2019-05-25
Morlacco, il formaggio dei nomadi che trovò casa sul monte Grappa
Il prodotto nacque nella lontana Dalmazia e fu portato in Italia dalla Serenissima. Le cime sacre, in virtù delle condizioni climatiche, ne divennero la culla. Oggi viene lanciato come volano per l'economia di frontiera.Quella del morlacco è una storia affascinante degna del miglior Sherlock Holmes caseario. È un formaggio identitario, cioè prodotto da secoli tra i pascoli del monte Grappa, ma sulla cui identità si è discusso a lungo. I morlacchi sono una misteriosa etnia nomade di area balcanica. Gente forte e bellicosa, sembra siano sorti dall'unione tra i coloni romani e le popolazioni locali a Nord dell'Albania prima della caduta dell'Impero romano, come scrisse l'abate Alberto Fortis, nel 1774, dopo un suo lungo viaggio in Dalmazia. Un popolo di confine che, in seguito alle invasioni turche, si ritirò sulle montagne balcaniche, dedicandosi alla pastorizia e quindi alla lavorazione del latte. Nei fiorenti commerci della Serenissima con le coste adriatiche i morlacchi ebbero un ruolo importante. Sfruttando la loro indole nomade spesso venivano dati loro in affidamento dei terreni confiscati, anche perché erano considerati il miglior baluardo al rivale ottomanno. Fu così che le galee veneziane portarono in patria il formaggio salà navegà, un prodotto di discreta salinità.Venne presto definito il formaggio dei poareti. Infatti la potente lobby dei casoini veneziani (i commercianti di settore) stabiliva un prezzario per ogni tipologia di formaggio, quasi una sorta di calmiere e, considerata anche la precaria condizione di vita delle popolazioni dell'entroterra, ben presto il (futuro) morlacco divenne merce ricercata. Era il tempo in cui la monticazione rappresentava una voce importante dell'economia di pianura. Sul fare della primavera molti prendevano la via delle montagne, con il loro bestiame, per recarsi verso l'altopiano di Asiago o sul monte Grappa. Per le sue condizioni pedoclimatiche il Grappa diventò quindi la culla di questo formaggio «alla maniera dei morlacchi». Ben ne racconta Giuseppe Valerio Bianchetti, in Asolando, uscito nel 1881, un diario di viaggio lungo la pedemontana trevigiana. Giunto a Borso del Grappa così lo descrive: «Borso, che senza essere la capitale della Morlacchia, pur va famosa per il formaggio morlacco». E, in effetti, a parte la leggenda, di morlacchi al tempo non vi è traccia documentata, anche perché si sono nel frattempo estinti motu proprio. Ma torniamo alle malghe del monte sacro alla patria. A quel tempo per i pastori vi era necessità di fare cassa subito e, quindi, la lavorazione del latte privilegiava la produzione del burro, di cui vi era grande richiesta in pianura. Il resto veniva consumato per uso domestico. Ecco allora che quello che era il formaggio dei poareti, in pianura, divenne il pasto quotidiano dei malgari in alpeggio. Risultava dalla scrematura della mungitura serale fatta in un locale apposito il cason de l'aria, una stanza areata che consentiva il passaggio della fresca brezza notturna. Dopo successivi passaggi e la cottura in una caldaia di rame, le forme venivano salate a secco per alcuni giorni in un locale chiamato casarin. Il formaggio poteva accompagnare la polenta, il pane o le patate. Alcune forme venivano conservate più a lungo, ma le condizioni igieniche non erano sempre ideali. Si formava una crosta giallo marrone che ha ben descritto Bepi Maffioli: «Emanava un forte odore che sapeva di calcagno» (da piedi, ndr). Leggenda racconta che alcune forme di morlacco giungessero in pianura al ritorno dal pascolo. Venendo lavate con l'acqua ricca di argilla che si ritrovava a valle, verso Cavaso del Tomba, si