
Nel 1988 il giornalista di sinistra pubblicò una inchiesta sulla discriminazione in cui compaiono le stesse polemiche di oggi. Mostrò che il nostro Paese non odia i diversi: l'immigrazione mal gestita crea tensioni. Ma davvero l'Italia è un Paese razzista? Uno tra i primi a prendere molto sul serio la questione fu Giorgio Bocca. Nell'ottobre del 1988, poco più di 31 anni fa, l'allora inviato di Repubblica e commentatore dell'Espresso pubblicò da Garzanti un libro dal titolo semplice semplice: Gli italiani sono razzisti?. Bocca cercò la risposta un po' dappertutto: negli studi dei sociologi e dei politici, fra i sindacalisti e gli operai, nei quartieri e sotto i portici delle stazioni, fra gli immigrati e gli italiani. Ne ricavò un'inchiesta splendida e - sebbene orientata politicamente - sorprendentemente obiettiva. A rileggerla oggi, tre decenni dopo, colpisce soprattutto un aspetto: non è cambiato assolutamente nulla. Nel 1988 le polemiche, gli interrogativi, la retorica e gli allarmi erano esattamente gli stessi di oggi. L'immigrazione, attacca Bocca, «esiste e sarà il problema dei prossimi 100 anni». Poi aggiunge: «Questa, dei poveri del Terzo mondo, è la prima vera invasione di massa del nostro Paese, ma preferiamo ignorarla, sottovalutarla. […] Quanti sono? Nessuno è in grado di rispondere in modo esatto». Il giornalista di Cuneo descrive «le frontiere italiane quasi inesistenti» di Trieste, i barconi in arrivo nel porto di Genova e quelli provenienti dalla Tunisia che approdano in Sicilia. «Non è più neppure un'immigrazione contadina», racconta. «Il 90% degli immigrati arrivano da città con più di 100.000 abitanti, il 34% dalla capitale del loro Stato. Il 63% si stabilisce nelle grandi città italiane e solo il 4% non sa né leggere né scrivere». Sta descrivendo la classe media africana, la stessa che giunge da noi oggi. E già nota «l'appendice amara da fare a questo capitolo sul movimento», ovvero il numero dei morti. «Forse sarà vero che il movimento fa bene alla civiltà. Ma i morti sono morti e nessuno li resuscita». Bocca nota subito quello che definisce «razzismo economico», in altre parole lo sfruttamento. Gabonesi che raccolgono pomodori in Campania e la notte vengono rinchiusi in un'autorimessa perché non se ne vadano in giro. Arabi stipati in un tugurio di via Vasari a Milano che sopravvivono facendo i vu cumprà. I 4.000 tunisini imbarcati sui pescherecci di Mazara del Vallo, «ma quelli che hanno regolari permessi di soggiorno sono 500». Mostra lo sfruttamento dei cinesi sui cinesi, dei filippini sui filippini, quest'ultimo istituzionalizzato poiché «il governo pretende da ogni famiglia che rimandi in valuta pregiata in patria almeno il 30% del salario». Bocca incide sulla carta il volto di una nazione in cui «chi è fuori entra come e quando vuole e chi è dentro non può o non vuole regolarizzarsi. Perché spesso i regolarizzati non trovano lavoro e non avendo lavoro possono essere espulsi». Problemi giganteschi, epocali. Che però nessuno sembra volere risolvere, a partire dai sindacati: «Per tutti sembra esserci a disposizione il rinvio mitico al 1992, quando l'Europa sarà più unita e anche noi dovremo adeguarci alle legislazioni dei Paesi europei più avanzati in tema di immigrazione». Poi, finalmente, si arriva alla questione scottante: il razzismo. Bocca scrive che «l'immigrazione ha certamente causato una piccola guerra dei poveri. È vero che gli immigrati fanno di solito i lavori che gli italiani non vogliono più fare [...] ma è anche vero che premono per avere lavori migliori, adeguati ai loro titoli di studio e provocano turbamenti nel lavoro nero in generale e in quello degli stagionali agricoli in particolare». Il giornalista se la prende con la destra missina che «imita Le Pen», ma pure con la sinistra. Da una parte c'è quella marxista che ha voluto «credere in un internazionalismo spontaneo, in un antirazzismo etico e disinteressato della classe operaia bianca», e invece si è ritrovata a fare i conti con i conflitti fra la nuova massa di lavoratori a basso