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2018-08-10
Riccardo Muti contro le schitarrate in chiesa
Ansa
Impegnato in un grande evento musicale e di solidarietà dedicato alla terra umbra devastata dal sisma del 2016, il maestro Riccardo Muti è sembrato trasformarsi improvvisamente in un sindacalista, quando, al termine del concerto, ha chiesto il lavoro per i giovani e talentuosi musicisti. «Sarebbe un dovere dello Stato che questi giovani trovassero lavoro», e quindi che «ogni regione avesse orchestre». Applausi in piazza San Benedetto a Norcia, dove il maestro lo scorso 4 agosto ha diretto i talenti under 30 dell'orchestra Luigi Cherubini in alcuni estratti del Macbeth di Giuseppe Verdi.
«Quante regioni non hanno un'orchestra o un teatro? In una terra d'arte, di bellezza… questa è una cosa grave. Non voglio approfittare dell'occasione per fare un discorso polemico, qui ci sono ragazzi che hanno dedicato la loro giovinezza all'arte ed è giusto quindi che abbiano la possibilità di trasmettere alla società i frutti del loro lavoro. La società diventerà e diventerebbe sicuramente migliore, anche perché noi abbiamo degli obblighi verso il nostro passato». A questo punto, sugli obblighi verso il passato, il maestro si interrompe, guarda il pubblico e con fare eloquente aggiunge: «E anche la Chiesa… vedo dei vescovi… anche la Chiesa, invece, di fare le schitarrate in chiesa…», procede sconsolato il maestro Muti mimando il gesto dello strimpellatore da sagrestia. La piazza si accende in un applauso che pare liberatorio, perfino i giovani musicisti inquadrati dalla diretta di Rai 5 sorridono alle parole del maestro, come succede quando qualcuno finalmente la dice tutta. «Noi abbiamo Palestrina», prosegue Muti sulle ali dell'entusiasmo della piazza, «abbiamo una storia… io come vorrei nel giorno della mia morte avere una musica di Palestrina intorno alla mia bara e non sentire: “E tuo fratello, na, na, na, na" (mima ancora il gesto dello strimpellatore da sagrestia, ndr)».
Non è la prima volta che Riccardo Muti infila il dito nella piaga dei canti liturgici: oggi, dopo l'immane iconoclastia che ha colpito la musica sacra negli ultimi decenni, sono rimaste quasi solo canzonette. Ai funerali, specialmente di qualche vip, si è sentito nell'aria un motivetto di Vasco Rossi o Ligabue, autori gettonati anche nelle veglie di preghiera con i giovani. Qualche prete canzonettaro ai matrimoni si è esibito con Mamma Maria dei Ricchi e Poveri, e non manca il vescovo che predica con la chitarra e i testi pop. Un vero cult del genere resta la Bella ciao intonata da don Andrea Gallo con sventolio di fazzoletti rossi dall'altare a far da scenografia.
«Non capisco perché una volta c'erano Mozart e Bach», disse Muti nel 2011 a Trieste ricevendo la cittadinanza onoraria, «mentre ora si va avanti a canzonette: così non si ha rispetto per l'intelligenza delle persone. Anche l'uomo più semplice e lontano, sentendo l'Ave verum può essere trasportato verso una dimensione spirituale, ma se sente le canzonette è come stare in un altro posto». Oggi a messa si cantano perlopiù i canti liturgici sfornati negli anni Settanta dagli intellettuali della riforma liturgica per il popolo. Più o meno sono sempre gli stessi canti di allora, con qualche aggiunta più recente, comunque sempre impregnata di una forte vena di sentimentalismo. È un pop liturgico che non si sa quanto davvero coinvolga l'assemblea nella preghiera, o soddisfi solo il volenteroso coretto parrocchiale.
«Io ho denunciato questo costume, che definisco malcostume, di suonare canzoncine banali accompagnate da strimpellatori, con testi vuoti di significato e profondità in luoghi dove allora sarebbe meglio il silenzio per raggiungere un senso di congiungimento col divino». È ancora Muti nel 2010, richiamando la battaglia condotta da Benedetto XVI per riportare la liturgia al senso profondo che deve trasmettere. «È una cosa molto grave», disse, «e mi stupisco che i preti disattendano i moniti di Benedetto XVI».
Già, l'allora cardinale Ratzinger in una delle sue opere più fortunate, Introduzione allo spirito della liturgia (2001), scriveva che «non ogni forma di musica può entrare a far parte della liturgia cristiana. (…) L'integrazione dell'uomo verso l'alto e non la sua liquidazione in un'ebrezza priva di forma o nella pura sensualità è il criterio di una musica conforme al Logos». Eppure la lezione di Ratzinger sulla liturgia, come rilevava il maestro Muti, è stata una delle più disattese dal clero. Chissà cosa avranno pensato i vescovi richiamati dal maestro in piazza a Norcia, loro che in teoria sarebbero chiamati a risolvere il problema, non è dato sapere se in realtà lo vivono davvero come tale. Se avvertono il problema spirituale e culturale che sorge dalla perdita del senso del sacro.
