parlava delle trombosi da vaccino a vettore adenovirale come di un effetto collaterale noto nella comunità scientifica: «Io posso dirvi […] che dal punto di vista virologico adenovirus è molto reattogenico sia nella fibra che nel pentone che nel polianione che nel Dna che nella molteplicità di recettori che trova all’interno delle cellule che sono in grado di attivare la risposta innata del complemento e questo porta a sua volta, come sapete, ad amplificare quella che è poi l’attività pro coagulativa». Se gli specialisti non sembravano meravigliati dagli episodi di Vitt registrati in Italia, era plausibile che Astrazeneca fosse caduta dal pero?
L’avvocato Messina cita pure un altro elemento importante. Il 16 gennaio 2021, un mese e mezzo prima che Zelia Guzzo venisse vaccinata, una dose fu somministrata allo psicologo inglese Stephen Wright, 32 anni. Otto giorni dopo, il giovane morì per una Vitt. Al quartier generale dell’industria ne erano all’oscuro? Il 19 febbraio, dieci giorni prima dell’iniezione che sarebbe stata fatale all’insegnate di Gela, quel sospetto evento avverso era stato incluso nella tabella Mhra, anche se non ancora come «reazione fatale». L’avvocato della famiglia della defunta ne è convinto: a marzo ce n’era abbastanza per fermare le punture. E la società, che è tenuta a svolgere farmacovigilanza post marketing, non doveva essere già sull’attenti? O si deve supporre che, come gli altri comuni cittadini, apprendesse degli effetti collaterali dalle relazioni periodiche dell’authority di Londra? Per i consulenti del tribunale, al contrario, non ci sarebbe stato tempo a sufficienza per raccogliere i dati, confermare i rischi e bloccare le somministrazioni. Vedremo a chi daranno ragione le toghe. Intanto, emerge una contraddizione. I tecnici, in effetti, insistono: solo ad aprile 2021 si accerta un collegamento tra Vaxzevria e la Vitt. Ma la scheda del medicinale viene aggiornata, con l’inserimento della voce «Trombocitopenia e disturbi della coagulazione», il 25 marzo 2021. In base a cosa, se mancavano informazioni? Tra l’altro, quella è la ragione per cui i querelanti affermano che Zelia, 24 giorni prima delle modifiche al bugiardino, non sarebbe stata in condizione di esprimere un consenso davvero «informato» alla vaccinazione.
Astrazeneca ha ammesso i possibili danni derivanti dalle inoculazioni a fine aprile 2024. Nell’ambito di uno dei processi in cui è coinvolta in Gran Bretagna, ha riconosciuto che il suo farmaco «può provocare, in casi molto rari, trombosi con sindrome da trombocitopenia (Tts)». Fino a un anno prima, negava ogni addebito: «Non ammettiamo, a livello generale, che la Tts sia causata dal vaccino». A inizio maggio, in seguito alla revoca dell’autorizzazione al suo uso nell’Ue, il colosso anglosvedese ha definitivamente ritirato Vaxzevria, citando una «eccedenza di vaccini aggiornati disponibili» e dichiarando che si sarebbe buttata sulla tecnologia a mRna. Guarda un po’: con questa mossa, l’azienda non ha più l’onere di pubblicare i risultati dell’indagine retrospettiva sulle trombosi, attesa per il «secondo trimestre 2024». Le rimane la manleva: se fosse costretta a risarcire gli eredi di Zelia Guzzo e se iniziassero a piovere ricorsi, la compagnia, in virtù dei contratti siglati con l’Ue, dovrebbe essere coperta dai denari pubblici. Ecco perché viene da pensar male: lo Stato ha più interesse a stare con le presunte vittime, oppure con Big pharma?
