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2022-02-10
Palazzo Chigi blinda la Belloni contro Conte
Luigi Di Maio ed Elisabetta Belloni (Ansa)
Nessuna domanda, nessun accenno, nessun riferimento a quel famoso pranzo dello scorso 1° febbraio quando il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e il capo del Dis, i nostri servizi segreti, Elisabetta Belloni, si incontrarono in un ristorante romano poche ore dopo la conclusione della vicenda Quirinale. Di Maio e la Belloni, rispettivamente l’altro ieri e ieri, sono stati auditi dal Copasir, Il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, organo di controllo sull’attività dei servizi segreti. Le audizioni erano già in programma da tempo, ma chi si aspettava qualche domanda relativa a quel pranzo è rimasto deluso: a quanto apprende La Verità, nessuno dei parlamentari che compongono il comitato ha fatto il minimo accenno a quella occasione. Le audizioni sono state dedicate, si legge in una nota del presidente del Copasir, Adolfo Urso di Fdi, alla crisi Ucraina, alle sue conseguenze sul settore energetico e ad altri aspetti della situazione internazionale e, come di consueto, sono state secretate. Di Maio il 1° febbraio pubblicò su Facebook la foto del pranzetto, con un post di contorno: «”Con il ministro Di Maio c’è un’amicizia sempre più solida. Di Maio è sempre leale”. Queste le parole di Elisabetta Belloni», scrisse Di Maio, «alla quale mi legano una profonda stima e una grande amicizia».
Di Maio, nella tarda serata del 28 gennaio, quando sul nome della Belloni per la presidenza della Repubblica si erano messi d’accordo Matteo Salvini, Enrico Letta, Giuseppe Conte e Giorgia Meloni, si presentò davanti alle telecamere: «Trovo indecoroso», disse il ministro degli Esteri, «che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni senza un accordo condiviso. Lo avevo detto ieri: prima di bruciare nomi bisognava trovare l’accordo della maggioranza di governo». Era stata proprio La Verità, il giorno prima della (quasi) ufficializzazione della candidatura della Belloni, a riferire delle preoccupazioni di Di Maio: «Il profilo di Elisabetta Belloni», aveva detto il ministro degli Esteri ai suoi più stretti collaboratori, «è tale che il suo nome può essere fatto solo se c’è la sicurezza di eleggerlo». La frase della Belloni sulla «lealtà» di Di Maio (tra i due c’è un eccellente rapporto cementato nel periodo in cui lei è stata segretario generale della Farnesina) aveva sollevato polemiche e proteste, in particolare da parte del deputato di Italia viva Michele Anzaldi, rimaste senza seguito, visto che neanche Ernesto Magorno, segretario del Copasir e senatore del partito di Matteo Renzi, ha ritenuto di chiedere conto di quel pranzo né a Di Maio né alla Belloni. Del resto, l’avvertimento di Di Maio, riportato dalla Verità il 28 gennaio, sulla inopportunità di candidare una persona che ricopre un ruolo così delicato senza la certezza che venga eletta, ricalca quanto ha detto ieri a Porta a Porta su Rai Uno, il sottosegretario con delega all’intelligence, Franco Gabrielli: «Ho seguito in presa diretta tutta questa vicenda», ha sottolineato Gabrielli, «e ho visto in primis come Elisabetta Belloni, da grande servitrice dello Stato, abbia vissuto con molto fastidio e preoccupazione tutta una serie di veicolazioni, incontri che ci dovevano essere quando lei addirittura nemmeno stava a Roma. Io mi sono affrettato a dire, per intima convinzione», ha aggiunto Gabrielli, «che lei godeva della mia fiducia e di quella del presidente del Consiglio Mario Draghi. Lei è stata una vittima di questa vicenda e ora bisogna imparare dagli errori, commessi a volte in buona fede e con le migliori intenzioni: alcuni soggetti e alcune istituzioni», ha aggiunto Gabrielli, «devono essere messe al riparo. O hai la certezza che venga eletta oppure si arrecano danni alla persona e alle istituzioni che bisogna salvaguardare. Non c’è alcuna possibilità di rimozione di Elisabetta Belloni». Un bel siluro quello lanciato da Gabrielli, evidentemente concordato con Mario Draghi, contro Conte, che aveva lanciato la candidatura della Belloni. Resta sullo sfondo un interrogativo: in quelle ore concitate, qualche esponente dei servizi segreti, magari del Dis, fece da ponte tra Conte, ex premier, e la Belloni? Un interrogativo che ieri nessun componente del Copasir ha ritenuto di porre, e che lascia aperta una ipotesi: evidentemente, considerato che Gabrielli ha blindato la Belloni per conto di Draghi, risollevare la questione nel corso delle audizioni avrebbe significato riaprire un caso che si considera a tutti gli effetti chiuso. Elisabetta Belloni, ricordiamolo sempre, è diventata capo dei servizi segreti italiani nel maggio 2021, al posto di Gennaro Vecchione, nominato da Conte nel 2018 e vicinissimo a «Giuseppi». Vecchione fu sostituito sei mesi prima della scadenza del mandato, prorogato per due anni da Conte alla fine del novembre 2020. Se così fosse, questa così netta affermazione di Gabrielli sarebbe un ulteriore timbro del governo sulle «pulizie di primavera» che la Belloni sta portando avanti all’interno dei servizi.