Perfino un musicista politicamente corretto come Sting, intervistato in questi giorni dal National catholic register, deve ammettere di aver «adorato il canto gregoriano» e ha aggiunto che «c'è qualcosa nelle cadenze e nel ritmo della musica in latino che è molto speciale». Il beato Paolo VI, che sarà canonizzato nel prossimo ottobre, nella Sacrificium Laudis del 1966 (epistola apostolica sulla lingua latina da usare nell'Ufficio liturgico corale da parte dei religiosi tenuti all'obbligo del coro) si chiedeva: «Quale lingua, quale canto vi sembra che possa nella presente situazione sostituire quelle forme della pietà cattolica che avete usato finora? Bisogna riflettere bene, perché le cose non diventino peggiori dopo aver rinnegato questa gloriosa eredità. (…) Sorge anche un altro interrogativo: gli uomini desiderosi di sentire le sacre preci entreranno ancora così numerosi nei vostri templi, se non vi risuonerà più l'antica e nativa lingua di quelle preghiere, unita al canto pieno di gravità e bellezza?».
Non si tratta di camminare in avanti con il collo girato all'indietro, ma, come ha detto Muti, di essere consapevoli del significato del passato. Perché a leggere le ultime ricerche dei sociologi della religione, in Italia la percentuale di fedeli che va a messa tutte le domeniche sarebbe ridotta a uno scarno 18%, un numero in costante calo e che offre una risposta alle domande che sollevava Paolo VI nel lontano 1966.
Lorenzo Bertocchi
I giovani che non piacciono al Papa sono quelli che servono alla società
Papa Francesco, domani, incontrerà i «giovani» a Roma nel Circo Massimo. Più volte il Papa ha ribadito che vede i giovani come gente che fa «rumore» (anni fa usò un termine spagnolo equivalente a «fare casino») a fin di bene, ossia per smuovere la Chiesa. E se non fanno casino, secondo lui o sono anestetizzati da chi li manipola o sono pessimisti e allora hanno bisogno dello psichiatra.
Lasciamo da parte il fatto che non tutti i giovani siano uguali: esistono quelli più casinisti, ma esistono anche quelli «nati vecchi», come si diceva una volta, ossia più prudenti e non dediti ai bagordi. I secondi sono sempre risultati antipatici a molta gente, perché chi sbaglia non ama rispecchiarsi in chi non commette gli stessi errori e si sente implicitamente rimproverato. Magari i giovani non casinisti soffrono dei guai che i loro coetanei casinisti combinano e sono i casinisti ad aver bisogno dello psichiatra, non quelli di buon senso.
Sarebbe meglio giudicare le persone individualmente, anziché come categorie, ma purtroppo risulta molto difficile farlo in una società massificata come la nostra. Si dà dunque per scontato che il giovane sia uno che vuole «cambiare il mondo» in modo esagitato. Ma cambiarlo come?
Tanti anni fa Benedetto Croce osservò che non esiste un «problema dei giovani» più di quanto esista un «problema della fioritura» e l'unico dovere dei giovani è quello di maturare prima possibile. Sagge osservazioni che cozzavano con l'uso che dei «giovani» andava facendo il fascismo. Tutti abbiamo presente i raduni di giovani acclamanti Benito Mussolini, un modello per il dittatore argentino Juan Domingo Perόn. Erano giovani che facevano «rumore» venendo manipolati: un po' come accade oggi con Bergoglio.
Nella seconda metà del Novecento si affermò la categoria dei giovani che «fanno la pace e non la guerra». Di fatto questo si traduceva spesso nell'edonismo consumistico, tra droghe, sesso disinibito e musica rock. Un modo di vita che indubbiamente ha cambiato il mondo: resta da vedere se in meglio.
È discutibile che la gioventù sia legata necessariamente al sesso libero. Quando nell'Ottocento si iniziarono a distinguere i giovani come categoria a parte rispetto alle generazioni precedenti, un aspetto era il loro identificarsi con una sorta di purezza di ideali, che li portava per esempio all'amore romantico, monogamo e fedele (quello dell'abito bianco da sposa, per capirci), l'opposto del libertinismo sessuale praticato dai ceti dirigenti europei. Un altro aspetto della loro purezza di ideali era l'offerta della propria vita per la libertà della Patria. Tutte cose oggi raramente presenti nel discorso pubblico sui «giovani», che risente dell'impostazione anni Settanta.
Un altro gruppo di giovani furono infatti quelli che dal 1968 pretesero di «cambiare il mondo» con la violenza. S'è visto com'è finita: oggi comanda il capitalismo sfrenato transnazionale. E molti di quei giovani, ormai invecchiati, fanno pienamente parte del potere economico, massmediatico e universitario, tacendo sui loro errori di gioventù oppure nobilitandoli. Molti provenivano da ambienti cattolici: identificato il cristianesimo con la pretesa ideologica di cambiare il mondo, finirono col trasbordare su un marxismo in realtà ammuffito ma che prometteva di realizzare con le armi il cambiamento tanto agognato in nome della «giustizia». Si consideravano superiori agli altri perché avevano «ideali». Un particolare: erano ideali sbagliati.