I parenti delle vittime processano Conte: «Dignità lesa, lo Stato alimentò il terrore»
«Ecco che cosa erano i nostri cari. Dei piedi, con un cartellino attaccato. Corpi nudi, chiusi in una busta di plastica, privati di ogni dignità. Questo è il grido di dolore di noi familiari, ne abbiamo il diritto. Voglio fidarmi di questa commissione», ha detto a voce ferma l’avvocato Eleonora Coletta del Comitato Verità e giustizia vittime Covid Moscati di Taranto. Ospedale dove i morti furono tantissimi, anche nelle tende allestite all’esterno. Era tra i rappresentanti delle prime associazioni ascoltate ieri in commissione parlamentare d’inchiesta. Audizioni sofferte, testimonianze di lutti e di un regime sanitario scellerato che non vogliono finisca dimenticato. «Chiediamo si faccia chiarezza, che le responsabilità emergano», è stata la richiesta unanime. «Se non ci fosse stato il clima di terrore nel quale abbiamo vissuto, mai saremmo andati in ospedale per una febbre a 38/39 o per la tosse. Invece ci hanno inculcato che il Covid non aveva cura, che dovevamo diffidare gli uni degli altri, che dovevamo stare in vigile attesa, che l’unica soluzione era correre in ospedale. Questo nella prima, nella seconda, nella terza ondata, quando era chiaro che il virus andava aggredito subito», ha dichiarato Coletta. Per poi aggiungere: «Con quale criterio si è stabilito che cosa fosse scientifico o meno? Lo chiederei al ministro Speranza, o al presidente Conte che è qui seduto di fronte a me. Perché nei comitati scientifici non sono stati inseriti i medici che offrivano cure, e sono stati messi solo coloro che generavano allarmismi?». La sua conclusione è stata altrettanto diretta: «Ci siamo fidati, abbiamo accettato tutte le assurde regole imposte. Nessuno dei governi dal 2020 al 2022 ha detto o fatto qualche cosa per noi. Nessuno ha chiesto scusa».Molti interventi di ieri hanno riguardato l’assenza di cure domiciliari e il grande caos che regnava negli ospedali. Contagi in corsia, nelle Rsa, infezioni nosocomiali, «alti flussi di ossigeno somministrati per un tempo lungo che hanno creato danni anziché miglioramento», elencava Sabrina Guarini, presidente del Comitato nazionale familiari vittime Covid. «Abbiamo chat tra parenti e degenti che sono surreali, con il congiunto che non riusciva a respirare con la maschera che gli avevano messo. Ci chiediamo a che cosa sia servito l’incremento tariffario, oltre 3.000 euro al giorno per le degenze in area medica Covid e oltre 9.000 euro in terapia intensiva, se i diritti del malato e della persona non sono stati rispettati». Proseguiva: «La prescrizione generale era “paracetamolo e vigile attesa”. Un uso del plasma iperimmune avrebbe evitato circa 200.000 ospedalizzazioni e migliaia di decessi, ma diversi di noi si sono visti negare l’accesso a questa terapia». Stesso discorso sull’utilizzo degli anticorpi monoclonali.Molti, troppi morirono. «Ci è stato impedito di vedere il nostro caro ormai privo di vita, neppure indossando una doppia, tripla tuta. E non solo nei primi mesi della pandemia, il mio papà è morto il 27 luglio del 2021 senza che potessi dargli un saluto. Noi non sappiamo nemmeno chi ci sia dentro la bara», ha raccontato con voce rotta Guarini, rispondendo al senatore Claudio Borghi della Lega che chiedeva qualche testimonianza sulle persone decedute per Covid. Come giudica sia stata la comunicazione da parte dello Stato, le ha invece chiesto il senatore Marco Lisei di Fdi, presidente della commissione d’inchiesta. «Scarsa e basata sul terrore», è stata la definizione della portavoce del comitato.«Abbiamo bisogno che indaghiate e facciate un ottimo lavoro», ha detto ai parlamentari Elisabetta Stellabotte, presidente del comitato L’Altra verità, che ritiene «colpevole anche il grande silenzio della Chiesa», che ha permesso che venisse tolta l’acqua benedetta e fossero vietate le funzioni religiose. «Noi abbiamo la colpa di aver lasciato i nostri cari in ospedale e chiediamo il motivo per cui nessuna Procura abbia visto le nostre cartelle periziate», ha proseguito Stellabotte, ritenendo inaccettabile che i dottori avessero potuto seguire «linee guida scellerate» e che «un medico si possa sostituire a Dio e decidere di suo pugno quando portare un paziente a fine vita».Il leader del M5s, Giuseppe Conte, si è sentito in dovere di dichiarare: «Lascio alla presidente Stellabotte la responsabilità di alcune affermazioni del tutto opinabili come il fatto che sia responsabile la Chiesa. Perché non mi sono chiare». Ci ha pensato l’avvocato Consuelo Locati per l’associazione #Sereniesempreuniti a rinfrescare la memoria all’ex premier. «Possedevamo i piani e le capacità necessarie indicate dall’Oms nel Regolamento sanitario internazionale (Rsi) per rispondere efficacemente a questa minaccia? Abbiamo osservato le disposizioni in materia emesse dall’Ue nel 2013 con la decisione del Parlamento europeo e del Consiglio n. 1082/2013? È un no su tutta la linea, sebbene il presidente del Consiglio avesse assicurato la popolazione che eravamo “pronti, anzi, prontissimi”».Ne ha avute anche per l’ex ministro della Salute, Roberto Speranza, che il 3 febbraio 2020 dichiarava: «Sul nuovo coronavirus vogliamo dare un messaggio di assoluta serenità. Il Servizio sanitario nazionale è molto forte, abbiamo scelto fin dall’inizio di avere un livello di attenzione che è il più alto in Europa. In questo momento siamo l’unico paese che ha interrotto i collegamenti con la Cina». Commento di Locati in aula: «Una serie di spaventosi abbagli, visto che il nemico era già da diverse settimane entrato in città senza essere stato rilevato». Nella prima seduta delle audizioni è stato anche sentita l’Associazione italiana vittime Covid, con altre testimonianze contro Speranza e Conte, e l’Anaao Assomed, sindacato di medici e dirigenti sanitari italiani, che ha dichiarato di «aver sempre operato nel rispetto profondo della scienza e dei pazienti perché è il nostro ruolo».