formava il morlacco increà, cioè rivestito di creta. Qualcuno lo ha paragonato al formaggio di fossa, per certe proprietà organolettiche. Franco De Pieri, apostolo dei formaggi di frontiera, a Treviso, racconta come fosse tradizione che queste forme si aprissero la vigilia di Natale ricordando alla famiglia riunita i profumi dell'alpeggio estivo e quindi della bella stagione. Qui sta uno dei segreti del morlacco, ovvero le particolari caratteristiche dei pascoli del Grappa, con una flora che varia dal versante Sud, rivolto verso la pianura, di tipo mediterraneo, a quello a Nord, verso le Dolomiti, con una maggior presenza boschiva. Un formaggio quindi, la cui storia viaggia tra leggenda e poesia ma, come ha giustamente osservato Danilo Gasparini, storico dell'alimentazione, «sono più i silenzi che le attestazioni» che lo circondano e «quanto alla leggenda la teniamo, perché fa colore». Un tempo era prodotto essenzialmente con il latte della vacca burlina, tanto è vero che, nel passato, veniva anche chiamato burlacco, acronimo tra mamma vaccina e il prodotto conseguente. Vacca burlina che ha visto un drastico ridimensionamento delle sue greggi, da 15.000 capi a poche centinaia. Eppure la qualità del suo latte è sempre stata superiore, a scapito di una produzione quantitativa inferiore. Poi è avvenuta la rinascita, grazie agli ultimi mohicani del morlacco, come li ha felicemente definiti Renato Malaman. Malgari giovani come Ivan Andreatta, Michele Pastorello, uno con laurea in gestione aziendale, ma anche professionisti di lungo corso, come Girolamo Savio, il cui morlacco è stato il primo ad aggiudicarsi il titolo di formaggio veneto dell'anno al prestigioso Caseus Veneti, nel 2013. Ora il morlacco ha cambiato marcia, grazie a chi ha saputo credere in lui. Non solo i malgari, ma anche imprenditori illuminati quali Mauro Toniolo, il quale ha voluto investire su questo prodotto, sia per le mille storie che può raccontare (o suggerire), ma anche per le potenzialità gastronomiche che lo supportano anche quale volano per l'economia di frontiera che vede gli alpeggi unico argine alla desertificazione della montagna. Ora, nella lavorazione, alla scrematura serale si è aggiunta anche la mungitura del mattino, dando maggior equilibrio al prodotto tanto che «il morlacco è un formaggio della tradizione che, grazie alla modernità, si è evoluto superando i limiti con cui è nato», come racconta Toniolo nel suo bel libro Vero morlacco. La sua ecletticità, a tavola, rende ragione del suo potenziale valore. Lo si può ritrovare nei risotti, abbinato allo speck, come alle pere o al radicchio di Treviso. Con la zucca ha avuto l'onore dei riflettori alla Prova del cuoco, con Antonella Clerici. Morlacco con i bigoli (e l'immancabile radicchio) con cui fa ambo anche con le lasagne. Ci sta pure con gli gnocchi, assieme a zucchine e mandorle tostate. Alla staffa non poteva mancare la pizza al morlacco, assieme a bietola e funghi, secondo una felice intuizione del veronese Renato Bosco. Ne è passato, quindi, di tempo da quando non c'era un morlacco, ma 1.000, tanto quanto le malghe del Grappa e la cui lavorazione era tramandata per via orale, in ogni famiglia. Non è un caso che il morlacco, nel 2014, abbia stretto un ideale gemellaggio con un altro formaggio di frontiera, il bitto storico della Valtellina. Il morlacco è diventato protagonista di una performance teatrale, con le sue memorie raccolte da Lucio Carraro e Gino Bortoletto, Tre cuoche, un morlacco e uno chef, messo in scena al Teatro del pane di Treviso, un palcoscenico con uso di cucina, originale laboratorio di idee che fanno spettacolo voluto da Mirko Artuso.
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