Nel dopoguerra l'Azione Cattolica di Luigi Gedda organizzava raduni giovanili di massa a Roma in onore di Pio XII, il «bianco padre». Ma quell'associazionismo cattolico finì travolto dalla bufera postconciliare, tra gli insulti dei «cattolici adulti». Nel 1975 il gesuita Giacomo Martina, in un fazioso volumetto sulla Chiesa in Italia nel trentennio precedente, commentava sprezzante quei raduni con papa Pacelli che interrogava i giovani: non si fa, sembrano quelli di Mussolini. Chissà che direbbe oggi il gesuita Martina delle domande retoriche del gesuita Bergoglio alla folla. Non solo: padre Martina disprezzava gli appena nati movimenti carismatici giovanili, descrivendoli come dei sempliciotti che non sarebbero durati a lungo. Oggi le comunità carismatiche sono diffuse in tutto il mondo e hanno riportato alla fede viva tantissimi giovani. Ma l'intellighenzia sedicente cattolica li snobba.
Non è poi strano che alcuni giovani, delusi dalla realtà mediocre del Cattolicesimo più recente, quello delle chitarre e dell'«Alleluia delle lampadine», abbiano desiderato riallacciarsi a quello austero dei loro antenati, magari con la Messa nel vecchio rito, quella che cominciava con: «Mi accosterò all'altare di Dio/A Dio che rende lieta la mia giovinezza». Ma quei giovani Bergoglio ha detto più volte che non li capisce, gli sembrano rigidi. Non fanno casino, insomma.
Un Papa che conosceva bene i giovani fu Giovanni Paolo II, l'inventore delle Giornate mondiali della gioventù. Grazie a lui sono nate tante realtà giovanili di fede autentica. I giovani lo hanno ringraziato gridando al suo funerale: «Santo subito!». L'apparato clericale oggi legato a Bergoglio, per lo più gente dai sessant'anni in su in cerca di rivincita, si è indignato per quell'acclamazione, dato che non aveva mai amato il papa polacco per motivazioni tra l'ideologico e il carrieristico, così come guardava col sopracciglio alzato i suoi raduni giovanili. E oggi pretende di affermare che l'insegnamento di papa Wojtyla è rigido e superato e non va bene per i giovani.
Si dirà: ma papa Francesco parla di un Dio giovane per i giovani, come Gesù. Bene. Sorvoliamo sul fatto che Gesù trascorse l'età giovanile nel silenzio, senza farsi notare prima dei trent'anni, quando ormai era in età matura (non esisteva l'attuale categoria del «ragazzo» fino a quarant'anni). Quando Cristo disse, a coloro che volevano lapidare l'adultera: «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra!», l'evangelista Giovanni (il più giovane degli Apostoli) riferisce: «Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi». In altre parole: i giovani non volevano andarsene, si sentivano in diritto di lapidare la peccatrice perché loro si reputavano giusti, senza macchia. Ecco che cosa succede quando i giovani idealisti fanno rumore per «fare giustizia» e cambiare il mondo: si comincia con i lazzi e si finisce con le pietre. Gesù Cristo si aspetta ben altro dai giovani che il «fare casino» o una strizzatina d'occhio alle loro debolezze.
Luca Pignataro
«Il sito dei monaci aiuterà a battere il caos»
Padre Massimo Lapponi è l'ideatore di un sito internet che farà parlare di sé. Oltre ad essere un monaco dell'abbazia di Farfa, tra le più antiche abbazie della cristianità, ancora viva e vegeta, a pochi km da Roma. Teologo e autore prolifico (il suo San Benedetto e la vita familiare ha conosciuto traduzioni in molte lingue), padre Massimo è soprattutto un monaco che in pieno XXI secolo non rinnega l'affascinante tradizione monastica d'Occidente, iniziata da Benedetto da Norcia, 15 secoli fa. Per far riscoprire i valori forti del monachesimo ha appena dato vita ad una pagina web dedicata al Rinnovamento teologico benedettino.
Padre, che cosa l'ha spinta alla vita monastica e che ricordi ha dei suoi primi anni di vita religiosa?
«Bisogna ritornare al clima degli anni Sessanta del Novecento. Notavo già allora il rapido deterioramento della vita familiare, anche nelle famiglie credenti e praticanti. Per questo sentii la necessità di una svolta radicale nella mia vita e avvertii presto che il Signore mi chiamava a una scelta inattesa. Anche nell'ambiente monastico trovai segni di confusione e una problematica crisi di identità, che allora sfociò in esiti drammatici, come il caso celebre dell'abate Giovanni Franzoni, sospeso a divinis da Paolo VI per le sue posizioni filomarxiste e pro divorzio. Ma, accanto a ciò, conobbi monaci paterni e indimenticabili, dai quali ho potuto ricevere la grande eredità di un'antica tradizione».
Come è cambiata la vita monastica, in Occidente, negli ultimi decenni?
