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2023-08-12
«Painkiller», la serie tv sulla crisi degli oppioidi negli Usa
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«Painkiller: L'impero dell'inganno e la grande epidemia americana di oppiacei» (Netflix)
Painkiller, basato anche su The Family That Built the Empire of Pain, articolo pubblicato da New Yorker, è la storia così come Meier l’ha scritta. È la cronaca di come Purdue Pharma abbia trasformato l’OxyContin, antidolorifico il cui principio attivo è la morfina, in un affare miliardario. Era il 1995, allora, l’anno in cui l’OxyContin per la prima volta toccava il mercato. Avrebbe dovuto essere un analgesico come tanti, cui ricorrere saltuariamente per placare i propri dolori. La Purdue Pharma, però, si è spinta oltre. Agli americani, ha raccontato quanto il farmaco fosse sicuro, diverso dai tanti esistenti. Non avrebbe generato dipendenza, ha detto, nascondendo i dati in suo possesso. Ha giurato e pagato medici e circuiti ufficiali perché le prescrizioni di OxyContin fioccassero. E così è stato. L’OxyContin è stato prescritto a chiunque potesse averne bisogno, senza riguardo alla causa del malessere o all’estrazione sociale del paziente. L’OxyContin è diventato per tutti, e l’uso, in breve, si è trasformato in abuso. Un abuso che nessun controllo medico avrebbe potuto frenare.
Tra il 1996 e il 2017, duecentomila americani sono morti di overdose da antidolorifici regolarmente prescritti. E su quelle morti, su quelle dipendenze legali, la Purdue Pharma ha costruito la propria fortuna. «L’abuso di oppioidi, una tragedia in atto da decenni, è una delle crisi di salute pubblica più devastanti del nostro tempo», ha spiegato Eric Newman, produttore della serie, su Netflix dal 10 agosto. «Diversamente da altri consumi di droga, nati da produzioni nascoste e contrabbando illegale, quest’epidemia è iniziata con ricette compilate dai medici, approvate dagli enti regolatori e incentivate da un gigante farmaceutico a conduzione familiare che ha guadagnato miliardi tradendo la fiducia dei pazienti e della gente. Il racconto di come tutto questo sia potuto accadere è doloroso e terrificante». Painkiller, versione serie televisiva, lo ricostruisce in sei episodi, recitati tra gli altri da Uzo Aduba e Matthew Broderick. «Il mio obiettivo era quello di capire cosa ha portato alla crisi degli oppioidi, una tragedia complessa alimentata da avidità, corruzione, fragilità umana e ancora corruzione. Per me, è un dovere morale smascherare le aziende che traggono profitto dalla morte e dalla dipendenza, svelando i trucchi che usano per fare soldi. Per Purdue, più dolore c’era più gli affari andavano bene», ha aggiunto Peter Berg, regista di una (mini)serie in cui diverse vicende umane si intrecciano. Un operaio, un avvocato e un dirigente della Purdue Pharma si muovono fino a comporre un quadro complesso, dimostrazione di quanta premeditazione e immoralità sia all’origine della crisi degli oppioidi. Una crisi cui il governo americano, ad oggi, non ha saputo trovare alcuna soluzione certa.
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È stata un libro, un’opera di giornalismo investigativo che David A. Kessler, commissario della Fda, ha definito «magistrale». Painkiller: L’impero dell’inganno e la grande epidemia americana di oppiacei, scritto da Barry Meier e pubblicato in Italia da Oscar Mondadori, ha portato alla luce un mondo sommerso, un mondo di morte, dove la dipendenza è stata incoraggiata da medici e circuiti farmaceutici. Barry Meier ha sfidato un gigante, e di quella sfida Netflix ha fatto una serie televisiva.Painkiller, basato anche su The Family That Built the Empire of Pain, articolo pubblicato da New Yorker, è la storia così come Meier l’ha scritta. È la cronaca di come Purdue Pharma abbia trasformato l’OxyContin, antidolorifico il cui principio attivo è la morfina, in un affare miliardario. Era il 1995, allora, l’anno in cui l’OxyContin per la prima volta toccava il mercato. Avrebbe dovuto essere un analgesico come tanti, cui ricorrere saltuariamente per placare i propri dolori. La Purdue Pharma, però, si è spinta oltre. Agli americani, ha raccontato quanto il farmaco fosse sicuro, diverso dai tanti esistenti. Non avrebbe generato dipendenza, ha detto, nascondendo i dati in suo possesso. Ha giurato e pagato medici e circuiti ufficiali perché le prescrizioni di OxyContin fioccassero. E così è stato. L’OxyContin è stato prescritto a chiunque potesse averne bisogno, senza