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L’ex premier incalzato: «Perché nel Cts non c’erano i medici che offrivano cure ma solo chi generava allarmismi?». «Senza il clima di terrore, mai i nostri cari sarebbero andati in ospedale per una febbre». «Poi lì sono morti e non ce li avete neanche fatti vedere».È il primo marzo 2021. Gli italiani, prigionieri dell’incubo della pandemia, coltivano una speranza: il vaccino. Priorità a fragili e anziani, ma anche alle categorie professionali più esposte al contagio e attive nei settori essenziali: sanitari, forze dell’ordine, insegnanti. Ed è proprio a scuola che lavora Zelia Guzzo, 37 anni, originaria di Gela. Si vaccina con Astrazeneca, ma poi inizia a stare male. Undici giorni dopo l’iniezione, viene ricoverata. Il 24 marzo muore. A stroncarla è la Vitt, acronimo inglese di trombocitopenia e trombosi immunitaria indotta da vaccino. Il nesso causale con quella dose è ormai certificato. Tanto che, a febbraio 2023, il ministero della Salute riconosce alla famiglia della donna un indennizzo da 77.000 euro. I suoi parenti, però, considerano la cifra «irrisoria e offensiva per una perdita che ha provocato tanto dolore». E insieme all’avvocato Valerio Messina, puntano al bersaglio grosso: la casa farmaceutica anglosvedese, dalla quale si aspettano un risarcimento di oltre 2 milioni. Nel Regno Unito ci sono altri procedimenti in corso, ma la loro è la causa pilota in Italia.Si combatte a colpi di consulenze tecniche, controdeduzioni del legale della vittima e repliche dei periti incaricati dal tribunale siciliano. Il punto è questo: poteva Astrazeneca, a marzo 2021, non sapere nulla del rischio di trombosi associato al suo farmaco? E se ne era al corrente, perché non ha lanciato un avvertimento? Tutto si gioca su una distinzione sottilissima. Da un lato, l’effettiva «conoscenza» di quel potenziale effetto collaterale: per dimostrarla in modo incontrovertibile, bisognerebbe trovare, ad esempio, uno scambio di comunicazioni tra la compagnia e l’Aifa britannica, la Medicines & health products regulatory agency. Dall’altro lato, però, c’è la «conoscibilità» del fenomeno. E secondo l’avvocato dei familiari di Zelia, i rischi del vaccino potevano essere noti al colosso farmaceutico.Uno degli argomenti fa leva sui precedenti studi dedicati alle controindicazioni degli immunizzanti a vettore adenovirale, a cominciare da quello che era stato proposto per combattere l’ebola. La complicanza che ha ucciso la Guzzo - è scritto nelle carte del legale - «era stata ampiamente descritta in letteratura già prima della commercializzazione» del rimedio anti Covid. Nella fase 3 del trial, anche Astrazeneca aveva inserito, tra gli «eventi avversi di speciale interesse», quattro «eventi trombotici, tromboembolici e neurovascolari», su 12.021 partecipanti alla sperimentazione. Pochi? Non esattamente, se si pensa a quante persone era destinato il preparato... All’epoca, però, era stato escluso un rapporto diretto tra vaccinazione e le patologie, nessuna delle quali, in quel momento (17 novembre 2020), aveva avuto esito fatale. A parere degli esperti convocati dal giudice, è un errore pensare che i problemi del vaccino anti ebola siano paragonabili a quelli di Vaxzevria: l’adenovirus utilizzato per i due medicinali è diverso e le ricerche su quello per il coronavirus non avrebbero confermato i dati raccolti sull’altro candidato, la cui casistica sarebbe stata troppo limitata. I Cc.tt.uu avrebbero dovuto spiegarlo all’allora capo dell’Aifa, Giorgio Palù. In una riunione del 7 giugno 2021, quando i membri del Comitato tecnico scientifico discutevano sull’opportunità di vaccinare con il prodotto di Az i giovani, l’oncologo sottolineava che vi era una «conoscenza del problema che è legato agli adenovirus in generale, eh, lo dico anche nei modelli di macaco, quindi è stato dimostrato questo evento». Rileggete: «Dimostrato». Palù parlava delle trombosi da vaccino a vettore adenovirale come di un effetto collaterale noto nella comunità scientifica: «Io posso dirvi […] che dal punto di vista virologico adenovirus è molto reattogenico sia nella fibra che nel pentone che nel polianione che nel Dna che nella molteplicità di recettori che trova all’interno delle cellule che sono in