«La crisi, che era già presente da molto tempo, si è aggravata dopo il Concilio, anche se non sarebbe giusto non riconoscere gli sforzi positivi di tanti abati e priori per un autentico rinnovamento. Sembra che recentemente si sia diffuso un clima di resa. Ma sicuramente c'è un fuoco sotto la cenere che aspetta l'occasione propizia per manifestarsi. Con il sito e le altre iniziative vorremmo far divampare quel fuoco!».
Per quale ragione ha inaugurato un sito Internet tra i mille, anche cattolici, che ci sono già?
«La quantità dei siti è certamente immensa, ma la qualità non sempre è soddisfacente. Proprio nel mondo benedettino si sentiva la necessità di una presenza nuova, che si facesse portavoce del valore educativo e formativo della Regola di San Benedetto. Così, ho cercato di promuovere la conoscenza della Regola su molti fronti, incominciando dalla sua originale applicazione alla vita familiare. Da questa intuizione sul valore universale della Regola (nelle famiglie, nel lavoro, nelle parrocchie, nelle associazioni) si è sviluppata l'idea di rinnovare la vita monastica e la stessa teologia, alla luce di San Benedetto».
Ma la figura di San Benedetto come può essere sintetizzata?
«È il santo dell'ora et labora e il patriarca dei monaci d'Occidente. La cultura dei monasteri - che va dalla conservazione della latinità e della grecità, sino all'impulso dato all'agricoltura, alle arti grafiche e alla produzione di libri, miele e birra - deve moltissimo ai benedettini, come quelli di Subiaco e Montecassino o di Cluny in Francia».
Che rubriche avrà il sito web?
«Il rinnovamento che promuoviamo riguarda la vita dei religiosi, la vita parrocchiale e la stessa vita familiare. San Benedetto ha portato la teologia all'altezza dell'uomo comune, dell'uomo della strada, perché non ha voluto speculazioni teoriche, ma anzitutto essere esempio, silenzioso esempio per gli altri. Con il suo messaggio ha proposto una forma spirituale alla vita quotidiana. Il sito batterà su questo punto: nessuno vive da solo nel mondo, e se la comunità o la famiglia in cui si vive non segue regole condivise, il singolo si troverà ostacolato nella sua libertà. Per questo gli apostoli non scrivevano le loro lettere ai singoli, ma alle comunità (Romani, Efesini, Colossesi). San Benedetto procede sulla stessa strada, entrando nei dettagli della vita quotidiana, per darle una forma stabile e perenne. Il caos politico sociale ed economico di oggi, per non parlare della implosione della famiglia, richiede regole certe, meglio se temprate dal fuoco della storia e della Tradizione».
Cosa si propone di fare attraverso la rete e le sue restanti attività di scrittore e conferenziere?
«La nostra ambizione è quella di favorire un risveglio della vita cristiana anche per resistere meglio alle difficoltà del presente, schiacciato sul consumismo, l'irrazionalismo e il vittimismo».
Alcuni osservatori esperti, come i vaticanisti Aldo Maria Valli, Sandro Magister e Lorenzo Bertocchi, appaiono disincantati sul futuro del cattolicesimo, di cui la vita religiosa è un po' il cuore nascosto e pulsante. Lei che speranza sente di dare ai lettori più giovani?
«Il cardinale John Henry Newman (1801-1890) osservava che la Chiesa non è soltanto quella che la contemporaneità mette davanti ai nostri occhi. Il dogma della comunione dei santi non è una teoria, ma una realtà vivente. Tutti i santi che hanno costruito l'edificio della Chiesa sono presenti e operanti accanto a noi, e la loro luce è tale da far impallidire le ombre che ci ossessionano e ci turbano. Il servo del profeta Eliseo era terrorizzato dalla vista dei soldati che perseguitavano il suo padrone, finché il profeta non gli aprì gli occhi, mostrandogli un immenso esercito di angeli che combatteva per la loro difesa (2Re 6, 15-17)».
Senta padre, essendo monaco da quasi mezzo secolo, può svelarci qualche segreto della vita monastica, ovvero ciò che può renderla in qualche modo appetibile e piacevole?
«Vi è il continuo contatto con il mondo affascinante del sovrannaturale e con il mistero dell'esistenza, nel freddo e illimitato cosmo. Da un punto di vista più terreno, vi è il fatto che noi scegliamo il nostro monastero come si sceglie una sposa, e vi rimaniamo per tutta la vita, costi quel che costi. Ciò permette di dedicarsi senza fretta ad un progetto a lunga scadenza, e a poco a poco di vederne ed assaporarne i frutti».