riguardo alla causa del malessere o all’estrazione sociale del paziente. L’OxyContin è diventato per tutti, e l’uso, in breve, si è trasformato in abuso. Un abuso che nessun controllo medico avrebbe potuto frenare.Tra il 1996 e il 2017, duecentomila americani sono morti di overdose da antidolorifici regolarmente prescritti. E su quelle morti, su quelle dipendenze legali, la Purdue Pharma ha costruito la propria fortuna. «L’abuso di oppioidi, una tragedia in atto da decenni, è una delle crisi di salute pubblica più devastanti del nostro tempo», ha spiegato Eric Newman, produttore della serie, su Netflix dal 10 agosto. «Diversamente da altri consumi di droga, nati da produzioni nascoste e contrabbando illegale, quest’epidemia è iniziata con ricette compilate dai medici, approvate dagli enti regolatori e incentivate da un gigante farmaceutico a conduzione familiare che ha guadagnato miliardi tradendo la fiducia dei pazienti e della gente. Il racconto di come tutto questo sia potuto accadere è doloroso e terrificante». Painkiller, versione serie televisiva, lo ricostruisce in sei episodi, recitati tra gli altri da Uzo Aduba e Matthew Broderick. «Il mio obiettivo era quello di capire cosa ha portato alla crisi degli oppioidi, una tragedia complessa alimentata da avidità, corruzione, fragilità umana e ancora corruzione. Per me, è un dovere morale smascherare le aziende che traggono profitto dalla morte e dalla dipendenza, svelando i trucchi che usano per fare soldi. Per Purdue, più dolore c’era più gli affari andavano bene», ha aggiunto Peter Berg, regista di una (mini)serie in cui diverse vicende umane si intrecciano. Un operaio, un avvocato e un dirigente della Purdue Pharma si muovono fino a comporre un quadro complesso, dimostrazione di quanta premeditazione e immoralità sia all’origine della crisi degli oppioidi. Una crisi cui il governo americano, ad oggi, non ha saputo trovare alcuna soluzione certa.
Giorgio Locatelli, Antonino Cannavacciuolo e Bruno Barbieri al photocall di MasterChef (Ansa)
Sono i fornelli sempre accesi, le prove sempre uguali, è l'alternarsi di casi umani e talenti ai Casting, l'ansia palpabile di chi, davanti alla triade stellata, non riesce più a proferire parola.
Sono le Mistery Box, i Pressure Test, la Caporetto di Iginio Massari, con i suoi tecnicismi di pasticceria. Sono, ancora, i grembiuli sporchi, le urla, le esterne e i livori fra brigate, la prosopopea di chi crede di meritare la vittoria a rendere MasterChef un appuntamento imperdibile. Tradizionale, per il modo silenzioso che ha di insinuarsi tra l'Immacolata e il Natale, addobbando i salotti come dovrebbe fare l'albero.
MasterChef è fra i pochissimi programmi televisivi cui il tempo non ha tolto, ma dato forza. E il merito, più che dei giudici, bravissimi - loro pure - a rendere vivo lo spettacolo, è della compagine autoriale. Gli autori sono il vanto dello show, perfetti nel bilanciare fra loro gli elementi della narrazione televisiva, come comanderebbe l'algoritmo di Boris. La retorica, che pur c'è, con l'attenzione alla sostenibilità e alla rappresentazione di tutte le minoranze, non ha fagocitato l'impianto scenico. L'imperativo di portare a casa la doggy bag sfuma, perché a prevalere è l'esito delle prove. Il battagliarsi di concorrenti scelti con precisione magistrale e perfetto cerchiobottismo. Ci sono, gli antipatici, quelli messi lì perché devono, perché il politicamente corretto lo impone. Ma, tutto sommato, si perdono, perché accanto hanno chi merita e chi, invece, riesce con la propria goffaggine a strappare una risata sincera. E, intanto, le puntate vanno, queste chiedendo più attenzione alla tradizione, indispensabile per una solida innovazione. Vanno, e poco importa somiglino alle passate. Sono nuovi i concorrenti, nuove le loro alleanze. Pare sempre sincero il divertimento di chi è chiamato a giudicarle, come sincero è il piacere di vedere altri affannarsi in un gesto che, per ciascuno di noi, è vitale e quotidiano, quello del cucinare.
Bene, male, pazienza. L'importante, come ci ha insegnato MasterChef, è farlo con amore e rispetto. E, pure, con un pizzico di arroganza in più, quella dovuta al fatto che la consuetudine televisiva ci abbia reso più istruiti, più pronti, più giudici anche noi del piatto altrui.
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Ecco #DimmiLaVerità del 12 dicembre 2025. Il nostro Alessandro Da Rold ci rivela gli ultimi sviluppi dell'inchiesta sull'urbanistica di Milano e i papabili per il dopo Sala.