grado di attivare la risposta innata del complemento e questo porta a sua volta, come sapete, ad amplificare quella che è poi l’attività pro coagulativa». Se gli specialisti non sembravano meravigliati dagli episodi di Vitt registrati in Italia, era plausibile che Astrazeneca fosse caduta dal pero?L’avvocato Messina cita pure un altro elemento importante. Il 16 gennaio 2021, un mese e mezzo prima che Zelia Guzzo venisse vaccinata, una dose fu somministrata allo psicologo inglese Stephen Wright, 32 anni. Otto giorni dopo, il giovane morì per una Vitt. Al quartier generale dell’industria ne erano all’oscuro? Il 19 febbraio, dieci giorni prima dell’iniezione che sarebbe stata fatale all’insegnate di Gela, quel sospetto evento avverso era stato incluso nella tabella Mhra, anche se non ancora come «reazione fatale». L’avvocato della famiglia della defunta ne è convinto: a marzo ce n’era abbastanza per fermare le punture. E la società, che è tenuta a svolgere farmacovigilanza post marketing, non doveva essere già sull’attenti? O si deve supporre che, come gli altri comuni cittadini, apprendesse degli effetti collaterali dalle relazioni periodiche dell’authority di Londra? Per i consulenti del tribunale, al contrario, non ci sarebbe stato tempo a sufficienza per raccogliere i dati, confermare i rischi e bloccare le somministrazioni. Vedremo a chi daranno ragione le toghe. Intanto, emerge una contraddizione. I tecnici, in effetti, insistono: solo ad aprile 2021 si accerta un collegamento tra Vaxzevria e la Vitt. Ma la scheda del medicinale viene aggiornata, con l’inserimento della voce «Trombocitopenia e disturbi della coagulazione», il 25 marzo 2021. In base a cosa, se mancavano informazioni? Tra l’altro, quella è la ragione per cui i querelanti affermano che Zelia, 24 giorni prima delle modifiche al bugiardino, non sarebbe stata in condizione di esprimere un consenso davvero «informato» alla vaccinazione.Astrazeneca ha ammesso i possibili danni derivanti dalle inoculazioni a fine aprile 2024. Nell’ambito di uno dei processi in cui è coinvolta in Gran Bretagna, ha riconosciuto che il suo farmaco «può provocare, in casi molto rari, trombosi con sindrome da trombocitopenia (Tts)». Fino a un anno prima, negava ogni addebito: «Non ammettiamo, a livello generale, che la Tts sia causata dal vaccino». A inizio maggio, in seguito alla revoca dell’autorizzazione al suo uso nell’Ue, il colosso anglosvedese ha definitivamente ritirato Vaxzevria, citando una «eccedenza di vaccini aggiornati disponibili» e dichiarando che si sarebbe buttata sulla tecnologia a mRna. Guarda un po’: con questa mossa, l’azienda non ha più l’onere di pubblicare i risultati dell’indagine retrospettiva sulle trombosi, attesa per il «secondo trimestre 2024». Le rimane la manleva: se fosse costretta a risarcire gli eredi di Zelia Guzzo e se iniziassero a piovere ricorsi, la compagnia, in virtù dei contratti siglati con l’Ue, dovrebbe essere coperta dai denari pubblici. 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Ospedale dove i morti furono tantissimi, anche nelle tende allestite all’esterno. Era tra i rappresentanti delle prime associazioni ascoltate ieri in commissione parlamentare d’inchiesta. Audizioni sofferte, testimonianze di lutti e di un regime sanitario scellerato che non vogliono finisca dimenticato. «Chiediamo si faccia chiarezza, che le responsabilità emergano», è stata la richiesta unanime. «Se non ci fosse stato il clima di terrore nel quale abbiamo vissuto, mai saremmo andati in ospedale per una febbre a 38/39 o per la tosse. Invece ci hanno inculcato che il Covid non aveva cura, che dovevamo diffidare gli uni degli altri, che dovevamo stare in vigile attesa, che l’unica soluzione era correre in ospedale. Questo nella prima, nella seconda, nella terza ondata, quando era chiaro che il virus andava aggredito subito», ha dichiarato Coletta. Per poi aggiungere: «Con quale criterio si è stabilito che cosa fosse scientifico o meno? Lo chiederei al ministro Speranza, o al presidente Conte che è qui seduto di fronte a me. Perché nei comitati scientifici non sono stati inseriti i medici che offrivano cure, e sono stati messi solo coloro che generavano allarmismi?». La sua conclusione è stata altrettanto diretta: «Ci siamo