Fabrizio Cannone
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Riduci
Il grande direttore d'orchestra a Norcia attacca la piaga dei nuovi canti liturgici: «Vedo anche certi vescovi... ma noi abbiamo una storia! Io nel giorno della mia morte vorrei sentire Palestrina e non delle canzonette».Domani l'incontro di papa Francesco a Roma con la generazione da lui amata, che «fa rumore» in modo esagitato. Ben diverso dalle Giornate della gioventù volute da papa Giovanni Paolo II, dalle quali sono nate realtà di fede autentica.Il benedettino Massimo Lapponi ha ideato un portale Web che vuole dare nuova speranza alla famiglia: «Senza regole condivise il singolo è ostacolato nella sua libertà».Lo speciale contiene tre articoliImpegnato in un grande evento musicale e di solidarietà dedicato alla terra umbra devastata dal sisma del 2016, il maestro Riccardo Muti è sembrato trasformarsi improvvisamente in un sindacalista, quando, al termine del concerto, ha chiesto il lavoro per i giovani e talentuosi musicisti. «Sarebbe un dovere dello Stato che questi giovani trovassero lavoro», e quindi che «ogni regione avesse orchestre». Applausi in piazza San Benedetto a Norcia, dove il maestro lo scorso 4 agosto ha diretto i talenti under 30 dell'orchestra Luigi Cherubini in alcuni estratti del Macbeth di Giuseppe Verdi. «Quante regioni non hanno un'orchestra o un teatro? In una terra d'arte, di bellezza… questa è una cosa grave. Non voglio approfittare dell'occasione per fare un discorso polemico, qui ci sono ragazzi che hanno dedicato la loro giovinezza all'arte ed è giusto quindi che abbiano la possibilità di trasmettere alla società i frutti del loro lavoro. La società diventerà e diventerebbe sicuramente migliore, anche perché noi abbiamo degli obblighi verso il nostro passato». A questo punto, sugli obblighi verso il passato, il maestro si interrompe, guarda il pubblico e con fare eloquente aggiunge: «E anche la Chiesa… vedo dei vescovi… anche la Chiesa, invece, di fare le schitarrate in chiesa…», procede sconsolato il maestro Muti mimando il gesto dello strimpellatore da sagrestia. La piazza si accende in un applauso che pare liberatorio, perfino i giovani musicisti inquadrati dalla diretta di Rai 5 sorridono alle parole del maestro, come succede quando qualcuno finalmente la dice tutta. «Noi abbiamo Palestrina», prosegue Muti sulle ali dell'entusiasmo della piazza, «abbiamo una storia… io come vorrei nel giorno della mia morte avere una musica di Palestrina intorno alla mia bara e non sentire: “E tuo fratello, na, na, na, na" (mima ancora il gesto dello strimpellatore da sagrestia, ndr)».Non è la prima volta che Riccardo Muti infila il dito nella piaga dei canti liturgici: oggi, dopo l'immane iconoclastia che ha colpito la musica sacra negli ultimi decenni, sono rimaste quasi solo canzonette. Ai funerali, specialmente di qualche vip, si è sentito nell'aria un motivetto di Vasco Rossi o Ligabue, autori gettonati anche nelle veglie di preghiera con i giovani. Qualche prete canzonettaro ai matrimoni si è esibito con Mamma Maria dei Ricchi e Poveri, e non manca il vescovo che predica con la chitarra e i testi pop. Un vero cult del genere resta la Bella ciao intonata da don Andrea Gallo con sventolio di fazzoletti rossi dall'altare a far da scenografia. «Non capisco perché una volta c'erano Mozart e Bach», disse Muti nel 2011 a Trieste ricevendo la cittadinanza onoraria, «mentre ora si va avanti a canzonette: così non si ha rispetto per l'intelligenza delle persone. Anche l'uomo più semplice e lontano, sentendo l'Ave verum può essere trasportato verso una dimensione spirituale, ma se sente le canzonette è come stare in un altro posto». Oggi a messa si cantano perlopiù i canti liturgici sfornati negli anni Settanta dagli intellettuali della riforma liturgica per il popolo. Più o meno sono sempre gli stessi canti di allora, con qualche aggiunta più recente, comunque sempre impregnata di una forte vena di sentimentalismo. È un pop liturgico che non si sa quanto davvero coinvolga l'assemblea nella preghiera, o soddisfi solo il volenteroso coretto parrocchiale.«Io ho denunciato questo costume, che definisco malcostume, di suonare canzoncine banali accompagnate da strimpellatori, con testi vuoti di significato e profondità in luoghi dove allora sarebbe meglio il silenzio per raggiungere un senso di congiungimento col divino». È ancora Muti nel 2010, richiamando la battaglia condotta da Benedetto XVI per riportare la liturgia al senso profondo che deve trasmettere. «È una cosa molto grave», disse, «e mi stupisco che i preti disattendano i moniti di Benedetto XVI».Già, l'allora cardinale Ratzinger in una delle sue opere più fortunate, Introduzione allo spirito della liturgia (2001), scriveva che «non ogni forma di musica può entrare a far parte della liturgia cristiana. (…) L'integrazione dell'uomo verso l'alto e non la sua liquidazione in un'ebrezza priva di forma o nella pura sensualità è il criterio di una musica conforme al Logos». Eppure la lezione di Ratzinger sulla liturgia, come rilevava il maestro Muti, è stata