2019-02-18
È vero, è caduto per colpa del Watergate, ma il populista Nixon ha saputo combattere la maggioranza silenziosa
True
A distanza di quasi 60 anni, da quando il politico repubblicano si scontrò la prima volta con John Fitzgerald Kennedy, è arrivato il momento di rivedere quanto di buono è stato fatto da uno dei repubblicani più antipatici e scorbutici. Un quacchero che si è fatto da solo e ha saputo recuperare la prima sconfitta per poi aprire a nuovi scenari geopolitici. Ma soprattutto vale la pena osservare il suo atteggiamento contro il politically correct.Lo speciale contiene due articoli e un gallery fotografica.Il sogno americano talvolta prende strade tortuose. La realizzazione del successo personale, su cui gli Stati Uniti hanno sempre fondato la propria essenza, è assai spesso qualcosa di imprevisto, insondabile, paradossale. Qualcosa in grado di frantumare schemi precostituiti, che - come una provvidenziale mano invisibile - muove i flussi storici attraverso eventi imponderabili e inattesi. Ecco: Richard Nixon ha forse rappresentato meglio di ogni altro presidente la concretezza, la forza, il coraggio e, finanche, la drammaticità di cui il sogno americano può farsi portatore. Un sogno, grandioso e possente, che sgorga calvinisticamente dalla volontà di Dio: ora come grazia ora come maledizione.Nato da una famiglia in profondissima difficoltà economica, Nixon era uno che dalla vita non aveva avuto nulla, se non responsabilità gravose. Suo fratello maggiore era morto di tubercolosi, mentre lui fu costretto a lavorare duramente per aiutare i genitori. Certo: il suo sogno sarebbe stato andare ad Harvard. Ma, nonostante un'offerta ricevuta, la situazione famigliare lo costrinse a rinunciare. Eppure, è proprio in quegli anni che iniziò a temprarsi il suo carattere ferreo. Un carattere duro, a tratti spigoloso, ma che gli rese subito chiaro che nessuno gli avrebbe regalato nulla e che qualsiasi cosa avesse voluto avrebbe dovuto lottare per prendersela. Fu così che, quel quacchero testardo della California, decise di entrare in politica. Iniziando a scalare a mani nude i vertici del Partito repubblicano. Con passione, tenacia e una certa dose di cattiveria.Anche per questo, dopo otto anni da vicepresidente con Dwight Eisenhower, decise di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti. Era il 1960. E il destino lo portò a scontrarsi con John Fitzgerald Kennedy. Fu un duello serratissimo che, alla fine condusse il democratico alla Casa Bianca. Per Nixon fu una sconfitta cocente. Umiliante. Ingiusta. Certo: lui non era bello, non era fotogenico, non parlava per slogan. Aveva il grugno da mastino, suscitava scarsa simpatia, amava il ragionamento complesso. Non vantava una dinastia politica alle spalle e – soprattutto – suo padre non aveva collegamenti con il boss mafioso di Chicago, Sam Giancana, che - secondo non pochi analisti - svolse un ruolo fondamentale per far vincere JFK in Illinois. Ma le delusioni per Nixon non erano finite lì. Due anni dopo subì infatti una nuova umiliazione nella campagna elettorale per il seggio a governatore della California. Una batosta che lo spinse a ritirarsi dall'agone politico americano. Ma nel 1968 le cose cambiarono. Cambiarono decisamente.Soprattutto a causa del disastro del Vietnam, quell'anno gli Stati Uniti erano sull'orlo della guerra civile. Il Partito democratico si ritrovava spaccato al suo interno, le proteste della sinistra radicale erano all'ordine del giorno, la credibilità internazionale dello Zio Sam era sprofondata ai minimi storici. Nixon scese allora in campo. E realizzò quello che nel gergo elettorale americano viene definito il "comeback": la riscossa del candidato in cui nessuno crede. Del candidato che lotta da solo contro forze apparentemente soverchianti e che, prendendo in mano il suo destino, non si lascia scoraggiare e alla fine ce la fa. Arrivando alla Casa Bianca. Il trionfo del sogno americano.Non aveva un carattere facile. Era rancoroso, paranoico, vendicativo. Elementi che tuttavia non ottenebrarono le sue scelte politiche. Divenuto presidente, rifiutò di circondarsi di yes men, sapendo scegliersi collaboratori in gamba. Anche tra gli ex avversari. In particolare, nominò National Security Advisor Henry Kissinger: lo stesso che, per intenderci, pochi mesi prima aveva pubblicamente dichiarato che Nixon non fosse adatto a fare il presidente. Non solo: scelse anche George Romney (che lo aveva sfidato alle primarie repubblicane) come ministro per lo Sviluppo Urbano. L'idea, insomma, era che la politica dovesse essere di alto profilo e non una bieca faccenda di fedeltà partigiana. Ciononostante Nixon fu spesso accusato di essere un "populista". E' vero: l'ex vice di Eisenhower non amava le élites di Washington, non sopportava i circoli liberal, perché sapeva benissimo che questi circoli altolocati lo consideravano un rozzo plebeo, indegno della presidenza: non per questioni di merito. Ma di censo. Ecco: Nixon ha sempre ribattuto gagliardamente a questa ghettizzazione. Ne soffriva, sì. Ma non retrocesse mai dalla battaglia. Fu così che si intestò la rappresentanza di quella che lui stesso chiamava la Maggioranza silenziosa, contro i gruppuscoli di intellettualoidi che - proprio in quegli anni - elaboravano astruse (e nocive) teorie sul politically correct.Sì: Nixon era un populista, uno che cercava di dare risposte al lattaio dell'Ohio ma che - in quanto a intelligenza politica e conoscenza delle dinamiche internazionali - era molto più profondo di quegli stessi circoli cosiddetti "competenti" che - durante la presidenza Kennedy - avevano condotto l'America sull'orlo della catastrofe nucleare con la crisi dei missili del 1962. Per uscire dal pantano del Vietnam, Nixon aprì alla Cina di Mao Zedong, avviò una distensione con l'Unione Sovietica e aprì una prospettiva di politica estera improntata al realismo. Una prospettiva che - forse - se gli fosse sopravvissuta, avrebbe potuto risparmiarci molti mali del nostro tempo (a partire dal terrorismo islamista). L'establishment di Washington non gliela perdonò. E la pagò cara, con lo scandalo Watergate. Scandalo in cui - per carità - Nixon ebbe responsabilità oggettive. Ma non andrebbe forse dimenticato che l'indebita estensione dei poteri che gli fu contestata, caratterizzò anche suoi predecessori (democratici) come Lyndon Johnson e Franklin D. Roosevelt.Nixon ebbe un destino tragico. Al di là delle opposizioni strumentali e faziose, non fu capito. Non aveva il carisma di Kennedy e Reagan. Era un pessimista. Ma proprio quel pessimismo ne fece forse un politico integrale, a tutto tondo. Un uomo che ha conosciuto l'amaro sapore della parola "sconfitta". Ma che non ha mai conosciuto quello della parola "resa". Perché, come una volta ebbe a dire Teddy Roosevelt: «Il merito appartiene all'uomo che è effettivamente nell'arena, il cui volto è rovinato per la polvere, il sudore e il sangue, a chi lotta valorosamente, a chi sbaglia, a chi cade ancora e ancora, perché non c'è sforzo senza errori e mancanze, ma chi si sforza veramente di fare le cose […], se fallisce, almeno fallisce mentre osa, così che il suo posto non sarà mai con quelle anime fredde e tiepide che non conoscono né vittoria né sconfitta».