fidati, abbiamo accettato tutte le assurde regole imposte. Nessuno dei governi dal 2020 al 2022 ha detto o fatto qualche cosa per noi. Nessuno ha chiesto scusa».Molti interventi di ieri hanno riguardato l’assenza di cure domiciliari e il grande caos che regnava negli ospedali. Contagi in corsia, nelle Rsa, infezioni nosocomiali, «alti flussi di ossigeno somministrati per un tempo lungo che hanno creato danni anziché miglioramento», elencava Sabrina Guarini, presidente del Comitato nazionale familiari vittime Covid. «Abbiamo chat tra parenti e degenti che sono surreali, con il congiunto che non riusciva a respirare con la maschera che gli avevano messo. Ci chiediamo a che cosa sia servito l’incremento tariffario, oltre 3.000 euro al giorno per le degenze in area medica Covid e oltre 9.000 euro in terapia intensiva, se i diritti del malato e della persona non sono stati rispettati». Proseguiva: «La prescrizione generale era “paracetamolo e vigile attesa”. Un uso del plasma iperimmune avrebbe evitato circa 200.000 ospedalizzazioni e migliaia di decessi, ma diversi di noi si sono visti negare l’accesso a questa terapia». Stesso discorso sull’utilizzo degli anticorpi monoclonali.Molti, troppi morirono. «Ci è stato impedito di vedere il nostro caro ormai privo di vita, neppure indossando una doppia, tripla tuta. E non solo nei primi mesi della pandemia, il mio papà è morto il 27 luglio del 2021 senza che potessi dargli un saluto. Noi non sappiamo nemmeno chi ci sia dentro la bara», ha raccontato con voce rotta Guarini, rispondendo al senatore Claudio Borghi della Lega che chiedeva qualche testimonianza sulle persone decedute per Covid. Come giudica sia stata la comunicazione da parte dello Stato, le ha invece chiesto il senatore Marco Lisei di Fdi, presidente della commissione d’inchiesta. «Scarsa e basata sul terrore», è stata la definizione della portavoce del comitato.«Abbiamo bisogno che indaghiate e facciate un ottimo lavoro», ha detto ai parlamentari Elisabetta Stellabotte, presidente del comitato L’Altra verità, che ritiene «colpevole anche il grande silenzio della Chiesa», che ha permesso che venisse tolta l’acqua benedetta e fossero vietate le funzioni religiose. «Noi abbiamo la colpa di aver lasciato i nostri cari in ospedale e chiediamo il motivo per cui nessuna Procura abbia visto le nostre cartelle periziate», ha proseguito Stellabotte, ritenendo inaccettabile che i dottori avessero potuto seguire «linee guida scellerate» e che «un medico si possa sostituire a Dio e decidere di suo pugno quando portare un paziente a fine vita».Il leader del M5s, Giuseppe Conte, si è sentito in dovere di dichiarare: «Lascio alla presidente Stellabotte la responsabilità di alcune affermazioni del tutto opinabili come il fatto che sia responsabile la Chiesa. Perché non mi sono chiare». Ci ha pensato l’avvocato Consuelo Locati per l’associazione #Sereniesempreuniti a rinfrescare la memoria all’ex premier. «Possedevamo i piani e le capacità necessarie indicate dall’Oms nel Regolamento sanitario internazionale (Rsi) per rispondere efficacemente a questa minaccia? Abbiamo osservato le disposizioni in materia emesse dall’Ue nel 2013 con la decisione del Parlamento europeo e del Consiglio n. 1082/2013? È un no su tutta la linea, sebbene il presidente del Consiglio avesse assicurato la popolazione che eravamo “pronti, anzi, prontissimi”».Ne ha avute anche per l’ex ministro della Salute, Roberto Speranza, che il 3 febbraio 2020 dichiarava: «Sul nuovo coronavirus vogliamo dare un messaggio di assoluta serenità. Il Servizio sanitario nazionale è molto forte, abbiamo scelto fin dall’inizio di avere un livello di attenzione che è il più alto in Europa. In questo momento siamo l’unico paese che ha interrotto i collegamenti con la Cina». Commento di Locati in aula: «Una serie di spaventosi abbagli, visto che il nemico era già da diverse settimane entrato in città senza essere stato rilevato». Nella prima seduta delle audizioni è stato anche sentita l’Associazione italiana vittime Covid, con altre testimonianze contro Speranza e Conte, e l’Anaao Assomed, sindacato di medici e dirigenti sanitari italiani, che ha dichiarato di «aver sempre operato nel rispetto profondo della scienza e dei pazienti perché è il nostro ruolo».