una delle più disattese dal clero. Chissà cosa avranno pensato i vescovi richiamati dal maestro in piazza a Norcia, loro che in teoria sarebbero chiamati a risolvere il problema, non è dato sapere se in realtà lo vivono davvero come tale. Se avvertono il problema spirituale e culturale che sorge dalla perdita del senso del sacro.Perfino un musicista politicamente corretto come Sting, intervistato in questi giorni dal National catholic register, deve ammettere di aver «adorato il canto gregoriano» e ha aggiunto che «c'è qualcosa nelle cadenze e nel ritmo della musica in latino che è molto speciale». Il beato Paolo VI, che sarà canonizzato nel prossimo ottobre, nella Sacrificium Laudis del 1966 (epistola apostolica sulla lingua latina da usare nell'Ufficio liturgico corale da parte dei religiosi tenuti all'obbligo del coro) si chiedeva: «Quale lingua, quale canto vi sembra che possa nella presente situazione sostituire quelle forme della pietà cattolica che avete usato finora? Bisogna riflettere bene, perché le cose non diventino peggiori dopo aver rinnegato questa gloriosa eredità. (…) Sorge anche un altro interrogativo: gli uomini desiderosi di sentire le sacre preci entreranno ancora così numerosi nei vostri templi, se non vi risuonerà più l'antica e nativa lingua di quelle preghiere, unita al canto pieno di gravità e bellezza?».Non si tratta di camminare in avanti con il collo girato all'indietro, ma, come ha detto Muti, di essere consapevoli del significato del passato. Perché a leggere le ultime ricerche dei sociologi della religione, in Italia la percentuale di fedeli che va a messa tutte le domeniche sarebbe ridotta a uno scarno 18%, un numero in costante calo e che offre una risposta alle domande che sollevava Paolo VI nel lontano 1966. Lorenzo Bertocchi<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/muti-contro-le-schitarrate-in-chiesa-2594288437.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-giovani-che-non-piacciono-al-papa-sono-quelli-che-servono-alla-societa" data-post-id="2594288437" data-published-at="1765650593" data-use-pagination="False"> I giovani che non piacciono al Papa sono quelli che servono alla società Papa Francesco, domani, incontrerà i «giovani» a Roma nel Circo Massimo. Più volte il Papa ha ribadito che vede i giovani come gente che fa «rumore» (anni fa usò un termine spagnolo equivalente a «fare casino») a fin di bene, ossia per smuovere la Chiesa. E se non fanno casino, secondo lui o sono anestetizzati da chi li manipola o sono pessimisti e allora hanno bisogno dello psichiatra. Lasciamo da parte il fatto che non tutti i giovani siano uguali: esistono quelli più casinisti, ma esistono anche quelli «nati vecchi», come si diceva una volta, ossia più prudenti e non dediti ai bagordi. I secondi sono sempre risultati antipatici a molta gente, perché chi sbaglia non ama rispecchiarsi in chi non commette gli stessi errori e si sente implicitamente rimproverato. Magari i giovani non casinisti soffrono dei guai che i loro coetanei casinisti combinano e sono i casinisti ad aver bisogno dello psichiatra, non quelli di buon senso. Sarebbe meglio giudicare le persone individualmente, anziché come categorie, ma purtroppo risulta molto difficile farlo in una società massificata come la nostra. Si dà dunque per scontato che il giovane sia uno che vuole «cambiare il mondo» in modo esagitato. Ma cambiarlo come? Tanti anni fa Benedetto Croce osservò che non esiste un «problema dei giovani» più di quanto esista un «problema della fioritura» e l'unico dovere dei giovani è quello di maturare prima possibile. Sagge osservazioni che cozzavano con l'uso che dei «giovani» andava facendo il fascismo. Tutti abbiamo presente i raduni di giovani acclamanti Benito Mussolini, un modello per il dittatore argentino Juan Domingo Perόn. Erano giovani che facevano «rumore» venendo manipolati: un po' come accade oggi con Bergoglio. Nella seconda metà del Novecento si affermò la categoria dei giovani che «fanno la pace e non la guerra». Di fatto questo si traduceva spesso nell'edonismo consumistico, tra droghe, sesso disinibito e musica rock. Un modo di vita che indubbiamente ha cambiato il mondo: resta da vedere se in meglio. È discutibile che la gioventù sia legata necessariamente al sesso libero. Quando nell'Ottocento si iniziarono a distinguere i giovani come categoria a parte rispetto alle generazioni precedenti, un aspetto era il loro identificarsi con una sorta di purezza di ideali, che li portava per esempio all'amore romantico, monogamo e fedele (quello dell'abito bianco da sposa, per capirci), l'opposto del libertinismo sessuale praticato dai ceti dirigenti europei. Un altro aspetto della loro purezza di ideali era l'offerta della propria vita per la libertà della Patria. Tutte cose oggi raramente presenti nel discorso pubblico sui «giovani», che risente dell'impostazione anni Settanta. Un altro gruppo di giovani furono infatti quelli che dal 1968 pretesero di «cambiare il mondo» con la violenza. S'è visto com'è finita: oggi comanda il capitalismo sfrenato transnazionale. E molti