costo e gli operai italiani, «con il Msi rappresentante di interessi del proletariato bianco che i partiti della sinistra non proteggono più». Dall'altra parte c'è la sinistra intellettuale, liberal diremmo oggi. Come Toraldo di Francia, che su Repubblica racconta di essere stato derubato da uno «zingaro» ma di non averlo denunciato: «Il democratico non denuncia alla polizia lo zingaro perché lo sente un diverso, ha verso di lui una clemenza che non avrebbe con un connazionale, ha paura di passare per razzista». Una paura che colpisce persino certi medici, «che accertano casi di ameba, di tracoma» e «preferiscono non parlarne per non essere scambiati per persecutori degli immigrati». Bocca intervista i demografi che agognano la riduzione della popolazione e vedono di buon occhio la senescenza della società italiana, che sarà compensata dall'arrivo di stranieri. Nota che in Francia le politiche di sostegno alle famiglie sono robuste, mentre qui si revoca l'assegno familiare per il primo figlio. Mostra come la Chiesa metta a disposizione mezzi e strutture per l'accoglienza, ne illustra lo spirito «terzomondista». Descrive la borghesia che si riempie la casa di colf ma non riesce a comprenderle, esibendo al massimo un atteggiamento paternalista, accuditivo. Sono passati 30 anni, sono cambiate le leggi, ma che cosa davvero è mutato? Quasi nulla, se non che l'Italia non ha nemmeno cercato di governare l'immigrazione e ha scelto per lo più un approccio orientato all'accoglienza sconclusionata. Nel concreto, però, la situazione è più o meno la stessa. È mutato il linguaggio, questo sì, grazie alla mefitica influenza del politicamente corretto. Bocca parla di negri e zingari. Non teme di dire che «a Milano il centro integralista più battagliero è quello islamico, che non manda i bambini a scuola perché possono mangiarvi cibi proibiti come la carne di porco e comunque avere una cultura atea e capitalistica, la cultura del satana occidentale». Affronta di petto pure l'antisemitismo e si chiede: «Che c'è di vero, di serio nell'antisemitismo che secondo i capi religiosi della comunità ebraica starebbe risorgendo?». Già allora, notate, se ne parlava negli stessi termini. E di fronte a un neonazismo che Bocca definisce «giovanile e minoritario» si trova invece una più diffusa ostilità a sinistra, motivata soprattutto dalla «avversione verso Israele», che a tratti Bocca sembra rasentare. Colpisce molto, tra le tante, l'intervista al grande sociologo (di sinistra) Luciano Gallino, secondo cui «è poco serio, anzi assurdo parlare di razzismo interno in un Paese in cui le province settentrionali hanno ricevuto, accolto e sistemato [...] milioni di meridionali». E colpiscono pure le conclusioni di Bocca. L'Italia è razzista? Beh, l'idea degli uomini superiori, dice il giornalista, «è finita da noi anche prima della fine della romanità. [...] Vogliamo dire che un razzismo duro, stolido, compiaciuto come quello dei grandi popoli schiavisti o colonialisti o come quello isolazionista dei giapponesi o quelli ancor mossi da furori tribali come gli africani e asiatici sembra poco probabile e poco consono alla nostra psico storia». C'è, però, il rischio concreto che si sviluppi una grande ostilità verso masse che non si riescono (anche perché spesso non vogliono) a integrare. Verso l'islam che «è la seconda religione italiana». Un'ostilità che cresce mano a mano che si allarga la guerra economica e culturale fra autoctoni e stranieri. È razzismo, questo? No, sono le conseguenze di una pessima gestione del fenomeno migratorio. Una gestione che mancava nel 1988 e non ha fatto che peggiorare, contribuendo a esasperare una parte della popolazione. Non è razzismo: è conflitto sociale. Ma la sinistra, oggi come allora, preferisce rifugiarsi nella retorica e nei buoni sentimenti, ignorando i problemi reali.
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Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
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Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.