2020-06-21
Morto Corso, l’anarchico della Grande Inter
Mario Corso con Giuseppe Meazza durante una premiazione a San Siro, in una immagine di archivio (Ansa)
Con i nerazzurri guidati da Helenio Herrera trionfò a livello mondiale. Incantò una generazione col suo sinistro fatato e le punizioni a «foglia morta». In campo non aveva regole: si giocò la nazionale per un gestaccio al mister. Ma perfino Pelé ammise di adorarlo. Troppo facile scomodare la lirica di Giuseppe Ungaretti: si sta come d'autunno sugli alberi le foglie. Tratto distintivo delle foglie che, cadendo, muoiono, ma non per questo, anzi proprio grazie a questo, corroborano la loro forza propulsiva e simbolica. Mario Corso fu il sensale tra le foglie e il pubblico che ne applaudiva le prodezze. Le sue punizioni, calciate con il piede sinistro decenni prima che la mano sinistra di Diego Armando Maradona ai Mondiali di Messico 1986 fosse chiamata la «Mano de Dios», furono ribattezzate «Il piede sinistro di Dio» per classe e predilezione alla balistica. Dando origine alla più nota delle conclusioni in porta nel calcio moderno: il tiro a foglia morta. Veronese, classe 1941, il 25 agosto avrebbe compiuto 79 anni. Mario Corso è morto a Milano due giorni fa, con la discrezione che la superstizione intorno al segno zodiacale della Vergine affibbierebbe alle personalità definitive e pure, concrete, ribelli al punto da perseguire un egotismo visuale in cui non c'è spazio per il mondo così per come è, ma così per come si vorrebbe fosse.Uno dei motivi per cui Mario Corso val la pena di essere ricordato furono i calzettoni abbassati, senza parastinchi. Peculiarità di chi prediligeva a una confezione etica, una libertà estetica. Helenio Herrera, allenatore di quella grande Inter che negli anni Sessanta vinse tutto, dallo scudetto alla Coppa dei campioni, mal digeriva la sua propensione federalista, dunque autonomista, dunque simpatica a Carlo Cattaneo, in un gioco, quello del calcio, che deve la sua esistenza al suo carattere centralista: l'allenatore decide e i calciatori eseguono. E però non poté fare a meno di lui. Un po' perché lo riteneva indispensabile, un po' perché il mecenate Angelo Moratti, papà di Massimo, aveva intuito che il calcio è uno sport fatto di resistenza, di pionierismo. Mariolino Corso fu protagonista nella Grande Inter di Herrera: due Coppe dei campioni, due Coppe intercontinentali e i bambini che recitavano la formazione come fosse un componimento ardito dannuziano: Sarti, Burnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Cappellini, Suarez, Corso. «Era l'unico calciatore che Pelé dichiaratamente avrebbe voluto nel suo Brasile», sentenziò Massimo Moratti. Trequartista prima che questo termine fosse utile a comprendere un'esatta propensione a un ruolo in campo, Corso fu definito da Gianni Brera, a cui piaceva il rito del calembour «il participio passato del verbo correre». Non aveva bisogno di tirare la carretta come un mulo sulla fascia sinistra, caratteristica tipica dei numeri 11, ala sinistra, ai suoi tempi. Più che girare per il campo come una trottola, faceva trottolare il pallone. Artista, prima ancora che pedatore, ha giocato oltre 500 partite realizzando 94 reti. Dopo la luminosa carriera coi nerazzurri, approdò al Genoa. Sandro Mazzola, centravanti, e Jair da Costa, ala destra carioca guizzante come un pesce baleno, sono in debito con lui di una quantità smodata di gol in quell'Inter da record. Corso non era un atleta, non potevi aspettarti che rincorresse il suo marcatore diretto, di solito un terzino che non varcava mai la sua metà campo per diktat tattico. Helenio Herrera, esigente come pochi dalla sua compagine, con lui era tollerante. Non lo apprezzava fino in fondo. Lasciate che Mariolino Corso interpreti il calcio come meglio crede, diceva ai suoi, e copritelo se necessario. Angelo Moratti, che per quel Mariolino stravedeva, gli regalò una Giulietta rombante, capace di compensare la passione di Corso per le auto sportive. Con la nazionale per lui niente Mondiali o Europei: una vergogna per chi crede nella tecnica e nel talento puro, ma anche un tratto marcato di chi fa delle biografie dense di colpi di scena un privilegio da raccontare ai posteri. Una sera a Tel Aviv, con l'Italia sotto per 2-0 contro i modesti israeliani, fu Corso a salvare capra e cavoli. Gli azzurri vinsero per 4-2 proprio grazie alla classe dell'interista, al tempo ventunenne. Mise in luce quel suo piede sinistro fatato che lo rendeva un'ala sinistra non del tutto ala sinistra, un centrocampista non del tutto centrocampista. Insomma, un trequartista puro. In quel periodo, stagione 1970-71, Corso ha compiuto il suo capolavoro: partito Suarez, ha preso per mano l'Inter guidando la rimonta sul Milan (risalendo da -7). Durante il derby, ha interpretato la partita come Batman interpreterebbe una sfida sul Joker. Regalando ai nerazzurri l'iscrizione all'albo delle leggende, e rievocando un altro episodio: in vista del Mondiale del Cile (1962), Giovanni Ferrari, tecnico azzurro, lo esclude dalla lista dei convocati. Durante un'amichevole Cecoslovacchia-Inter, prima della rassegna iridata, Corso col suo sinistro magico inventò un gol da cineteca. Dopo la prodezza, cercò con gli occhi il commissario tecnico in tribuna e gli dedicò un fatidico gesto dell'ombrello. L'evento suscitò scalpore, i sostenitori del politicamente corretto insorsero e la maglia azzurra da allora in poi diventò irraggiungibile per il genio mancino. Fu però emblema dei suoi tiri a foglia morta: la morte, come fatto fisico, non ha mai intaccato l'invulnerabilità del pensiero metafisico e veritativo.