di quei giovani, ormai invecchiati, fanno pienamente parte del potere economico, massmediatico e universitario, tacendo sui loro errori di gioventù oppure nobilitandoli. Molti provenivano da ambienti cattolici: identificato il cristianesimo con la pretesa ideologica di cambiare il mondo, finirono col trasbordare su un marxismo in realtà ammuffito ma che prometteva di realizzare con le armi il cambiamento tanto agognato in nome della «giustizia». Si consideravano superiori agli altri perché avevano «ideali». Un particolare: erano ideali sbagliati. Nel dopoguerra l'Azione Cattolica di Luigi Gedda organizzava raduni giovanili di massa a Roma in onore di Pio XII, il «bianco padre». Ma quell'associazionismo cattolico finì travolto dalla bufera postconciliare, tra gli insulti dei «cattolici adulti». Nel 1975 il gesuita Giacomo Martina, in un fazioso volumetto sulla Chiesa in Italia nel trentennio precedente, commentava sprezzante quei raduni con papa Pacelli che interrogava i giovani: non si fa, sembrano quelli di Mussolini. Chissà che direbbe oggi il gesuita Martina delle domande retoriche del gesuita Bergoglio alla folla. Non solo: padre Martina disprezzava gli appena nati movimenti carismatici giovanili, descrivendoli come dei sempliciotti che non sarebbero durati a lungo. Oggi le comunità carismatiche sono diffuse in tutto il mondo e hanno riportato alla fede viva tantissimi giovani. Ma l'intellighenzia sedicente cattolica li snobba. Non è poi strano che alcuni giovani, delusi dalla realtà mediocre del Cattolicesimo più recente, quello delle chitarre e dell'«Alleluia delle lampadine», abbiano desiderato riallacciarsi a quello austero dei loro antenati, magari con la Messa nel vecchio rito, quella che cominciava con: «Mi accosterò all'altare di Dio/A Dio che rende lieta la mia giovinezza». Ma quei giovani Bergoglio ha detto più volte che non li capisce, gli sembrano rigidi. Non fanno casino, insomma. Un Papa che conosceva bene i giovani fu Giovanni Paolo II, l'inventore delle Giornate mondiali della gioventù. Grazie a lui sono nate tante realtà giovanili di fede autentica. I giovani lo hanno ringraziato gridando al suo funerale: «Santo subito!». L'apparato clericale oggi legato a Bergoglio, per lo più gente dai sessant'anni in su in cerca di rivincita, si è indignato per quell'acclamazione, dato che non aveva mai amato il papa polacco per motivazioni tra l'ideologico e il carrieristico, così come guardava col sopracciglio alzato i suoi raduni giovanili. E oggi pretende di affermare che l'insegnamento di papa Wojtyla è rigido e superato e non va bene per i giovani. Si dirà: ma papa Francesco parla di un Dio giovane per i giovani, come Gesù. Bene. Sorvoliamo sul fatto che Gesù trascorse l'età giovanile nel silenzio, senza farsi notare prima dei trent'anni, quando ormai era in età matura (non esisteva l'attuale categoria del «ragazzo» fino a quarant'anni). Quando Cristo disse, a coloro che volevano lapidare l'adultera: «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra!», l'evangelista Giovanni (il più giovane degli Apostoli) riferisce: «Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi». In altre parole: i giovani non volevano andarsene, si sentivano in diritto di lapidare la peccatrice perché loro si reputavano giusti, senza macchia. Ecco che cosa succede quando i giovani idealisti fanno rumore per «fare giustizia» e cambiare il mondo: si comincia con i lazzi e si finisce con le pietre. Gesù Cristo si aspetta ben altro dai giovani che il «fare casino» o una strizzatina d'occhio alle loro debolezze. Luca Pignataro <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/muti-contro-le-schitarrate-in-chiesa-2594288437.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-sito-dei-monaci-aiutera-a-battere-il-caos" data-post-id="2594288437" data-published-at="1765650593" data-use-pagination="False"> «Il sito dei monaci aiuterà a battere il caos» Padre Massimo Lapponi è l'ideatore di un sito internet che farà parlare di sé. Oltre ad essere un monaco dell'abbazia di Farfa, tra le più antiche abbazie della cristianità, ancora viva e vegeta, a pochi km da Roma. Teologo e autore prolifico (il suo San Benedetto e la vita familiare ha conosciuto traduzioni in molte lingue), padre Massimo è soprattutto un monaco che in pieno XXI secolo non rinnega l'affascinante tradizione monastica d'Occidente, iniziata da Benedetto da Norcia, 15 secoli fa. Per far riscoprire i valori forti del monachesimo ha appena dato vita ad una pagina web dedicata al Rinnovamento teologico benedettino. Padre, che cosa l'ha spinta alla vita monastica e che ricordi ha dei suoi primi anni di vita religiosa? «Bisogna ritornare al clima degli anni Sessanta del Novecento. Notavo già allora il rapido deterioramento della vita familiare, anche nelle famiglie credenti e praticanti. Per questo sentii la necessità di una svolta radicale nella mia vita e avvertii presto che il Signore mi chiamava a una scelta inattesa. Anche nell'ambiente monastico trovai segni di confusione e una problematica crisi di identità, che allora sfociò in esiti