Grillo cala a Roma per riprendersi un Movimento in preda al panico
Come ai vecchi tempi. Per Beppe Grillo, l’ordinanza del Tribunale di Napoli che ha defenestrato Giuseppe Conte ha rappresentato una manna dal cielo. Lo si capisce da come ieri, nei corridoi di Palazzo, cronisti e parlamentari si affannavano per avere un’informazione o almeno un indizio utile a capire se l’Elevato fosse in viaggio per la Capitale. E questo per il garante del Movimento, da troppo tempo in astinenza da attenzioni mediatiche che non fossero quelle per le vicende giudiziarie, rappresenta già una vittoria. Per lui che lo scorso agosto ha toccato con mano la voglia di Conte di sfilargli il giocattolo dopo averlo già sfilato a Davide Casaleggio, il colpo di coda delle toghe partenopee è un assist per riavvolgere il nastro.
Per capire di che storia si tratterà molto dipenderà dall’incontro tra i due contendenti, che si terrà verosimilmente nelle prossime ore come conseguenza della calata a Roma di Grillo, per la quale il diretto interessato, affilando ferri del mestiere un po’ arrugginiti, ha creato una sapiente suspence. Tornano dunque le ammucchiate selvagge di giornalisti e cameraman davanti all’hotel Forum e i siparietti tutt’altro che improvvisati del fondatore di M5s, ma stavolta è presumibile che quest’ultimo voglia badare al sodo e giocare questi insperati supplementari non commettendo gli errori della volta scorsa. Il problema è che, stando anche a quanto dicono a mezza bocca i parlamentari del Movimento (cercando di mantenere la consegna del silenzio intimata dal garante), ogni esito potrà essere impugnato dall’avvocato della parte rimasta insoddisfatta. Come accaduto per la votazione del nuovo statuto e l’elezione di Conte. Il M5s potrebbe restare in una situazione di anarchia ancora per molto, pregiudicando addirittura la presentazione delle liste per le prossime amministrative.
Conte anche ieri ha ripetuto il mantra: «Con Grillo ci incontreremo, ci confronteremo, stiamo studiando anche con i legali le varie soluzioni», aggiungendo che «l’azione di una forza politica non può interrompersi per un provvedimento giudiziario». Tutti sanno però che il summit avrà due tavoli: quello legale, al quale si siederanno gli avvocati con tutte le carte e le possibili soluzioni a prova di sentenza, ma soprattutto quello politico, dove ripartirà il braccio di ferro di sei mesi fa sullo statuto e sulla leadership. Da una parte, al fianco di Grillo e di Luigi Di Maio, chi vuole tornare all’ipotesi direttorio composto da cinque persone, che poi era quella in campo prima dell’irruzione a gamba tesa di un Conte in uscita da Palazzo Chigi e votare (ma su quale piattaforma?) un nuovo comitato di garanzia. Dall’altra chi vorrebbe semplicemente ripetere la votazione sullo statuto made in Conte e sulla leadership di quest’ultimo, includendo gli iscritti degli ultimi sei mesi. Ma c’è anche molta roba sotto al tavolo: la questione della deroga alla regola del secondo mandato, ad esempio, attorno alla quale si stanno concentrando inquietudini e fibrillazioni dei parlamentari di seconda nomina e dei ministri pentastellati ansiosi di sapere, ora che la legislatura ha imboccato la dirittura d’arrivo, se nella ridotta pattuglia di grillini che approderà nel nuovo Parlamento con 600 eletti ci sarà ancora uno strapuntino dove accomodarsi.
Ieri poi si è aggiunta un’altra tegola: è diventata esecutiva la decisione del collegio di garanzia di Palazzo Madama che annulla l’espulsione dal gruppo parlamentare di sei senatori grillini che non hanno votato la fiducia a Mario Draghi perché «nel regolamento del M5s l’autonomia del gruppo viene schiacciata dall’influenza decisoria del partito».