La Juventus resta sotto il controllo di Exor. Il gruppo ha chiarito con un comunicato la propria posizione sull’offerta di Tether. «La Juventus è un club storico e di successo, di cui Exor e la famiglia Agnelli sono azionisti stabili e orgogliosi da oltre un secolo», si legge nella nota della holding, che conferma come il consiglio di amministrazione abbia respinto all’unanimità l’offerta per l’acquisizione del club e ribadito il pieno impegno nel sostegno al nuovo corso dirigenziale.
A rafforzare il messaggio, nelle stesse ore, è arrivato anche un intervento diretto di John Elkann, diffuso sui canali ufficiali della Juventus. Un video breve, meno di un minuto, ma importante. Elkann sceglie una veste informale, indossa una felpa con la scritta Juventus e parla di identità e di responsabilità. Traduzione per i tifosi che sognano nuovi padroni o un ritorno di Andrea Agnelli: il mercato è aperto per Gedi, ma non per la Juve. Il video va oltre le parole. Chiarisce ciò che viene smentito e ciò che resta aperto. Elkann chiude alla vendita della Juventus. Ma non chiude alla vendita di giornali e radio.
La linea, in realtà, era stata tracciata. Già ai primi di novembre, intervenendo al Coni, Elkann aveva dichiarato che la Juve non era in vendita, parlando del club come di un patrimonio identitario prima ancora che industriale. Uno dei nodi resta il prezzo. L’offerta attribuiva alla Juventus una valutazione tra 1,1 e 1,2 miliardi, cifra che Exor giudica distante dal peso economico reale (si mormora che Tether potrebbe raddoppiare l’offerta). Del resto, la Juventus è una società quotata, con una governance strutturata, ricavi di livello europeo e un elemento che in Italia continua a fare la differenza: lo stadio di proprietà. L’Allianz Stadium non è solo un simbolo. Funziona come asset industriale. È costato circa 155 milioni di euro, è entrato in funzione nel 2011 e oggi gli analisti di settore lo valutano tra 300 e 400 milioni, considerando struttura, diritti e capacità di generare ricavi. L’impianto produce flussi stabili, consente pianificazione e riduce l’esposizione ai risultati sportivi di breve periodo.
I numeri di bilancio completano il quadro. Nei cicli più recenti la Juventus ha generato ricavi operativi tra 400 e 450 milioni di euro, collocandosi tra i principali club europei per fatturato, come indicano i report Deloitte football money league. Prima della pandemia, i ricavi da stadio oscillavano tra 60 e 70 milioni di euro a stagione, ai vertici della Serie A. Su queste basi, applicando multipli utilizzati per club con brand globale e asset infrastrutturali, negli ambienti finanziari la valutazione industriale della Juventus viene collocata tra 1,5 e 2 miliardi di euro, al netto delle variabili sportive.
Il confronto con il mercato rafforza questa lettura. Il Milan è stato ceduto a RedBird per circa 1,2 miliardi di euro, senza stadio di proprietà e con una governance più complessa. Quel prezzo resta un riferimento nel calcio italiano. Se quella è stata la valutazione di un top club privo dell’asset stadio, risulta difficile immaginare che la Juventus possa essere trattata allo stesso livello senza che il socio di controllo giudichi l’operazione penalizzante.
A incidere è anche il profilo dell’offerente. Tether, principale emittente globale di stablecoin, opera in un perimetro regolatorio diverso da quello degli intermediari tradizionali, seguito con attenzione anche da Consob. Dopo l’ultimo aumento di capitale bianconero, Standard & Poor’s ha declassato la capacità di Usdt di mantenere l’ancoraggio al dollaro. Sul piano reputazionale pesa, inoltre, il giudizio dell’Economist (del gruppo Exor), secondo cui la stablecoin è diventata uno strumento utilizzato anche nei circuiti dell’economia sommersa globale, cioè sul mercato nero.