drammatici, come il caso celebre dell'abate Giovanni Franzoni, sospeso a divinis da Paolo VI per le sue posizioni filomarxiste e pro divorzio. Ma, accanto a ciò, conobbi monaci paterni e indimenticabili, dai quali ho potuto ricevere la grande eredità di un'antica tradizione». Come è cambiata la vita monastica, in Occidente, negli ultimi decenni? «La crisi, che era già presente da molto tempo, si è aggravata dopo il Concilio, anche se non sarebbe giusto non riconoscere gli sforzi positivi di tanti abati e priori per un autentico rinnovamento. Sembra che recentemente si sia diffuso un clima di resa. Ma sicuramente c'è un fuoco sotto la cenere che aspetta l'occasione propizia per manifestarsi. Con il sito e le altre iniziative vorremmo far divampare quel fuoco!». Per quale ragione ha inaugurato un sito Internet tra i mille, anche cattolici, che ci sono già? «La quantità dei siti è certamente immensa, ma la qualità non sempre è soddisfacente. Proprio nel mondo benedettino si sentiva la necessità di una presenza nuova, che si facesse portavoce del valore educativo e formativo della Regola di San Benedetto. Così, ho cercato di promuovere la conoscenza della Regola su molti fronti, incominciando dalla sua originale applicazione alla vita familiare. Da questa intuizione sul valore universale della Regola (nelle famiglie, nel lavoro, nelle parrocchie, nelle associazioni) si è sviluppata l'idea di rinnovare la vita monastica e la stessa teologia, alla luce di San Benedetto». Ma la figura di San Benedetto come può essere sintetizzata? «È il santo dell'ora et labora e il patriarca dei monaci d'Occidente. La cultura dei monasteri - che va dalla conservazione della latinità e della grecità, sino all'impulso dato all'agricoltura, alle arti grafiche e alla produzione di libri, miele e birra - deve moltissimo ai benedettini, come quelli di Subiaco e Montecassino o di Cluny in Francia». Che rubriche avrà il sito web? «Il rinnovamento che promuoviamo riguarda la vita dei religiosi, la vita parrocchiale e la stessa vita familiare. San Benedetto ha portato la teologia all'altezza dell'uomo comune, dell'uomo della strada, perché non ha voluto speculazioni teoriche, ma anzitutto essere esempio, silenzioso esempio per gli altri. Con il suo messaggio ha proposto una forma spirituale alla vita quotidiana. Il sito batterà su questo punto: nessuno vive da solo nel mondo, e se la comunità o la famiglia in cui si vive non segue regole condivise, il singolo si troverà ostacolato nella sua libertà. Per questo gli apostoli non scrivevano le loro lettere ai singoli, ma alle comunità (Romani, Efesini, Colossesi). San Benedetto procede sulla stessa strada, entrando nei dettagli della vita quotidiana, per darle una forma stabile e perenne. Il caos politico sociale ed economico di oggi, per non parlare della implosione della famiglia, richiede regole certe, meglio se temprate dal fuoco della storia e della Tradizione». Cosa si propone di fare attraverso la rete e le sue restanti attività di scrittore e conferenziere? «La nostra ambizione è quella di favorire un risveglio della vita cristiana anche per resistere meglio alle difficoltà del presente, schiacciato sul consumismo, l'irrazionalismo e il vittimismo». Alcuni osservatori esperti, come i vaticanisti Aldo Maria Valli, Sandro Magister e Lorenzo Bertocchi, appaiono disincantati sul futuro del cattolicesimo, di cui la vita religiosa è un po' il cuore nascosto e pulsante. Lei che speranza sente di dare ai lettori più giovani? «Il cardinale John Henry Newman (1801-1890) osservava che la Chiesa non è soltanto quella che la contemporaneità mette davanti ai nostri occhi. Il dogma della comunione dei santi non è una teoria, ma una realtà vivente. Tutti i santi che hanno costruito l'edificio della Chiesa sono presenti e operanti accanto a noi, e la loro luce è tale da far impallidire le ombre che ci ossessionano e ci turbano. Il servo del profeta Eliseo era terrorizzato dalla vista dei soldati che perseguitavano il suo padrone, finché il profeta non gli aprì gli occhi, mostrandogli un immenso esercito di angeli che combatteva per la loro difesa (2Re 6, 15-17)». Senta padre, essendo monaco da quasi mezzo secolo, può svelarci qualche segreto della vita monastica, ovvero ciò che può renderla in qualche modo appetibile e piacevole? «Vi è il continuo contatto con il mondo affascinante del sovrannaturale e con il mistero dell'esistenza, nel freddo e illimitato cosmo. Da un punto di vista più terreno, vi è il fatto che noi scegliamo il nostro monastero come si sceglie una sposa, e vi rimaniamo per tutta la vita, costi quel che costi. Ciò permette di dedicarsi senza fretta ad un progetto a lunga scadenza, e a poco a poco di vederne ed assaporarne i frutti». Fabrizio Cannone
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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Riduci
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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Riduci
Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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