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Franco Gabrielli parla della bagarre sulla candidatura della numero uno del Dis al Colle e lancia un siluro sull’avvocato del popolo: «Alcune istituzioni vanno messe al riparo». Il Copasir la ascolta sull’Ucraina ma nessuno chiede del pranzo con Luigi Di Maio.Beppe Grillo cala a Roma per riprendersi un Movimento in preda al panico. Vedrà l’ex premier. Il Senato annulla l’espulsione di sei grillini dal gruppo parlamentare.Lo speciale contiene due articoli.Nessuna domanda, nessun accenno, nessun riferimento a quel famoso pranzo dello scorso 1° febbraio quando il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e il capo del Dis, i nostri servizi segreti, Elisabetta Belloni, si incontrarono in un ristorante romano poche ore dopo la conclusione della vicenda Quirinale. Di Maio e la Belloni, rispettivamente l’altro ieri e ieri, sono stati auditi dal Copasir, Il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, organo di controllo sull’attività dei servizi segreti. Le audizioni erano già in programma da tempo, ma chi si aspettava qualche domanda relativa a quel pranzo è rimasto deluso: a quanto apprende La Verità, nessuno dei parlamentari che compongono il comitato ha fatto il minimo accenno a quella occasione. Le audizioni sono state dedicate, si legge in una nota del presidente del Copasir, Adolfo Urso di Fdi, alla crisi Ucraina, alle sue conseguenze sul settore energetico e ad altri aspetti della situazione internazionale e, come di consueto, sono state secretate. Di Maio il 1° febbraio pubblicò su Facebook la foto del pranzetto, con un post di contorno: «”Con il ministro Di Maio c’è un’amicizia sempre più solida. Di Maio è sempre leale”. Queste le parole di Elisabetta Belloni», scrisse Di Maio, «alla quale mi legano una profonda stima e una grande amicizia». Di Maio, nella tarda serata del 28 gennaio, quando sul nome della Belloni per la presidenza della Repubblica si erano messi d’accordo Matteo Salvini, Enrico Letta, Giuseppe Conte e Giorgia Meloni, si presentò davanti alle telecamere: «Trovo indecoroso», disse il ministro degli Esteri, «che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni senza un accordo condiviso. Lo avevo detto ieri: prima di bruciare nomi bisognava trovare l’accordo della maggioranza di governo». Era stata proprio La Verità, il giorno prima della (quasi) ufficializzazione della candidatura della Belloni, a riferire delle preoccupazioni di Di Maio: «Il profilo di Elisabetta Belloni», aveva detto il ministro degli Esteri ai suoi più stretti collaboratori, «è tale che il suo nome può essere fatto solo se c’è la sicurezza di eleggerlo». La frase della Belloni sulla «lealtà» di Di Maio (tra i due c’è un eccellente rapporto cementato nel periodo in cui lei è stata segretario generale della Farnesina) aveva sollevato polemiche e proteste, in particolare da parte del deputato di Italia viva Michele Anzaldi, rimaste senza seguito, visto che neanche Ernesto Magorno, segretario del Copasir e senatore del partito di Matteo Renzi, ha ritenuto di chiedere conto di quel pranzo né a Di Maio né alla Belloni. Del resto, l’avvertimento di Di Maio, riportato dalla Verità il 28 gennaio, sulla inopportunità di candidare una persona che ricopre un ruolo così delicato senza la certezza che venga eletta, ricalca quanto ha detto ieri a Porta a Porta su Rai Uno, il sottosegretario con delega all’intelligence, Franco Gabrielli: «Ho seguito in presa diretta tutta questa vicenda», ha sottolineato Gabrielli, «e ho visto in primis come Elisabetta Belloni, da grande servitrice dello Stato, abbia vissuto con molto fastidio e preoccupazione tutta una serie di veicolazioni, incontri che ci dovevano essere quando lei addirittura nemmeno stava a Roma. Io mi sono affrettato a dire, per intima convinzione», ha aggiunto Gabrielli, «che lei godeva della mia fiducia e di quella del presidente del Consiglio Mario Draghi. Lei è stata una vittima di questa vicenda e ora bisogna imparare dagli errori, commessi a volte in buona fede e con le migliori intenzioni: alcuni soggetti e alcune istituzioni», ha aggiunto Gabrielli, «devono essere messe al riparo. O hai la certezza che venga eletta oppure si arrecano danni alla persona e alle istituzioni che bisogna salvaguardare. Non c’è alcuna possibilità di rimozione di Elisabetta Belloni». Un bel siluro quello lanciato da Gabrielli, evidentemente concordato con Mario Draghi, contro Conte, che aveva lanciato la candidatura della Belloni. Resta sullo sfondo un interrogativo: in quelle ore concitate, qualche esponente dei servizi segreti, magari del Dis, fece da ponte tra Conte, ex premier, e la Belloni? Un interrogativo che ieri nessun componente del Copasir ha ritenuto di porre, e che lascia aperta una ipotesi: evidentemente, considerato che