Intorno alla Juventus circolano anche altre ipotesi. Si parla di Leonardo Maria Del Vecchio, erede del fondatore di Luxottica e azionista di EssilorLuxottica attraverso la holding di famiglia Delfin, dopo l’offerta presentata su Gedi, e di un possibile interesse indiretto di capitali mediorientali. Al momento, però, mancano cifre e progetti industriali strutturati. Restano solo indiscrezioni.
Sullo sfondo continua intanto a emergere il nome di Andrea Agnelli. L’ex presidente dei nove scudetti ha concluso la squalifica e raccoglie il consenso di una parte ampia della tifoseria, che lo sogna come possibile punto di ripartenza. L’ipotesi che circola immagina un ritorno sostenuto da imprenditori internazionali, anche mediorientali, in un contesto in cui il fondo saudita Pif, guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman e già proprietario del Newcastle, si è imposto come uno dei principali attori globali del calcio.
Un asse che non si esaurisce sul terreno sportivo. Lo stesso filone saudita riaffiora nel dossier Gedi, ormai entrato nella fase conclusiva. La presenza dell’imprenditore greco Theodore Kyriakou, fondatore del gruppo Antenna, rimanda a un perimetro di relazioni che incrocia capitali internazionali e investimenti promossi dal regno saudita. In questo quadro, Gedi - che comprende Repubblica, Stampa e Radio Deejay - è l’unico asset destinato a cambiare mano, mentre Exor ha tracciato una linea netta: il gruppo editoriale segue una strada propria, la Juventus resta fuori (al momento) da qualsiasi ipotesi di cessione.
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Finanziere puro. John Elkann, abilissimo a trasformare stabilimenti e impianti, operai e macchinari, sudore e fatica in figurine panini da comprare e vendere. Ma quando si tratta di gestire aziende «vere», quelle che producono, vincono o informano, la situazione si complica. È un po’ come vedere un mago dei numeri alle prese con un campo di calcio per stabilirne il valore e stabilire il valore dei soldi. Ma la palla… beh, la palla non sempre entra in porta. Peccato. Andrà meglio la prossima volta.
Prendiamo Ferrari. Il Cavallino rampante, che una volta dominava la Formula 1, oggi ha perso la capacità di galoppare. Elkann vende il 4% della società per circa 3 miliardi: applausi dagli azionisti, brindisi familiare, ma la pista? Silenziosa. Il titolo è un lontano ricordo. I tifosi hanno esaurito la pazienza rifugiandosi nell’ironia: «Anche per quest’anno vinceremo il Mondiale l’anno prossimo». E cosi gli azionisti. Da quando Elkann ha collocato quelle azioni il titolo scende e basta. Era diventato il gioiello di Piazza Affari. Dopo il blitz di Elkann per arricchire Exor il lento declino.
E la Juventus? Sotto Andrea Agnelli aveva conquistato nove scudetti di fila, un record che ha fatto parlare tutta Italia. Oggi arranca senza gloria. Racconta Platini di una breve esibizione dell’erede di Agnelli in campo. Pochi minuti e si fa sostituire. Rifiata, chiede di rientrare. Il campione francese lo guarda sorridendo: «John, questo è calcio non è basket». Elkann osserva da lontano, contento dei bilanci Exor e delle partecipazioni finanziarie, mentre tifosi e giornalisti discutono sulle strategie sportive. La gestione lo annoia, ma la rendita finanziaria quella è impeccabile.
Gedi naviga tra conti in rosso e sfide editoriali perdenti. Cairo, dall’altra parte, rilancia il Corriere della Sera con determinazione e nuovi investimenti. Elkann sorride: non è un problema gestire giornali, se sai fare finanza. La lezione è chiara: le aziende si muovono, ma i capitali contano di più.
Stellantis? La storia dell’auto italiana. La storia della dinastia. Ora un condominio con la famiglia Peugeot. Elkann lascia fare, osserva i mercati e, quando serve, vende o alleggerisce le partecipazioni. Anche qui, la gestione operativa non è il punto forte: ciò che conta è il risultato finanziario, non il numero di auto prodotte o le fabbriche gestite.
E gli investimenti? Alcuni brillano, altri richiedono pazienza. Philips è un esempio recente: un investimento ambizioso che riflette la strategia di diversificazione di Exor, con qualche rischio incorporato. Ma se si guarda al quadro generale, Elkann ha accumulato oltre 4 miliardi di liquidità entro metà 2025, grazie a vendite mirate e partnership strategiche. Una cifra sufficiente per pensare a nuove acquisizioni e opportunità, senza perdere il sorriso.