Gabrielli ha blindato la Belloni per conto di Draghi, risollevare la questione nel corso delle audizioni avrebbe significato riaprire un caso che si considera a tutti gli effetti chiuso. Elisabetta Belloni, ricordiamolo sempre, è diventata capo dei servizi segreti italiani nel maggio 2021, al posto di Gennaro Vecchione, nominato da Conte nel 2018 e vicinissimo a «Giuseppi». Vecchione fu sostituito sei mesi prima della scadenza del mandato, prorogato per due anni da Conte alla fine del novembre 2020. Se così fosse, questa così netta affermazione di Gabrielli sarebbe un ulteriore timbro del governo sulle «pulizie di primavera» che la Belloni sta portando avanti all’interno dei servizi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/palazzo-chigi-blinda-la-belloni-contro-conte-2656610441.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="grillo-cala-a-roma-per-riprendersi-un-movimento-in-preda-al-panico" data-post-id="2656610441" data-published-at="1644440426" data-use-pagination="False"> Grillo cala a Roma per riprendersi un Movimento in preda al panico Come ai vecchi tempi. Per Beppe Grillo, l’ordinanza del Tribunale di Napoli che ha defenestrato Giuseppe Conte ha rappresentato una manna dal cielo. Lo si capisce da come ieri, nei corridoi di Palazzo, cronisti e parlamentari si affannavano per avere un’informazione o almeno un indizio utile a capire se l’Elevato fosse in viaggio per la Capitale. E questo per il garante del Movimento, da troppo tempo in astinenza da attenzioni mediatiche che non fossero quelle per le vicende giudiziarie, rappresenta già una vittoria. Per lui che lo scorso agosto ha toccato con mano la voglia di Conte di sfilargli il giocattolo dopo averlo già sfilato a Davide Casaleggio, il colpo di coda delle toghe partenopee è un assist per riavvolgere il nastro. Per capire di che storia si tratterà molto dipenderà dall’incontro tra i due contendenti, che si terrà verosimilmente nelle prossime ore come conseguenza della calata a Roma di Grillo, per la quale il diretto interessato, affilando ferri del mestiere un po’ arrugginiti, ha creato una sapiente suspence. Tornano dunque le ammucchiate selvagge di giornalisti e cameraman davanti all’hotel Forum e i siparietti tutt’altro che improvvisati del fondatore di M5s, ma stavolta è presumibile che quest’ultimo voglia badare al sodo e giocare questi insperati supplementari non commettendo gli errori della volta scorsa. Il problema è che, stando anche a quanto dicono a mezza bocca i parlamentari del Movimento (cercando di mantenere la consegna del silenzio intimata dal garante), ogni esito potrà essere impugnato dall’avvocato della parte rimasta insoddisfatta. Come accaduto per la votazione del nuovo statuto e l’elezione di Conte. Il M5s potrebbe restare in una situazione di anarchia ancora per molto, pregiudicando addirittura la presentazione delle liste per le prossime amministrative. Conte anche ieri ha ripetuto il mantra: «Con Grillo ci incontreremo, ci confronteremo, stiamo studiando anche con i legali le varie soluzioni», aggiungendo che «l’azione di una forza politica non può interrompersi per un provvedimento giudiziario». Tutti sanno però che il summit avrà due tavoli: quello legale, al quale si siederanno gli avvocati con tutte le carte e le possibili soluzioni a prova di sentenza, ma soprattutto quello politico, dove ripartirà il braccio di ferro di sei mesi fa sullo statuto e sulla leadership. Da una parte, al fianco di Grillo e di Luigi Di Maio, chi vuole tornare all’ipotesi direttorio composto da cinque persone, che poi era quella in campo prima dell’irruzione a gamba tesa di un Conte in uscita da Palazzo Chigi e votare (ma su quale piattaforma?) un nuovo comitato di garanzia. Dall’altra chi vorrebbe semplicemente ripetere la votazione sullo statuto made in Conte e sulla leadership di quest’ultimo, includendo gli iscritti degli ultimi sei mesi. Ma c’è anche molta roba sotto al tavolo: la questione della deroga alla regola del secondo mandato, ad esempio, attorno alla quale si stanno concentrando inquietudini e fibrillazioni dei parlamentari di seconda nomina e dei ministri pentastellati ansiosi di sapere, ora che la legislatura ha imboccato la dirittura d’arrivo, se nella ridotta pattuglia di grillini che approderà nel nuovo Parlamento con 600 eletti ci sarà ancora uno strapuntino dove accomodarsi. Ieri poi si è aggiunta un’altra tegola: è diventata esecutiva la decisione del collegio di garanzia di Palazzo Madama che annulla l’espulsione dal gruppo parlamentare di sei senatori grillini che non hanno votato la fiducia a Mario Draghi perché «nel regolamento del M5s l’autonomia del gruppo viene schiacciata dall’influenza decisoria del partito».
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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