Perché poi quello che conta per John è altro. Il gruppo Exor continua a crescere in valore. Gli azionisti vedono il titolo passare da un minimo storico di 13,44 euro nel 2011 a circa 72 euro oggi, e sorridono. La famiglia Elkann Agnelli si gode i frutti degli investimenti, mentre il mondo osserva: Elkann è il finanziere perfetto, sa fare ciò che conta davvero, cioè far crescere la ricchezza e proteggere gli asset della famiglia.
In fondo, Elkann ci ricorda che la finanza ha il suo fascino anche quando la gestione aziendale è complicata: vendere, comprare, accumulare, investire con giudizio (e un pizzico di fortuna) può essere altrettanto emozionante che vincere scudetti, titoli di Formula 1 o rilanciare giornali. Il sorriso di chi ha azioni Exor vale più di qualsiasi trofeo, e dopotutto, questo è il suo segreto.
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Piero Cipollone (Ansa)
Come spiega il politico europeo i «soldi verranno recuperati attraverso quello che è il signoraggio all’euro digitale». Invece «per quanto riguarda sistema bancario e gli altri fornitori di servizi di pagamento, la stima è che possa essere fra i quattro e sei miliardi di euro per quattro anni», ricorda Cipollone. «Tenete conto che, rispetto a quello che spendono le banche per i sistemi It, questa è una cifra minima. Parliamo di circa il 3,5% di quello che spendono le banche annualmente per implementare i loro sistemi. Quindi non è un costo». Inoltre, aggiunge, «va detto che le banche saranno compensate» con una remunerazione molto simile a come quando si fa «una transazione normale con carta».
Cipollone ha anche descritto una sequenza temporale condizionata dall’iter legislativo europeo e dalla necessità di predisporre un’infrastruttura operativa completa prima di qualunque emissione. «Se per la fine del 2026 avremo in piedi la legislazione a quel punto pensiamo di essere in grado di costruire tutta la macchina entro la prima metà del 2027 e quindi, a settembre del 27, di cominciare una fase di sperimentazione, il “Pilot”. Per poi partire con il lancio effettivo nel 2029».
Per l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, l’euro digitale è particolarmente importante per l’Europa «perché via via che si espande lo spazio digitale dei pagamenti, su questo spazio la presenza di operatori europei è quasi nulla». Insomma, «più si espande lo spazio dei pagamenti digitali, più la nostra dipendenza da pochi e importanti operatori stranieri diventa più profonda», ricorda Cipollone. «Le parole chiave sono “pochi” e “non europei”, perché pochi richiama il concetto di scarsa concorrenza, stranieri non europei richiama il concetto di dipendenza strategica da altri operatori. Noi non abbiamo nulla contro operatori stranieri che lavorino nell’area dell’euro. Il problema è che noi vorremmo che l’area dell’euro avesse una sua infrastruttura autonoma, indipendente, che non dipenda dalle decisioni degli altri».
Cipollone ribadisce poi la posizione della Bce sul contante: resta centrale perché «estremamente semplice da usare», quindi inclusivo, utilizzabile ovunque e «sicuro» perché «senza alcun rischio associato». Il problema, però, è che nell’economia sempre più digitale il contante diventa meno spendibile: «Sta diventando sempre meno utilizzabile nell’economia». Da qui l’argomento «di mandato»: se manca un equivalente del contante online, si toglie ai cittadini la possibilità di usare moneta di banca centrale nello spazio digitale; «è come discriminare contro la moneta pubblica». Quindi la Bce deve «estendere una specie di contante digitale» con funzioni analoghe al contante, ma adatto ai pagamenti digitali.
Il politico ieri ad Atreju ha anche parlato di metallo giallo ricordando che le riserve auree delle banche centrali sono cresciute fino a circa 36.000 tonnellate. Come ha spiegato l’esperto, queste riserve «hanno un fondamento storico importante» perché, quando c’era la convertibilità, «servivano come riserva rispetto alle banconote». Oggi, con le monete a corso legale, «la credibilità del valore della moneta è affidata a quella della Banca centrale nell’essere capace di controllare i prezzi», ma «una eco di questa convertibilità è rimasta»: oro e valute restano riserve di valore contro rischi rilevanti.
Come ha spiegato, le Banche centrali comprano oro soprattutto come difesa «contro l’inflazione» e contro «i rischi nei mercati finanziari», e perché «le riserve sono una garanzia della capacità del Paese di far fronte a possibili shock esterni». Per questi motivi, «l’oro è tornato di moda».
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